Le tre conseguenze geopolitiche della guerra a Gaza
A un mese dall’attacco terroristico di Hamas, l’onda d’urto della guerra si fa sentire in tutto il mondo: dalla lontana Colombia, che ha richiamato il suo ambasciatore in Israele, alla manifestazione di due milioni di persone dello scorso weekend a Giacarta, in Indonesia, all’irrigidimento dei paesi arabi che avevano trovato un’intesa con lo stato ebraico. Lo shock ha segnato l’opinione pubblica di molti paesi, con ondate antisemite e tensioni tra comunità, soprattutto in Europa.
L’impatto geopolitico della guerra a Gaza è considerevole e ha tre conseguenze. La prima riguarda gli Stati Uniti, coinvolti come non lo erano da tempo in Medio Oriente, una polveriera da cui avevano cercato di allontanarsi. La partecipazione militare e diplomatica americana è massiccia.
Allo stato attuale gli Stati Uniti sono riusciti a dissuadere l’Iran e i suoi alleati dal provocare un’escalation che cambierebbe la natura della crisi. La vicepresidente Kamala Harris ha risposto con due parole a un giornalista che le chiedeva quale messaggio volesse inviare all’Iran: “Non fatelo”. Almeno finora, sembra che il messaggio sia stato ricevuto.
Ma la partecipazione di Washington al fianco di Israele ha un costo considerevole sul fronte interno, soprattutto per gli effetti sui giovani elettori democratici sensibili alla causa palestinese. A meno di un anno dalle elezioni presidenziali e con l’ombra di Donald Trump che incombe minacciosa, si tratta evidentemente di una scelta carica di rischi.
La seconda conseguenza riguarda Israele, che vive una triplice crisi. Intanto c’è il trauma del 7 ottobre, il calvario degli ostaggi e la guerra a Gaza. Gli effetti politici del conflitto sono ancora imprevedibili, ed è possibile un big bang come dopo la guerra arabo-israeliana del 1973. Il colpo di mano di Benjamin Netanyahu contro le istituzioni democratiche non dovrebbe sopravvivere ai fallimenti del suo governo sul piano della sicurezza. Poi c’è la questione palestinese, che la coalizione di estrema destra pensava di avere sotto controllo, tanto da condurre tranquillamente il suo piano di colonizzazione a oltranza in Cisgiordania. La questione palestinese non sparirà. Infine, la crisi di Israele riguarda anche la strategia della distensione dei rapporti con il mondo arabo, fino a poco tempo fa considerata un successo. Ora, invece, dopo le immagini di Gaza bombardata, sarà difficile rimettere insieme i pezzi. Il prezzo politico sarà elevato.
La terza conseguenza geopolitica della guerra in corso coinvolge il resto del mondo. Un evento di questa portata ha come effetto inevitabile il passaggio in secondo piano degli altri focolai di tensione. Il più grave è evidentemente quello in Ucraina, paese che si ritrova ormai in concorrenza con Israele per il sostegno di Washington. Con l’avvicinarsi delle elezioni negli Stati Uniti le cose diventeranno sempre più complicate.
Evidentemente tutto questo fa il gioco di Vladimir Putin, che non chiedeva di meglio. Senza fare troppa fatica, infatti, il Cremlino può riproporre l’accusa rivolta agli occidentali di adottare due pesi e due misure, incassandone i benefici. Lo stesso vale per la Cina di Xi Jinping. Gli occidentali pagano le loro contraddizioni evidenti agli occhi di un sud globale che si emancipa sempre di più, tra una crisi e l’altra.
Ma l’invisibilità contagia tutti gli altri conflitti. Chi si ricorda degli armeni che hanno brevemente attirato l’attenzione mondiale a settembre? O peggio ancora, chi si preoccupa dei quasi sette milioni di congolesi sfollati a causa degli scontri nell’est della Repubblica Democratica del Congo? C’è un mondo da ricostruire, ma per farlo bisognerà attendere la fine della guerra a Gaza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)