Il Libano e i suoi cittadini hanno sopportato molte avversità in questi anni. Solo negli ultimi dodici mesi si sono accumulate sofferenze di vario genere: il collasso economico, lo stallo politico, l’esplosione al porto di Beirut, una continua ribellione dei cittadini contro l’élite al potere e le conseguenze della pandemia di covid-19. Due dimensioni della condizione attuale del Libano colpiscono però in modo particolare, e fanno presagire tempi ancora più duri. Per prima cosa il Libano è diventato uno stato impoverito e sempre più militarizzato proprio come gli altri paesi arabi, dove i cittadini si ribellano contro le autorità. Contemporaneamente, le potenze regionali e internazionali che un tempo erano impegnate nel paese per i propri obiettivi sembrano meno interessate a salvarlo dal suo declino auto-inflitto.
La conseguenza più impressionante di questi processi è che il Libano ha perso la sua caratteristica distintiva di un tempo come società che spiccava rispetto agli altri paesi arabi, per lo più autocrazie centralizzate. Fin dalla sua nascita un secolo fa il Libano è stato leader regionale nelle imprese umanistiche e culturali: la stampa, l’istruzione, la ricerca, il settore bancario, il teatro, l’editoria, la pubblicità, il cinema, l’arte e altre attività. Queste fiorivano perché il pluralismo religioso e culturale del paese rendeva possibile quello che nessun altro paese arabo offriva: uno spazio sufficiente ai libanesi per sviluppare appieno i loro talenti, in una sfera pubblica libera e dinamica capace di contenere una varietà di punti di vista, che è stata l’invidia di tutti gli altri popoli della regione.
Uno dei tanti
Questa eredità si è lentamente indebolita negli anni recenti ed è crollata nell’ultimo anno, portando il Libano al punto da avere oggi molte somiglianze con due principali gruppi di paesi arabi. Da una parte ci sono i resti di paesi martoriati dalla guerra e con l’economia a pezzi come Libia, Iraq, Yemen o Siria, e dall’altra gli stati autoritari e rigidamente controllati dagli apparati di sicurezza, in cui gli individui hanno paura di esprimere in pubblico o in privato idee che contraddicono la linea ufficiale, come Egitto, Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Il Libano oggi entra a far parte di quel club sfortunato a cui appartengono i due terzi dei paesi arabi in cui dal 2010 massicce rivolte popolari hanno messo in crisi o perfino cacciato dal potere i vecchi despoti.
Infatti le opinioni dei cittadini libanesi oggi rispecchiano quasi in tutto e per tutto quelle degli altri arabi in Iraq, Algeria e Sudan, che continuano a protestare contro i loro governi incompetenti. L’Arab opinion index, l’indagine annuale per il 2019-2020 condotta dall’Arab center for research and policy studies con sede a Doha, mostra che in media tra il 70 e l’80 per cento di tutti i cittadini in Libano, Iraq, Sudan e Algeria appoggia le rivolte tutt’ora in corso, anche se temporaneamente sopite dalla pandemia. Questo ampio sostegno però non sembra materializzarsi nella pratica: solo il 20 per cento circa dei cittadini ha effettivamente partecipato alle manifestazioni.
A livello socioeconomico, il sondaggio mostra anche che quasi tre quarti delle famiglie in Libano e in questi paesi non hanno sufficienti risorse per soddisfare i loro bisogni essenziali come il cibo, un tetto, le cure mediche e l’istruzione. Circa un quarto di tutti i cittadini vuole emigrare, la metà o più ha un’opinione negativa dell’operato del governo, e oltre il 90 per cento considera la corruzione diffusa nella società. In questi quattro paesi instabili, così come negli altri paesi coinvolti nell’indagine, i cittadini ritengono che le rivolte sono motivate soprattutto dal desiderio di mettere fine all’oppressione e alla corruzione e di migliorare condizioni di vita misere e servizi pubblici scadenti. Anche se il Libano da tempo appartiene formalmente alla Lega degli stati arabi, oggi è a pieno titolo parte della confraternita dei paesi arabi in crisi, in cui si scontrano cittadini disperati e governi con l’ossessione della sicurezza.
Il declino del Libano deve essere compreso guardando alle quattro sfere concentriche della storia moderna
La “sollevazione rivoluzionaria” dell’ottobre del 2019 è stata l’apice di un’implosione e un collasso che si sono consolidati nel corso di decenni. Nonostante l’accavallarsi delle crisi economiche, della pandemia e dell’esplosione al porto, il movimento di protesta continua a essere un sintomo più che la causa del disfacimento pluridecennale che ha fatto sprofondare la maggioranza dei libanesi nella povertà, nella vulnerabilità, nell’emarginazione e nella disperazione.
Come tanti altri paesi arabi in crisi o tormentati dalla guerra, il declino del Libano deve essere compreso guardando alle quattro sfere concentriche della storia moderna, che variano da un luogo all’altro, ma seguono uno schema simile.
Una storia logorante
Il periodo degli anni venti del novecento ha rappresentato la prima sfera di configurazione dello stato e della sua politica, che ha portato molti paesi arabi nella loro attuale condizione di scompiglio. All’epoca la gran parte degli stati arabi moderni furono creati da una combinazione di potenze coloniali europee ed élite locali, senza alcun contributo dei cittadini rispetto alla forma, alla natura, ai valori o alle politiche dei loro nuovi paesi. La seconda sfera, che preannunciava i problemi del Libano e di gran parte degli stati arabi, è stata tra il 1975 e il 1985, quando la combinazione tra i nuovi enormi proventi del petrolio e l’arrivo dei militari al governo in Iraq, Siria, Yemen, Sudan, Libia, Somalia, Tunisia e altrove inaugurò nella regione una nuova epoca di autoritarismo. Arrivati agli anni novanta, questa situazione si era evoluta in una stagnazione socioeconomica in termini di qualità della vita reale per una popolazione sempre più povera che non godeva di alcun diritto politico per rimediare alla propria sofferenza.
La terza sfera storica è cominciata nel 2005, quando la Siria ritirò le sue truppe e i suoi funzionari, che di fatto avevano governato il paese per trent’anni. Abbandonati a loro stessi, i politici libanesi e gli ex signori della guerra convertiti in leader politici confessionali cominciarono a litigare tra loro. Al contempo, monopolizzavano collettivamente il settore pubblico e arricchivano se stessi e i loro seguaci mentre la maggior parte dei servizi si deteriorava progressivamente. La fase finale e più recente è rappresentata dagli ultimi 18 mesi di instabilità causata dalle rivolte, che hanno paralizzato ogni tentativo serio di gestione della sfera pubblica. Questo ha coinciso con un periodo di logoramento economico e con il crollo del valore della moneta nazionale a causa di politiche fiscali e monetarie insostenibili.
Tre tendenze negative
Bisogna notare che il Libano ha evitato a lungo di finire come le malandate economie e i sistemi politici autoritari che hanno caratterizzato molti altri paesi della regione nell’ultimo mezzo secolo circa. Oggi però alle proteste della popolazione risponde spesso uno stato più militarizzato, che non esita a usare armi e gas lacrimogeni contro i suoi cittadini. Un altro aspetto preoccupante è il ritmo crescente con cui tribunali, ministeri e apparati di sicurezza incarcerano, arrestano e incriminano le persone per azioni come pubblicare sui social network, a lungo un marchio della solida tradizione di libertà di espressione del Libano. Queste due tendenze negative s’intrecciano con una terza, forse la più devastante, che sembra essere alla base dei mali attuali del paese: un governo che nei suoi organi esecutivo, legislativo e giudiziario non sembra interessarsi alla sofferenza della maggioranza della popolazione impoverita abbastanza da intraprendere serie iniziative di riforma che sbloccherebbero i miliardi di dollari di aiuti di cui c’è un disperato bisogno.
Facendo un bilancio, sembra emergere l’immagine sconsolante di uno stato che negli ultimi decenni ha abbandonato e trascurato la sua popolazione. In cambio, i cittadini ricorrono a metodi di protesta che mirano a disfarsi di tutta l’élite dominante e a creare un sistema di governo più partecipato e trasparente, basato sullo stato di diritto e sulla giustizia sociale. Ma manifestanti e autorità sono in una situazione di stallo, e nessuno dei due sembra capace di prendere il sopravvento sull’altro. Esattamente lo stesso avviene in Sudan, Egitto, Libia, Yemen, Iraq, Siria, Algeria, Palestina, Somalia e in altri paesi travagliati, che sembrano incapaci di superare il triplice test della statualità, della sovranità e della cittadinanza che ha caratterizzato il secolo scorso.
La grande differenza tra il Libano e gli altri paesi arabi però è la presenza di Hezbollah, una potenza che non permetterà mai che il paese collassi definitivamente. Eppure le sue politiche non saranno mai del tutto accettate dalla maggioranza dei libanesi, a causa del militarismo del gruppo, dei suoi processi decisionali esterni al sistema statale, e dei suoi stretti legami con l’Iran e la Siria. Mentre le istituzioni dello stato e l’élite politica continuano a deteriorarsi e a perdere influenza, anche potenze straniere come Arabia Saudita, Francia e Stati Uniti sembrano meno interessate a intervenire per preservare il Libano come hanno fatto per un secolo. Questo perché le priorità strategiche per questi paesi sono altrove, in Iran, Iraq, Siria, Libia e nel Corno d’Africa, e l’élite dominante libanese è troppo ostinata nel concentrarsi solo sui propri interessi, anche se questo implica la lenta corrosione dell’integrità del paese.
Così, il Libano resta con due attori politici principali: Hezbollah e il frammentario ma tenace movimento di protesta, con il suo ampio sostegno popolare. Una dinamica fondamentale da tenere d’occhio nei prossimi mesi e anni sarà come queste forze si relazioneranno l’una con l’altra e con i propri alleati e sostenitori stranieri, e se saranno in grado di agire in tempo per costringere l’incespicante élite al governo a comportarsi da adulta e a riparare la società e l’economia che ha quasi distrutto.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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