Nel 1946 Winston Churchill aveva annunciato l’avvento della guerra fredda con la famosa frase sulla “cortina di ferro” che era calata sull’Europa. Oggi, giorno dopo giorno, emergono segnali di una nuova guerra fredda che divide il mondo.
Il 25 giugno la Russia ha bloccato l’accesso a 81 siti d’informazione di diversi paesi europei, tra cui Le Monde, Libération e l’emittente Radio France. Anche la Rai è stata colpita dalla manovra di Mosca. Qualche giorno prima, l’app di Radio France era già finita nel mirino della Cina, sicuramente a causa di un eccellente podcast dedicato a Xi Jinping.
Il blocco è stato presentato come una risposta alla decisione presa il mese scorso dalla Commissione europea di mettere a tacere quattro mezzi d’informazione statali russi, accusati di diffondere la propaganda di Mosca. La ritorsione è però fuorviante, data la natura diversa di emittenti e giornali russi rispetto a quelli degli altri paesi europei.
La vicepresidente della Commissione europea Věra Jourová non sbaglia quando rifiuta l’equivalenza tra chi diffonde “la disinformazione nel quadro della dottrina militare russa” e i mezzi d’informazione privati o pubblici delle società democratiche. Mosca crea una confusione che cavalca i dibattiti interni alle nostre società.
La prima conseguenza dell’invasione dell’Ucraina è stata la scomparsa delle ultime sacche d’informazione indipendente in Russia. Giornali come Novaja Gazeta (il cui direttore Dmitrij Muratov ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2022) e radio come Eco di Mosca hanno chiuso i battenti per rinascere in esilio, a Riga o a Varsavia. Bloccando l’accesso ai siti europei, la Russia priva i suoi cittadini del pluralismo dell’informazione, rendendoli prigionieri della propaganda ufficiale.
Come ai tempi della guerra fredda, oggi c’è chi cerca di scavalcare la nuova cortina di ferro. Cambiano solo i mezzi. A marzo l’ong Reporter senza frontiere ha lodato un canale satellitare rivolto alle popolazioni russofone: il progetto Svoboda (Libertà), che trasmette contenuti prodotti dalle testate indipendenti russe in esilio e cerca di aggirare il blocco. In Cina, paese che pratica la censura online da molto più tempo, l’opposizione si rivela più difficile.
Le informazioni scarseggiano anche in direzione opposta, perché la guerra fredda, inevitabilmente, ostacola il lavoro di tutti i giornalisti. Evan Gershkovich, corrispondente del Wall Street Journal a Mosca, è in carcere da più di un anno. Presto sarà processato per spionaggio, un caso che rappresenta un avvertimento per tutti i giornalisti stranieri.
Lo stesso succede in Cina, da cui molti statunitensi, britannici e australiani sono stati espulsi. Gli occidentali che restano nel paese lavorano in un ambiente ostile. Vent’anni fa sono stato corrispondente da Pechino e oggi rilevo forti passi indietro nella capacità di fare informazione.
Come ai tempi della guerra fredda, la chiusura progressiva compromette la sensazione di appartenenza a un mondo condiviso. Succede sopratutto a causa delle differenze delle reti internet: oggi si parla di splinternet, di un internet diviso. Questa evoluzione non fa altro che aggravare le tensioni. Quando si smette di parlarsi e di conoscersi non è mai un buon segno.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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