Il 24 agosto diverse centinaia di contadini sono stati uccisi da un gruppo di jihadisti nella località di Barsalogho, nel nord del Burkina Faso. Secondo alcune stime i morti sarebbero quattrocento. I contadini sarebbero stati uccisi dai kalashnikov di uomini affiliati ad Al Qaeda, apparsi in motocicletta sulle piste aride del Sahel. Le vittime sono state massacrate mentre scavavano una trincea difensiva su ordine del governo.

Si tratta del più grave massacro accaduto in Burkina Faso, paese senza grandi risorse e sprofondato da anni in una guerra di destabilizzazione condotta da diversi gruppi terroristici. Una guerra che ha provocato oltre undicimila morti da quando la giunta militare del capitano Ibrahim Traoré è salita al potere quasi due anni fa.

Il mese scorso era stato il Mali a vivere una tragedia della stessa portata. A Tinzawaten, vicino al confine con l’Algeria, i ribelli separatisti avevano ucciso anche decine di mercenari russi del gruppo Wagner, ribattezzato Afrika corps. Anche in questo caso si tratta di un record: l’organizzazione russa non aveva mai subìto perdite così pesanti nel continente africano.

La partenza delle truppe francesi voluta da tre paesi del Sahel – Mali, Burkina Faso e Niger – dopo un lungo e frustrante intervento avrebbe dovuto permettere alle giunte militari di questi stati di inaugurare una nuova era, ma al momento i risultati sono deludenti.

D’altronde la minaccia jihadista non poteva certo sparire semplicemente rimpiazzando i soldati francesi con i mercenari russi. Oggi i regimi politici dei tre stati si trovano in un’impasse.

Le giunte militari al potere non hanno mantenuto la promessa di un ritorno alla vita civile. La transizione annunciata dal leader del Mali, il colonnello Assimi Goïta, il primo ad aver portato a termine il suo golpe, ha già due anni di ritardo e le elezioni restano un miraggio.

Il paese sta vivendo una deriva autoritaria assolutamente prevedibile. In Mali diversi leader politici sono in prigione, mentre le società civili, un tempo molto attive, sono state indebolite e la libertà di stampa è in crisi ovunque. I militari vengono regolarmente accusati di compiere massacri di civili.

Il sovranismo africano a cui fanno riferimento i giovani ufficiali che hanno preso il potere in Sahel ha assunto la forma di una rottura con l’ex potenza coloniale e anche con l’organizzazione regionale (Ecowas, Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), giudicata troppo vicina a Parigi. Per questo motivo i nuovi leader hanno creato insieme l’Alleanza degli stati del Sahel, senza però riuscire ad avere un reale impatto sulla situazione.

La Russia ha effettivamente guadagnato terreno, tanto che Goïta, per esempio, l’ha definita un “alleato sincero”. I russi hanno saputo soffiare sulle braci di un sentimento antifrancese e hanno offerto i loro servigi ai nuovi regimi militari, ma questo non significa che abbiano fornito una soluzione ai problemi che affliggono i paesi del Sahel.

La rottura nei confronti dell’influenza francese non offre una risposta semplice alle questioni che riguardano lo sviluppo, la sicurezza e l’organizzazione politica.

Ma c’è un’esperienza nuova che va seguita con attenzione: è quella del Senegal, dove i sovranisti sono arrivati al potere attraverso le urne. Questa evoluzione potrebbe risultare determinante, perché la legittimità del nuovo governo non è contestata e perché si tratta di uno dei più grandi paesi dell’Africa occidentale. Il successo o il fallimento del governo avranno ripercussioni in tutta l’area.

Intanto, nell’attesa dei prossimi sviluppi, le popolazioni del Sahel devono affrontare la minaccia jihadista e al contempo l’autoritarismo dei leader militari. Il futuro immediato, purtroppo, non appare incoraggiante.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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