In guerra non sono soltanto gli eserciti a parlare. Anche se al momento non si vedono ancora i risultati, i negoziatori sono comunque attivi dietro le quinte.
Il 9 novembre abbiamo saputo che il direttore della Cia statunitense William Burns e il capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, David Barnea si trovavano in Qatar, dove hanno incontrato il primo ministro e i vertici qatarioti dell’intelligence. Il Qatar è il paese che vanta i legami più diretti con Hamas, che ha finanziato a lungo con l’approvazione di Israele.
Sempre il 9 novembre i principali leader politici di Hamas all’estero, Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, sono arrivati al Cairo. L’Egitto confina con la Striscia di Gaza ed è un altro paese chiave dell’equazione mediorientale. Inoltre nel fine settimana gli stati arabi e musulmani si ritroveranno in Arabia Saudita, mentre a Parigi si teneva ieri una conferenza sull’aspetto umanitario della guerra di Gaza, con la partecipazione dell’Autorità palestinese ma non di Israele.
Qual è il significato di questa frenesia di incontri e vertici mentre a Gaza prosegue la tragedia? I temi da discutere non mancano, dal destino dei 240 ostaggi nelle mani di Hamas alle questioni umanitarie e ai modi di soccorrere la popolazione disperata di Gaza, fino al futuro politico ancora incerto che bisognerà costruire. Le questioni sul tappeto sono tante, ed è difficile fare passi avanti mentre le bombe continuano a devastare Gaza.
Il 9 novembre il governo israeliano ha fatto una prima concessione accettando l’idea di una pausa umanitaria di quattro ore al giorno per permettere agli aiuti internazionali di raggiungere Gaza. Gli americani avevano chiesto una pausa di tre giorni, ma si sono dovuti accontentare di molto meno.
Resta il fatto che si tratta della prima apertura da parte del governo israeliano dopo il massacro del 7 ottobre e l’inizio delle rappresaglie a Gaza. Uno degli alleati di estrema destra di Benjamin Netanyahu ha subito parlato di “grave errore”.
Il primo ministro israeliano ha comunque precisato che un cessate il fuoco – soluzione chiesta da molti paesi, dalle Nazioni unite e dalle ong umanitarie internazionali – è fuori discussione.
Il tema del cessate il fuoco è determinante. Il presidente francese Emmanuel Macron ha affrontato l’argomento per la prima volta il 9 novembre, aprendo la conferenza umanitaria di Parigi. Macron non lo ha chiesto direttamente, ma ha manifestato la speranza che le “pause umanitarie” possano portare a un’interruzione a tempo indeterminato delle operazioni militari. Ma al momento siamo ancora lontani da questo scenario. Israele vuole andare fino in fondo nel suo attacco per distruggere le infrastrutture di Hamas a Gaza.
I negoziatori lavorano anche sul problema degli ostaggi, con un ruolo fondamentale ricoperto da Qatar ed Egitto. In questi giorni circola la voce di liberazioni imminenti, ma la trattativa resta complessa e soggetta a cambiamenti improvvisi.
Infine c’è la preparazione del futuro politico dopo la guerra. Gli Stati Uniti vogliono rimettere al comando l’Autorità palestinese di Abu Mazen, che tuttavia non può permettersi di apparire come un supplente, sponsorizzato da Washington, dell’esercito israeliano.
La chiave del problema sarebbe il rilancio di un processo politico con l’obiettivo di riportare in vita la soluzione dei due stati, come chiesto da Joe Biden, da Emmanuel Macron e da altri. Ma tutti sanno che si tratta di un compito estremamente difficile. Per il momento molti protagonisti continuano a parlarsi ed è comunque meglio di niente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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