La ripresa della guerra a Gaza segna il fallimento della diplomazia
Purtroppo la fine della tregua tra Israele e Hamas era prevedibile. Non era tanto una questione di “se”, ma di “quando”. Negli ultimi giorni Israele aveva ribadito più volte di non aver ancora raggiunto il suo obiettivo di distruggere Hamas a Gaza e di avere tutta l’intenzione di portarlo a termine.
Nonostante questo, la diplomazia sta continuando a lavorare. Il 30 novembre il segretario di stato americano Antony Blinken era in Israele per cercare di convincere i leader del paese, in caso di ripresa della guerra, a ridurre al minimo le vittime civili e condurre un’operazione più “chirurgica”.
È ancora troppo presto per capire se il messaggio è stato accolto. Nei prossimi giorni capiremo se Israele applicherà nel sud di Gaza la stessa strategia adottata nel nord o se condurrà operazioni più mirate in un’area densamente popolata.
Il presidente francese Emmanuel Macron è a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, per la Cop28, ma dedicherà una parte degli incontri alla crisi in Medio Oriente. Lo stesso farà nella tappa successiva del suo viaggio, in Qatar, paese decisivo per il negoziato sul destino degli ostaggi e non solo.
La verità è che finora l’Europa è stata presente soprattutto sul piano umanitario (alcuni paesi, come la Francia, hanno anche trattato dietro le quinte la liberazione dei loro cittadini), ma quando si parla di operazioni militari o soluzione politica per il dopoguerra, la Francia e l’Europa sono del tutto assenti.
Il primo motivo è che l’Europa non mostra l’unità necessaria sulla Palestina e i suoi abitanti. Per accorgersene basta fare caso alle votazioni all’Onu, in cui i 27 figurano in ordine sparso: la Germania, per ragioni storiche, non vuole allontanarsi minimamente da Israele, mentre la Spagna è il paese che esprime le proprie perplessità in modo più netto, al punto che Israele ha richiamato il suo ambasciatore a Madrid dopo una dichiarazione sgradita del primo ministro Pedro Sánchez.
Il secondo motivo è che Israele non si fida degli europei, giudicati troppo vicini ai palestinesi. È una vecchia questione. Lo stato ebraico è rimasto scottato dalla dichiarazione di Venezia del 1980, in cui la Comunità europea aveva sostenuto la soluzione dei due stati.
Benjamin Netanyahu ha sempre privilegiato gli Stati Uniti, mantenendo le distanze dall’Europa. L’Unione europea va bene se elargisce fondi, ma non se prova a influenzare le scelte politiche di Israele. È possibile che questa situazione cambi? Difficile, anche se Macron sta cercando di far emergere almeno una posizione francese. La Francia mantiene buoni rapporti con i paesi del Golfo, che hanno un enorme peso nell’area, dunque può dialogare con tutte le parti coinvolte. Ma non ha più l’influenza che aveva avuto fino all’epoca di Jacques Chirac, e in questa crisi è sembrata esitare.
Primo partner commerciale di Israele e primo sostenitore dei palestinesi, oltre che cassa di risonanza di tutti i conflitti nel Medio Oriente, l’Europa non può restare a osservare i drammi che si consumano alle sue porte. Ma è difficile risvegliarsi da un sonno così lungo, soprattutto quando la parola è tornata alle armi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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