Cassa integrazione allargata a tutti i lavoratori dipendenti. Un’indennità di 600 euro al mese per il vasto e variegato mondo del lavoro autonomo. Congedi o soldi per i genitori che lavorano. Il decreto “cura Italia”, varato dal governo il 17 marzo, destina al mondo del lavoro 10 dei 25 miliardi stanziati per far fronte allo shock economico provocato dal Covid-19. È il capitolo più importante del provvedimento, che nelle altre parti assegna fondi alla sanità (3,2 miliardi), alla liquidità per famiglie e aziende attraverso il sistema bancario (4,8 miliardi), ai rinvii dei pagamenti di tasse e contributi (2,4 miliardi) e ad altre misure di sostegno.
Centoventisei articoli per una manovra economica straordinaria che con ogni probabilità non sarà l’ultima per fronteggiare la recessione da coronavirus. Ma che già modella il welfare e l’intervento pubblico del nuovo mondo in cui siamo entrati dal 9 marzo, giorno in cui l’Italia è diventata zona rossa. Con una metafora medica, potremmo dire che si usano prevalentemente le medicine del passato, dagli ammortizzatori sociali ai fondi per le imprese, per curare un corpo profondamente cambiato: quello del mondo del lavoro italiano, anno 2020. Basterà?
La prima parte del decreto è la più urgente e immediata: 3,2 miliardi per il potenziamento del servizio sanitario nazionale, che saranno usati per gli stipendi di medici e infermieri, per le reti di assistenza sui territori, per allestire strutture sanitarie temporanee e anche per incentivare la produzione di dispositivi medici per l’emergenza. Subito dopo arrivano le misure per il lavoro: quelle destinate ai dipendenti, quelle per gli autonomi e quelle trasversali a due gruppi.
Per i dipendenti delle aziende che hanno dovuto ridurre o cessare la produzione a seguito dell’emergenza Covid-19 c’è un allargamento considerevole e senza precedenti della cassa integrazione, il nostro principale ammortizzatore sociale, che ha sempre avuto il limite di essere circoscritto nella sua applicazione e non coprire sempre e tutte le piccole e piccolissime imprese. Il decreto potenzia la cassa integrazione ordinaria, velocizza le procedure per accedere ed elimina il vincolo dell’anzianità di lavoro, per cui potranno averla tutti i lavoratori in servizio alla data dell’inizio dell’emergenza (23 febbraio 2020), anche chi era stato appena assunto.
Ma la cassa ordinaria non copre tutti i dipendenti e tutti i settori, né tutte le forme giuridiche d’impresa. Di qui il secondo pilastro dell’intervento sul lavoro dipendente, che consiste nel ricorso alla cassa integrazione in deroga: potrà essere data a tutti i settori e in tutte le aziende, anche quelle con un solo dipendente. L’individuazione delle imprese che possono accedere alla cassa integrazione in deroga spetterà alle regioni, in accordo con i sindacati (accordi che si potranno fare anche in via telematica). Così la cassa in deroga, introdotta nel 2008 per fronteggiare la grande recessione, allarga la sua rete. Con una rilevante esclusione, esplicitamente menzionata dal decreto: i lavoratori domestici.
Rischio d’ingorghi
Per il mondo del lavoro non dipendente, il decreto introduce un’indennità di 600 euro. Attualmente prevista per il mese di marzo, potrà essere rinnovata in successivi decreti. Ne sono coperti i co.co.co (contratti di collaborazione coordinata e continuativa) e i professionisti con partita iva iscritti alla gestione separata dell’Inps. La stessa indennità è prevista per altre categorie specifiche del lavoro precario: gli stagionali del turismo e dell’agricoltura, i lavoratori dello spettacolo iscritti al relativo Fondo pensioni. Di fatto, si tratta di tutte le cosiddette “gestioni separate” dell’Inps.
I professionisti con partita iva e una loro cassa autonoma sono invece menzionati in un altro articolo, che istituisce un “fondo per il reddito di ultima istanza”: lì si prevede che con successivi decreti ministeriali l’indennità si estenda anche a loro. Ma lo stesso fondo dovrebbe essere chiamato a coprire i lavoratori domestici, esclusi dalla cassa integrazione come si è visto prima. Sono stanziati solo 300 milioni, di certo insufficienti per tutti. È prevedibile che si esaurirà subito.
Ma sono “a esaurimento” anche gli altri, più sostanziosi, fondi: il decreto prevede esplicitamente che le domande saranno soddisfatte entro i limiti di spesa fissati. Una previsione che fa temere ingorghi e pasticci da clic-day (chi arriva ultimo non trova i soldi). “Se le domande superano il tetto, sarà il governo a valutare”, ha detto il presidente dell’Inps Pasquale Tridico a La Repubblica.
Saltuari dimenticati
Non è questo l’unico limite dell’imponente pacchetto sul lavoro. L’altro e più sostanzioso problema può essere l’applicazione di strumenti pensati per un mondo del lavoro “novecentesco”, diviso in sostanza tra dipendenti e autonomi, e quello di oggi, nel quale la precarietà ha tante forme.
Una è quella del tempo determinato: cosa succede ai lavoratori saltuari, quelli che magari avevano avuto il contratto scaduto poco prima dell’emergenza, o ai quali semplicemente non viene rinnovato date le difficoltà delle imprese? Un esempio molto semplice può essere quello dei lavoratori degli aeroporti, spesso assunti a tempo determinato, che di certo non vedranno rinnovi per un po’. Ma anche tutti i microimprenditori della catena della ristorazione che hanno chiuso bottega, per i quali non basterà il credito d’imposta per l’affitto o il rinvio del pagamento delle tasse (previsto nella parte sull’impresa del cura-Italia). “Il decreto dà sostegno a 14 milioni di lavoratori. Uno sforzo senza precedenti”, ha detto la ministra del lavoro Nunzia Catalfo. Ma gli occupati sono 23 milioni, come dicono i numeri dell’Istat. Sono dunque almeno 9 milioni i lavoratori che potrebbero restare senza alcuna protezione.
A loro non si applica neanche l’altra misura di sostegno, quella che va incontro alle esigenze dei genitori costretti a gestire i figli a casa dalla chiusura delle scuole. Questi potranno scegliere tra usare il congedo retribuito per 15 giorni, al 50 per cento dello stipendio, oppure chiedere il voucher per baby sitter, fino a un massimo di 600 euro. Entrambe le misure possono essere usate alternativamente da entrambi i genitori, con figli sotto i 12 anni, sia dipendenti sia autonomi (per questi ultimi la retribuzione è calcolata sulla base di quella “convenzionale giornaliera stabilita dalla legge, a seconda della tipologia di lavoro”).
Sempre nella seconda parte del decreto, quella dedicata al lavoro, sono stanziati 50 milioni di euro per le aziende che restano aperte, destinati all’acquisto di strumenti di protezione e dispositivi sanitari per i lavoratori.
Infine, un articolo riguarda il grande assente del welfare di emergenza per il coronavirus: viene menzionato il reddito di cittadinanza, per dire che sono sospese le “misure di condizionalità”. Vale a dire che si sospendono gli obblighi di presentarsi, di fare corsi di formazione, di dimostrare di voler lavorare e accettare i lavori proposti: tutto l’apparato di avviamento al lavoro (e controllo) per chi gode del reddito introdotto solo due anni fa.
Eppure il reddito di cittadinanza potrebbe essere uno strumento utile per raggiungere i lavoratori più fragili nell’emergenza economica da coronavirus: è quanto sostiene il Forum diseguaglianze e diversità, che su questo ha avanzato una proposta dal titolo Nessuno resti indietro per colpa del coronavirus. Secondo Cristiano Gori, docente di politica sociale dell’università di Trento, “per il lavoro saltuario e irregolare (oltre quattro milioni di persone) solo l’espansione del reddito di cittadinanza appare in grado di impedire l’impoverimento delle persone che perderanno il lavoro”.
Ma lo stesso strumento potrebbe essere usato per raggiungere altri pezzi del lavoro precario e le imprese più fragili, laddove la cassa integrazione ordinaria o in deroga sono strumenti importanti e adatti per il lavoro dipendente di piccole, medie e grandi imprese resilienti, cioè in grado di sopravvivere alla crisi.
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