L’attentato di Mosca tra fatti e manipolazioni
Come accade spesso quando si verifica un evento devastante come l’attentato terroristico del 22 marzo a Mosca, il cui ultimo bilancio è di almeno 140 morti, abbiamo i fatti, le zone d’ombra e manipolazioni di ogni genere.
Partiamo dal primo fatto incontestabile: alcuni uomini armati hanno fatto irruzione in una grande sala concerti della capitale russa, aprendo il fuoco sulla folla. L’attentato ricorda quello del Bataclan a Parigi del 2015, ma in questo caso le forze di polizia sono arrivate dopo la fuga degli assalitori. Nelle ore successive, lontano da Mosca, sono state arrestate quattro persone originarie del Tagikistan, ex repubblica sovietica dell’Asia centrale. La loro confessione immediata è stata diffusa sui social network.
Il secondo fatto è la rivendicazione dell’attentato del Crocus city hall da parte del gruppo Stato islamico e nello specifico del ramo del Khorasan, ovvero dell’Afghanistan. Gli esperti hanno dato credito alla rivendicazione e ricordano che l’organizzazione non ha l’abitudine di assumersi la responsabilità di azioni che non ha compiuto. Il 23 marzo il gruppo Stato islamico ha diffuso nuovi video per dimostrare di aver organizzato l’attacco. Qui finiscono i fatti ed entriamo nel campo delle zone d’ombra e delle manipolazioni.
Prendiamo la reazione di Vladimir Putin, che dopo un lungo silenzio ha preso la parola il 23 marzo per accusare… l’Ucraina. Più precisamente, il presidente russo ha annunciato che i terroristi stavano fuggendo in direzione dell’Ucraina, dove erano attesi. Putin non ha citato direttamente il gruppo Stato islamico, nonostante a quel punto l’organizzazione avesse già rivendicato la paternità del massacro. Il fatto che Putin accusi l’Ucraina non sorprende nessuno. Era del tutto prevedibile che la comunicazione del Cremlino cercasse di colpire il suo avversario in un conflitto che sta vivendo una nuova escalation. D’altronde la parola “guerra” comincia a essere utilizzata ufficialmente anche a Mosca. E non è un buon segno. Dato che Putin non ha fornito le prove della collusione tra i terroristi e Kiev, bisogna prendere con le molle la “narrativa” russa, il cui obiettivo, più che fare luce sull’attentato, potrebbe essere quello di giustificare la sua guerra contro l’Ucraina, in corso da due anni.
La prima lezione di questo tragico evento è che esistono ottimi motivi per diffidare delle accuse russe. Prima di tutto perché Putin deve giustificare agli occhi della popolazione il disastro della sicurezza andato in scena il 22 marzo, anche alla luce degli avvertimenti americani di tre settimane fa, ignorati platealmente da Mosca. Inquadrando l’attentato nella cornice della guerra con l’Ucraina e l’occidente, il presidente russo fornisce una spiegazione semplice, forse troppo semplice. La seconda lezione è che la Russia ha indirizzato tutti i suoi sforzi militari, industriali e umani verso la guerra contro l’Ucraina, al punto da trascurare la lotta contro il terrorismo. È una delle grandi debolezze degli stati moderni, incapaci di gestire più di una crisi alla volta. L’attentato in Russia ne è l’ennesima dimostrazione.
Mosca ha una lunga storia di conflitti con il terrorismo jihadista, dalla guerra sovietica in Afghanistan a quella in Cecenia (durante il primo mandato di Putin) fino alle operazioni in Siria e in Sahel. Tutti gli indizi, insomma, puntano lontano dall’Ucraina, con buona pace di Vladimir Putin, appena rieletto ma già alle prese con una sfida che non aveva previsto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)