I britannici hanno punito i politici che li hanno ingannati
C’è qualcosa di affascinante e in un certo senso addirittura morale nei risultati delle elezioni anticipate nel Regno Unito. Morale perché il 4 luglio gli elettori britannici hanno punito severamente la menzogna politica.
Il partito conservatore al potere ha subìto la sua peggiore sconfitta dal 1906, pagando a caro prezzo la Brexit. Dopo aver illuso i cittadini che fosse possibile un ritorno a tempi gloriosi, l’uscita dall’Unione europea ha provocato un declino del tenore di vita della popolazione, tanto che oggi il Regno Unito registra la crescita più debole tra i paesi del G7 e il 65 per cento dei britannici ritiene che la Brexit sia stato un errore.
È stato strano vedere il primo ministro Rishi Sunak fare appello a uno dei suoi predecessori, Boris Johnson, affinché lo aiutasse nella campagna elettorale, soprattutto considerando che proprio Johnson era stato tra i paladini della Brexit. Nel 2016 Johnson aveva sostenuto il “Sì” in occasione del referendum, per poi conquistare la poltrona di primo ministro a colpi di intrighi ed essere successivamente cacciato da Downing Street per manifesta incapacità di tirare fuori il paese dal pantano in cui l’aveva cacciato.
In molti hanno dimenticato che la campagna a favore della Brexit era stata piena di promesse mirabolanti, a cominciare da quella che figurava sui manifesti affissi sugli autobus londinesi: donare all’Nhs, il sistema sanitario pubblico, i 350 milioni di sterline che il Regno Unito avrebbe dovuto versare all’Europa ogni settimana. Otto anni dopo, l’Nhs è al tracollo e non ha ricevuto un solo penny in più.
Il referendum sulla Brexit è stato segnato anche dal primo grande scandalo di manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i social network. Ricordiamo la vicenda di Cambridge Analytica, un’azienda con legami con l’estrema destra filorussa. Quell’episodio aveva avuto ripercussioni fino a Washington.
Gli elettori britannici hanno voluto punire un “Sì” basato sulla menzogna e gli otto anni caotici che ne sono seguiti, con cinque capi del governo, negoziati interminabili con Bruxelles e un partito conservatore in ginocchio. In questo senso la vittoria laburista è morale perché riflette la sconfitta di chi ha ingannato la popolazione. È un fatto raro e merita di essere sottolineato.
Purtroppo, però, la Brexit non ha vaccinato gli altri popoli contro i pericoli delle sirene populiste e le conseguenze di credere a promesse troppo belle per essere vere. Evidentemente non siamo capaci di imparare dagli errori degli altri.
Ma quanto meno l’impasse della Brexit ha avuto un effetto positivo, ovvero quello di dissuadere chi voleva imitare i britannici. Italexit, Polexit, Frexit: oggi nessuno ne parla più. Il populismo ha cambiato obiettivo e ora mira ad assumere il controllo dell’Unione dall’interno. È il metodo Orbán, primo ministro ungherese che il 4 luglio ha auspicato una vittoria del Rassemblement national alle elezioni francesi e di Donald Trump negli Stati Uniti.
L’altra conseguenza della Brexit è che il partito laburista ha ottenuto una delle vittorie più schiaccianti della sua storia, senza fare altre promesse se non quella di ripristinare una certa ortodossia economica. Per riuscirci, i laburisti hanno dovuto sostituire un leader radicale dai comportamenti discussi come Jeremy Corbyn con il moderato Keir Starmer, tornando a essere un partito di governo. Forse anche in questo c’è una lezione da imparare.
(Traduzione di Andrea Sparacino)