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Israele è un paese sempre più diviso

Tel Aviv, 13 maggio 2024. Una manifestazione per chiedere la liberazione degli ostaggi, durante le celebrazioni per la giornata in ricordo delle vittime delle guerre e del terrorismo. (Alexi J. Rosenfeld, Getty Images)

Lo stato israeliano ha un calendario delle commemorazioni molto particolare. Il 13 maggio è stata la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle guerre e del terrorismo, mentre il 14 maggio tocca alla festa dell’indipendenza. La tristezza seguita dalla gioia, insomma. Quest’anno le ricorrenze si svolgono in piena guerra a Gaza, mentre 132 ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas e il trauma del 7 ottobre perseguita tutti gli israeliani.

Il risultato è stato un 13 maggio pieno di divisioni, espressione di una società spaccata. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato attaccato dai familiari degli ostaggi durante un discorso pronunciato sul monte Herzl, a Gerusalemme. Alcuni dei presenti se ne sono andati via nel momento in cui ha preso la parola. La stessa sorte è toccata ad altri ministri, a cominciare da quelli di estrema destra.

Il fossato che si è aperto nella società israeliana è talmente largo che il 13 maggio il quotidiano liberale Haaretz ha scritto che “Israele è diviso in due stati ebraici incompatibili”. Questa diagnosi risulta tanto più brutale se consideriamo che le tensioni hanno caratterizzato l’intero 2023, con una serie infinita di manifestazioni contro i progetti del primo ministro. Gli stravolgimenti degli ultimi mesi non hanno certo migliorato le cose.

Israele deve affrontare un enorme paradosso. La maggioranza degli israeliani, sotto shock dopo l’attacco del 7 ottobre, approva la risposta impietosa contro la popolazione di Gaza. Ma le stesse persone non si fidano più dell’uomo che gestisce le operazioni, Netanyahu. In piena guerra, le manifestazioni per chiedere elezioni anticipate sono riprese e si tengono ogni sabato.

La spiegazione di questo fenomeno è doppia. Da un lato c’è la responsabilità per il disastro del 7 ottobre in termini di sicurezza. I militari hanno fatto mea culpa, così come il capo dello stato maggiore, che ha dichiarato di essere perseguitato dal pensiero di 1.200 morti che si sarebbero potuti evitare. Il primo ministro ha fatto lo stesso, ma chiaramente controvoglia.

L’altra spiegazione è legata al modo in cui il conflitto è condotto, con la decisione di non dare la priorità alla liberazione degli ostaggi, l’assenza di una visione per il dopoguerra e il rialzo continuo della posta in gioco da parte dell’estrema destra, da cui Netanyahu dipende per conservare il potere.

Questa sfiducia pesa molto sul clima attuale. Secondo indiscrezioni pubblicate dalla stampa, alcuni funzionari sottolineano ormai apertamente la mancanza di strategia da parte del primo ministro, ritenendolo responsabile del fatto che l’esercito sia costretto a tornare nel nord della Striscia di Gaza, dove Hamas si è riorganizzato nel vuoto lasciato da Israele.

Il futuro è pieno di incognite. Oggi tutto sembra separare i due Israele di cui parla Haaretz. D’altronde come si fa a costruire un futuro comune in queste condizioni, dalle istituzioni ai rapporti con i palestinesi, con la religione, con le colonie e con la democrazia?

In un momento in cui la tragedia dei civili di Gaza compromette l’immagine del loro paese nel mondo, gli israeliani devono affrontare i dilemmi di questa guerra crudele senza fine, che si avvicina a una pericolosa escalation a Rafah nella totale assenza di un progetto comune per il futuro. Di sicuro il primo ministro attuale non li aiuta a vederci chiaro, in questo triste anniversario dello stato ebraico.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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