A Gaza la tregua umanitaria non basta
L’aggettivo “umanitario” è usato sempre più spesso: a proposito della pausa o tregua umanitaria chiesta a Israele, dell’invio di aiuti umanitari a Gaza da parte di numerosi paesi, della conferenza umanitaria che si terrà il 9 novembre a Parigi.
A quasi un mese dall’inizio dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza in risposta al massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas nel sud di Israele, le cose di cui c’è bisogno sono chiaramente molte. I civili sono le prime vittime della guerra senza pietà scatenata dallo stato ebraico contro il movimento islamista. Gli aiuti che arrivano a Gaza sono totalmente insufficienti.
Ma anche durante la guerra la politica e la diplomazia non perdono le loro prerogative. Se gli occidentali mettono in primo piano l’azione umanitaria non è solo per rispondere ai bisogni della popolazione, ma anche perché non vogliono (o non possono) imporre un’interruzione dei combattimenti.
Il tema è causa di tensione in Medio Oriente e nelle opinioni pubbliche occidentali. A Ramallah, dove si trovava nel fine settimana, il segretario di stato americano Antony Blinken ha incontrato Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, che chiede un cessate il fuoco mentre gli Stati Uniti si limitano a invocare una pausa umanitaria.
Non si tratta di una semplice sfumatura: una pausa o tregua umanitaria è solo un interludio nella guerra per lasciar arrivare gli aiuti alla popolazione. È indispensabile e auspicabile, ma dopo qualche ora l’inferno riprende. Si allevia il dolore ma non si risolve niente.
Un cessate il fuoco, invece, consiste in uno stop ai combattimenti per fare in modo che la diplomazia e la politica tentino di risolvere la crisi. Catherine Colonna, ministra degli esteri francese, ha tentato di trovare un compromesso chiedendo il 5 novembre, in occasione del suo viaggio in Qatar, “una tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta” che “possa portare a un cessate il fuoco”.
Il problema è che Israele si rifiuta categoricamente. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che gli appelli al cessate il fuoco equivalgono a una “resa nei confronti di Hamas” e ha preteso la liberazione dei circa 240 ostaggi tenuti a Gaza come condizione per la fine delle ostilità.
Gli Stati Uniti sono gli unici ad avere una reale influenza su Israele. È dunque probabile che a un certo punto la richiesta di una pausa umanitaria da parte di Washington sarà soddisfatta, anche considerando che l’amministrazione Biden deve affrontare la spaccatura nell’elettorato democratico sulla questione palestinese.
Secondo Barak David, uno dei giornalisti israeliani più informati, nel fine settimana Blinken ha sostenuto con il gabinetto di guerra israeliano che una simile pausa permetterebbe a Israele di guadagnare tempo per organizzare meglio le operazioni a Gaza.
Questa possibile tregua sarà fondamentale per le vittime, che potranno finalmente ricevere soccorso. Ma appunto sarà solo una pausa. Israele non vuole rinunciare al suo obiettivo militare di distruggere Hamas a Gaza né alla natura implicita dell’operazione, ovvero quella di una vendetta per il trauma del 7 ottobre. Qualsiasi azione umanitaria, in questo senso, sarà solo una concessione fatta agli occidentali. La fine della guerra sembra ancora molto lontana.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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