Tra Biden e Netanyahu il peggio deve ancora venire
“Netanyahu fa più male che bene a Israele”. Questa frase avrebbe potuto essere pronunciata da uno degli avversari liberali del primo ministro israeliano e invece è di Joe Biden, presidente degli Stati Uniti e primo sostenitore di Israele nella sua guerra contro Hamas dopo il 7 ottobre.
In un’intervista concessa il 9 marzo all’emittente americana Msnbc, Biden si è spinto addirittura oltre, denunciando la strategia militare di Netanyahu e il numero enorme di vittime civili a Gaza. “Tutto questo è contrario a ciò che rappresenta Israele”, ha concluso Biden. “È un errore, ed è per questo che chiedo un cessate il fuoco”.
Parole forti, evidentemente. La posizione di Biden è il punto d’arrivo di una serie di critiche mosse da un presidente statunitense visibilmente frustrato nei confronti del suo alleato israeliano. Il problema è che dopo queste frasi non è successo assolutamente niente: nessun cessate il fuoco, nessun cambiamento di strategia e nemmeno l’ammissione di un disaccordo con Biden. Niente.
La vicenda solleva una serie di interrogativi sul ruolo del presidente statunitense, sulla sua reale influenza e sulla sua reticenza a intervenire con decisione per cambiare le cose nella Striscia di Gaza.
Per capire la situazione bisogna tenere presenti due elementi. Il primo è che i rapporti tra Biden e Netanyahu non sono mai stati basati sulla fiducia. Già nel 2015 il primo ministro israeliano aveva aggirato l’amministrazione democratica (di cui Biden era vicepresidente) chiedendo direttamente al congresso di non ratificare l’accordo sul nucleare con l’Iran. I motivi di scontro non mancano nemmeno tra Netanyahu e i democratici. Il primo ministro israeliano prega per una vittoria di Donald Trump a novembre, sperando di essere ancora al potere quando si terranno le elezioni negli Stati Uniti.
Il secondo elemento da considerare è che Biden sta cercando un equilibrio tra il sostegno incrollabile e di lunga durata allo stato ebraico e la chiara ostilità nei confronti dell’attuale primo ministro. D’altronde non è facile sostenere un paese in guerra quando non si ha fiducia nei suoi leader. Il risultato è la ricerca di nuove strategie per evitare che Washington sia trascinata in situazioni che Biden non intende accettare.
Prendiamo l’esempio degli aiuti umanitari. Mentre la popolazione di Gaza è in preda alla fame, Israele sta bloccando i convogli composti da centinaia di camion che attendono alla frontiera in Egitto. Invece di forzare la mano di Netanyahu, Biden cerca alternative, paracadutando gli aiuti (soluzione inefficace) e promettendo di allestire un porto galleggiante davanti alla costa di Gaza. Ma è un processo lungo e costoso, mentre basterebbe aprire la frontiera.
La stessa dinamica si ripresenta sul fronte politico. L’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, rivale di Netanyahu e membro del gabinetto di guerra, è stato ricevuto alla Casa Bianca senza l’accordo del primo ministro israeliano, che si è infuriato. Washington vorrebbe chiaramente vedere Gantz al posto di Netanyahu per il dopoguerra, quando arriverà il momento di cominciare un percorso politico per la Striscia.
Il problema è che queste sottigliezze sono eclissate dalle immagini della carneficina a Gaza, di cui una parte degli elettori statunitensi ritiene Biden complice. Mentre ancora si aspetta il cessate il fuoco e l’inizio del Ramadan trasforma Gerusalemme e la spianata delle moschee in una polveriera, gli americani corrono il rischio di essere sopraffatti da un alleato che giudicano irresponsabile. Probabilmente tra Biden e Netanyahu il peggio deve ancora arrivare.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Iscriviti a Americana |
Cosa succede negli Stati Uniti. Una newsletter a cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Americana
|
Cosa succede negli Stati Uniti. Una newsletter a cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |