Fatte le nomine, bisogna fare la politica. E per la nuova Commissione europea il compito non sarà facile. La grande novità di una donna al vertice – la prima volta nella storia della Commissione, insieme alla nuova presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde – è simbolicamente molto forte, ma dice ancora poco sul contenuto delle politiche.
Anzi, per la politica economica – quella del volto arcigno dell’austerità fiscale – il poco che dice è negativo. Non solo perché Ursula von der Leyen è una conservatrice tedesca, molto vicina ad Angela Merkel, esponente della linea del rigore dalla quale la Germania e l’Unione tutta non si sono formalmente mai allontanate (pur avendo acconsentito a una flessibilità concessa di fatto ma mai ammessa di diritto). Ma anche perché il patto che ha battezzato le nuove nomine – ancora all’insegna dell’asse franco-tedesco – ha tenuto fuori il sud dell’Europa e chi ha più bisogno di allentare i vincoli dell’austerità (ci sono anche i francesi tra questi paesi, ma probabilmente Macron pensa di poter ottenere eccezioni per il suo paese senza far fronte comune con gli altri “spendaccioni”).
Intanto, la novità politica di un accordo con il gruppo di Visegrád, entrato nel gioco delle nomine, non promette bene, dato che gli alleati di Salvini nella politica dei muri sono poi i più lontani dalle istanze italiane nella politica di bilancio. In queste condizioni, l’unico margine di manovra resta quello della politica monetaria “morbida”, nella quale Christine Lagarde continuerà nel solco tracciato da Mario Draghi.
Una via d’uscita
Dopo un risultato elettorale che ha punito i partiti fondatori dell’Europa, ma non ha visto il trionfo dei populisti antieuropei, e dopo una trattativa politica che tatticamente – salvo sorprese – pare riuscita a far quadrare il cerchio, il rischio che l’Unione europea continui a restare avvitata nella sua crisi di consenso e di visione è forte. È vero, la bandiera degli antieuropeisti non sventola alta come prima: quando vincono in un paese poi non riescono a fare quasi niente di quel che promettono (che si chiami Brexit o flat tax); nel parlamento europeo neanche riescono a sedere in un gruppo comune; nelle trattative che contano si presentano divisi su tutto, tranne che sulle politiche xenofobe.
L’avvitamento su una vecchia spirale non riguarda solo l’Europa reale, ma anche quella sognata dagli europeisti più convinti
Ma quale è la bandiera degli europeisti? Continuare la politica degli ultimi dieci anni, controllando le finanze pubbliche qualsiasi cosa accada? Quella di Mario Draghi, che – pur avendo salvato il sistema europeo nel momento peggiore – è per sua stessa ammissione limitata a obiettivi monetari e può fare poco altro per lo sviluppo, la società, l’equità? Oppure quella di un ribaltamento sostanziale dell’austerità, che conceda a governi come quello italiano il permesso di far debiti a volontà, a prescindere dalla fase economica e dal contenuto delle politiche finanziate a debito?
A ben guardare l’avvitamento su una vecchia spirale non riguarda solo l’Europa reale, ma anche quella sognata dagli europeisti più convinti, che si trovano schiacciati tra una ortodossia rigorista sterile, e poco sincera, e una politica espansiva approssimativa e poco credibile: un’alternativa che non farà che approfondire il solco di fiducia tra nord e sud.
Una via d’uscita si può trovare, guardando alle emergenze vere. La prima delle quali riguarda la Terra e il cambiamento climatico. È vero, l’Europa nel suo insieme – nonostante i blocchi imposti a ogni pie’ sospinto proprio dal gruppo di Visegrád, che punta ancora sullo sfruttamento del carbone per produrre energia – si è posta obiettivi timidi ma più ambiziosi di quelli delle altre potenze. E ha deciso di destinare alle politiche di contrasto al cambiamento climatico una parte crescente del suo bilancio, e cioè il 20 per cento. Mentre il parlamento europeo ha chiesto di arrivare al 30 per cento entro il 2027.
L’uovo di Colombo
Per capire di che cifre parliamo, dobbiamo sapere a quanto ammonta il bilancio europeo. L’ultimo, quello deciso per il 2019, è di 165,8 miliardi di euro. È cresciuto del 3,2 per cento rispetto al 2018, ma è comunque intorno all’1 per cento del prodotto interno lordo (pil) europeo. Per fare un confronto, si cita spesso il bilancio federale statunitense, che pesa attorno al 20 per cento dell’economia statunitense. Mentre i budget dei singoli paesi in Europa sono pari almeno al 40 per cento del pil.
L’aumento del budget potrebbe essere l’uovo di Colombo per i problemi dell’Unione: darebbe la possibilità all’Europa di fare politiche anticicliche, sociali e per lo sviluppo, senza consegnare le chiavi della cassa a paesi dei quali, a torto o a ragione, non tutti – diciamo così – si fidano. Consentirebbe di gestire problemi che scavalcano i confini, senza pensare di chiudere le frontiere. Comincerebbe a cambiare la faccia dell’Europa, da matrigna cattiva a madre (almeno un po’) generosa.
Ma sul bilancio comunitario si combatte tutt’altra battaglia. La Commissione uscente ha presentato una proposta per la sua riforma, che mantiene gli obiettivi ambiziosi – dalla disoccupazione giovanile all’inclusione sociale alle infrastrutture alla ricerca al clima – ma non aumenta le risorse. Gli stati che danno più soldi vogliono ridurre il loro contributo (tra questi l’Italia), i paesi che più ricevono – che sono soprattutto i nuovi entrati – non vogliono perdere risorse. Mentre molti vogliono spostare più fondi possibili dalle politiche di sviluppo e coesione a quelle contro l’immigrazione.
L’unica politica realistica
Piccole e misere scaramucce, se confrontate con il disastro ambientale che abbiamo di fronte. Per uscirne, bisognerebbe forse fare a meno delle vecchie logiche e anche del vecchio bilancio. Non si tratta di spostare fondi dall’agricoltura o dalla coesione sociale all’ambiente, ma di creare un nuovo bilancio, autenticamente federale, destinato a fronteggiare l’emergenza climatica, con l’obiettivo del rispetto dell’accordo di Parigi e gli strumenti derivanti dalla forza degli Stati Uniti d’Europa.
Dunque un budget che può ricorrere al debito, garantito dall’Unione, per investimenti legati alla gigantesca riconversione industriale e del consumo che il cambiamento climatico impone. E che finanzia le sue spese correnti con entrate sovranazionali. Qualche esempio? La tassazione delle entità che sfuggono ai sistemi fiscali nazionali perché si muovono tra i diversi paesi a seconda della convenienza fiscale, fissando le loro sedi dove pagano meno tasse, e in particolare dei profitti delle multinazionali della tecnologia; una carbon tax comunitaria, con indennizzi per chi, tra i più poveri, pagherebbe le conseguenze di questa tassa; la chiusura dei paradisi fiscali.
Un budget vero, e non risicato e continuamente strattonato tra stati e missioni, deciso e controllato centralmente ma speso localmente. Ma quanti soldi servono per ridurre il surriscaldamento del pianeta? In uno studio alcuni economisti dell’Institute for new economic thinking (Inet) hanno calcolato che al livello mondiale per tenere il riscaldamento climatico al di sotto di 1,5 gradi servirebbero circa 2.500 miliardi di dollari. Sembra tantissimo, ma rispetto al pil mondiale è il 3 per cento. Ecco, se l’Europa destinasse il 3 per cento del suo pil al clima, avremmo ancora un budget notevolmente al di sotto di quello degli Stati Uniti, ma utile.
Senza contare il fatto che, come si legge nello stesso studio, gli aiuti di stato alla produzione di energia fossile nel mondo sono attorno al 5 per cento del pil mondiale. E l’evasione ed elusione fiscale delle multinazionali è stimata attorno all’1,5 per cento.
Un libro dei sogni? No, l’unica politica realistica, della quale può convincersi un’opinione pubblica che si appassiona alla battaglia di Greta Thunberg, si allarma per le statistiche che hanno detto che lo scorso giugno è stato uno dei mesi più caldi della storia, e poi si distrae con altro. Negli Stati Uniti il movimento Sunrise, legato al gruppo dei democratici che fa capo ad Alexandria Ocasio-Cortez, ne ha fatto una piattaforma e un programma. Non è una passeggiata, non si tratta solo di dire che le politiche ambientali possono far bene al lavoro né di confidare in una spontanea riconversione degli investimenti privati in prodotti e tecnologie ambientali, ma progettare e attuare investimenti pubblici per raggiungere l’obiettivo. In Europa, nessun paese da solo può farcela. Insieme, forse.
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