Un segnale di speranza dalla Turchia
La sera del 31 marzo, in Turchia, si respirava un’aria di “autunno del patriarca”, per riprendere il titolo di un celebre romanzo di Gabriel García Márquez. Il patriarca in questione è Recep Tayyip Erdoğan, il presidente turco che, arrivato alla soglia dei settant’anni, ha subìto la sconfitta politica più cocente della sua lunga carriera. Paradossalmente questa delusione alle elezioni amministrative è arrivata ad appena dieci mesi di distanza da quando Erdoğan è stato confermato alla guida del paese. Dopo vent’anni al potere, quella vittoria aveva dimostrato che il capo del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, conservatore e promotore dell’islam politico) non era ancora arrivato al capolinea.
Anche per questo la sconfitta incassata il 31 marzo dai candidati dell’Akp a Istanbul, Ankara e in molte altre città, compresa la roccaforte dell’Anatolia, è particolarmente significativa. Soprattutto a Istanbul, dove il presidente ha condotto personalmente la campagna elettorale e dove il candidato dell’Akp è stato staccato di dieci punti dal sindaco uscente Ekrem İmamoğlu, del Partito popolare repubblicano (Chp, socialdemocratico e laico).
In passato Erdoğan, ex sindaco della metropoli turca, aveva dichiarato che la vittoria a Istanbul era la chiave del trionfo nazionale. La sconfitta del suo partito, in questo senso, appare tanto più dolorosa. Le elezioni sono state locali e non nazionali, dunque non è il caso di sopravvalutarne la portata. Ciononostante il voto ci ricorda che, anche in un paese autoritario, il potere può vacillare e addirittura cadere.
Erdoğan appartiene alla categoria degli “uomini forti” che minano la democrazia cercando di ridurla a pura apparenza. Nell’arco di due decenni il presidente ha smantellato meticolosamente la libertà di stampa, ha sbaragliato l’opposizione parlamentare (di cui uno dei principali leader, Selahattin Demirtaş, è in carcere dal 2016), ha epurato i vertici dell’esercito, del sistema giudiziario e dell’istruzione e infine ha messo la museruola alla società civile. Il celebre filantropo Osman Kavala è detenuto da sette anni.
Eppure anche un leader onnipotente può incorrere in una battuta d’arresto, come dimostrano le elezioni amministrative che sembrano annunciare la fine di un regno, anche se a Erdoğan restano ancora quattro anni di mandato. Diversi fattori hanno giocato un ruolo rilevante: prima di tutto l’economia, con un’inflazione al 60 per cento e una politica finanziaria discutibile. Ma non possiamo dimenticare l’usura del potere e la corruzione che ne deriva. In questo contesto è indispensabile distinguere tra un regime diventato dittatoriale – come quello di Vladimir Putin, che ormai affronta le elezioni senza il minimo rischio – e i regimi autoritari o illiberali, che lasciano un margine di manovra all’opposizione politica.
La Polonia, conquistata nel 2015 dagli ultraconservatori di Diritto e giustizia (Pis), ha seguito il metodo Erdoğan imponendo il proprio controllo sui mezzi d’informazione e sulla giustizia, nel tentativo di garantire la propria longevità. Ma a ottobre il partito di governo è stato battuto dai liberali guidati dall’ex leader europeo Donald Tusk. In Brasile, l’anno scorso, il bilancio pessimo del governo ha permesso a Lula di sconfiggere Jair Bolsonaro, che ha tentato un colpo di mano per restare al potere.
Le pressioni internazionali, come quelle che l’Europa ha esercitato sulla Polonia in passato e sull’Ungheria in tempi recenti, permettono alla democrazia di sopravvivere e mantenere in vita la possibilità di un’alternanza. È il significato della vittoria dell’opposizione repubblicana in Turchia. Per riprendere la metafora di Gabriel García Márquez, siamo davanti a un “autunno” che annuncia la possibile fine del potere di Erdoğan.
(Traduzione di Andrea Sparacino)