Il battaglione ultraortodosso israeliano nel mirino degli Stati Uniti
Nello stesso momento in cui il congresso approvava un pacchetto di aiuti per Israele da 26 miliardi di dollari, l’amministrazione Biden annunciava per la prima volta una serie di sanzioni nei confronti di un’intera unità dell’esercito israeliano, attiva in Cisgiordania e accusata di aver commesso violazioni dei diritti umani.
Benjamin Netanyahu ha definito il provvedimento “assurdo” e ha promesso di opporsi con tutti i mezzi disponibili. Altri componenti della sua coalizione hanno reagito in modo più aggressivo, parlando senza mezzi termini di “atto antisemita”.
Per capire l’importanza delle sanzioni bisogna ricordare che la vicenda, senza precedenti, riguarda un’unità simbolo: il battaglione Netzah Yehuda, composto da soldati ultraortodossi, cresciuti all’interno di famiglie religiose e impegnati nei territori occupati. Il battaglione è un’unità omogenea fondata alla fine degli anni novanta i cui comandanti hanno dichiarato in passato di portare avanti “una missione santa in Giudea e Samaria”, il nome biblico della Cisgiordania.
La reputazione del battaglione è macchiata da diversi scandali e abusi, a cominciare dalla morte, due anni fa, di Omar Abdalmajeed As’ad, un palestinese di ottant’anni in possesso di un passaporto statunitense. L’anziano era stato arrestato a un posto di blocco, prima di essere ammanettato e lasciato al freddo fino alla morte. Il suo destino ha avuto un peso rilevante nelle sanzioni.
I provvedimenti decisi da Washington, ancora da chiarire, impediranno all’unità di beneficiare degli aiuti provenienti dagli Stati Uniti. È una mossa largamente simbolica, ma bisogna sottolineare che gli americani hanno fatto ricorso alla legge Leahy, approvata negli anni novanta per opporsi alle violazioni dei diritti umani da parte dei gruppi paramilitari in America Latina. Il fatto che un’unità delle forze di difesa israeliane sia assimilata a una milizia la dice lunga sulle accuse che le sono rivolte e sul carattere umiliante delle sanzioni.
Tutto questo è il riflesso di ciò che sta succedendo in Cisgiordania mentre l’attenzione si concentra altrove, a Gaza o sullo scontro con l’Iran. Statunitensi ed europei hanno lanciato l’allarme sull’aumento della violenza dei coloni, che continuano a opprimere i civili palestinesi approfittando della protezione dell’esercito. Uliveti sradicati, case e veicoli incendiati, terreni confiscati dall’amministrazione israeliana: questo è il contesto in cui sono arrivate le sanzioni.
Al momento i provvedimenti non hanno ancora conseguenze, perché le prime sanzioni imposte dagli Stati Uniti, seguite da quelle dei governi europei, hanno colpito solo un gruppo esiguo di coloni particolarmente estremisti. Ma il messaggio è più profondo: le sanzioni vogliono dimostrare all’opinione pubblica e ai leader israeliani, quelli di oggi ma soprattutto quelli di domani, che l’impunità in Cisgiordania non è più accettabile. È uno sviluppo atteso da tempo, in un ambito in cui la comunità internazionale ha chiuso fin troppo gli occhi mentre la colonizzazione, illegale sul piano del diritto internazionale, ha continuato a svilupparsi. In ballo c’è la credibilità del processo politico nel dopoguerra.
Bentzi Gopstein, consulente del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, di estrema destra, è venuto a conoscenza delle sanzioni quando ha provato a pagare qualcosa con la sua carta di credito in una stazione di servizio. La carta era stata bloccata perché Gopstein è in una lista di coloni violenti stilata dagli Stati Uniti. Davanti alla catastrofe in atto sembra poca cosa, ma è comunque un passo avanti dopo decenni di impunità.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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