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Il passo indietro di Parigi sul mandato d’arresto contro Netanyahu

Una manifestazione per la Palestina a Parigi, 13 novembre 2024. (Jérôme Gilles, NurPhoto/Getty Images)

Come è difficile avere dei principi! E soprattutto, come è difficile rispettarli! Il 27 novembre un comunicato del Quai d’Orsay – il ministero degli esteri francese – ha fatto scalpore a livello globale. L’argomento sono i mandati d’arresto spiccati dalla Corte penale internazionale (Cpi) contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant.

Il ministero degli esteri ha ricordato che la Francia difende il diritto internazionale, ma ha aggiunto che Netanyahu gode di immunità in quanto capo del governo di un paese non firmatario del trattato di Roma, che ha sancito la fondazione della Cpi. Il comunicato precisa che “simili immunità si applicano al primo ministro Netanyahu e agli altri ministri coinvolti, e devono essere prese in considerazione se la Cpi ci chiederà di arrestarli”. In sostanza, se il primo ministro israeliano dovesse arrivare a Parigi, non sarà arrestato.

Questa presa di posizione ha suscitato molto clamore, soprattutto tra i difensori dei diritti umani, innescando una lunga serie di giustificazioni da parte delle autorità francesi nella giornata del 27 novembre.

Il governo difende una linea puramente giuridica. La contraddizione, d’altronde, è evidente: la Cpi chiede che venga difeso il diritto, ma al contempo secondo Parigi prevede un’immunità per i non firmatari del trattato. In sostanza si tratta di un premio per chi non accetta la giustizia internazionale.

Gli stati che hanno firmato il trattato di Roma sono ben 124, ma altri si sono rifiutati di farlo o hanno ritirato la firma, tra cui Israele, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. L’universalità dei principi della giustizia internazionale è ancora lontana, insomma.

Il problema è che limitarsi a una lettura giuridica della vicenda è sbagliato. Esiste un risvolto eminentemente politico. La precisazione del Quai d’Orsay, infatti, potrebbe essere stata il prezzo da pagare per la soluzione della crisi libanese annunciata la sera del 26 novembre. Nessun funzionario lo ammetterà, ma la concomitanza alimenta i dubbi.

La Francia ha sicuramente un’influenza su ciò che accade in Libano, e per molti anni è stata l’unica potenza a impegnarsi nel paese dei cedri. Ma i rapporti politici tra Parigi e Netanyahu si sono drammaticamente deteriorati negli ultimi anni, soprattutto dopo alcune frasi del presidente Emmanuel Macron e in particolare a causa dell’utilizzo della parola “barbarie” per definire l’azione militare israeliana a Gaza.

La prima presa di posizione francese dopo il mandato d’arresto, di chiaro sostegno al diritto internazionale, aveva mandato su tutte le furie il primo ministro israeliano. A quanto pare Joe Biden ha addirittura telefonato a Macron per riferirgli la collera di Netanyahu e la minaccia israeliana di escludere la Francia dal Comitato per il controllo del cessate il fuoco in Libano.

Alla fine l’accordo sul Libano è stato annunciato in un comunicato condiviso dei presidenti di Francia e Stati Uniti, ma Netanyahu non ha mai citato la partecipazione francese nei suoi discorsi sul tema.

Poche ore dopo, il comunicato del Quai d’Orsay ha smorzato la rabbia israeliana, ma ha anche suscitato enormi perplessità. L’ong Human rights watch parla di dichiarazione “sconvolgente”, mentre una diplomatica europea mi ha confessato che a suo parere si tratta di “un giorno triste per il diritto internazionale”.

Anche se in definitiva la posizione di Parigi nasce da una lettura giuridica forzata con l’obiettivo di ottenere un accordo in Libano, si tratta comunque di un duro colpo per la giustizia internazionale. Netanyahu e Putin, i due bersagli più importanti per cui la Cpi ha spiccato un mandato d’arresto, ne saranno sicuramente felici.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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