Ogni secondo in qualche parte del mondo
qualcuno fa uno scatto e fissa qualcosa
perché lui, o lei, sono affascinati da una certa luce,
da un volto, da un gesto, da un panorama,
o da un’atmosfera, o semplicemente perché una situazione
doveva essere fissata.
Wim Wenders, Una volta

Wim Wenders ha detto che la prima metà della sua vita appartiene al cinema, mentre la seconda metà alla fotografia. E guardando il suo lavoro non è difficile immaginarle legate da una corda molto stretta, che rimanda continuamente allo spirito del viaggio.

La casa editrice Contrasto ha da poco ripubblicato il libro di Wim Wenders Una volta, uscito nel 1993. Un volume a metà strada tra un diario, di almeno sessanta viaggi, e un album di famiglia, molto allargata, con più di trecento immagini. L’autore, in prima persona e sempre cominciando con la frase “Una volta”, racconta di quello che ha visto e delle persone che ha incontrato durante i suoi viaggi, spesso mentre era alla ricerca di location per i suoi film. E lo fa senza giri di parole, senza sottintesi, senza date precise, ma usando versi liberi che, uno dopo l’altro, permettono di conoscere le sue impressioni e accompagnano alcuni aneddoti della sua vita.

Le pagine di sinistra contengono le parole, e quelle di destra un’immagine, seguita spesso da altre che mostrano quel ricordo e lo fanno sembrare più vero. Soprattutto quando racconta di episodi come questo:

Una volta
viaggiai su una Mercedes 600
insieme con Akira Kurosawa, la sua traduttrice
e un paio di altre persone
da San Francisco
a Napa Valley;
dove ci aveva invitato Francis Coppola.
(…)
Faceva caldo
e andammo tutti al laghetto a fare un bagno.
Solo Kurosawa non lo fece.

In certi casi svela alcune delle sue virtù di fotografo, come la tenacia e la pazienza:

Una volta
trovai a Gila Bend, nell’Arizona,
un vecchio albergo
che già da anni non aveva più visto un cliente.
La porta era chiusa,
ma attraverso le tende delle finestre
si vedeva luccicare nel vestibolo polveroso
un gruppo di poltrone
dai più straordinari colori.
Dopo ore finalmente avevo trovato
qualcuno con una chiave.

Gila Bend, Arizona. (Wim Wenders, Contrasto)

Altre volte confessa tra le righe le sue ossessioni, come in questo caso:

Una volta
ero seduto in un cinema,
dietro a questi due uomini.
Guardavo la loro nuca davanti a me
e pensavo alle migliaia di storie
che erano nate in quelle due teste,
che dico! – che continuavano a nascervi.
Le immagini e le storie
sarebbero sopravvissute ai due uomini,
sarebbero sopravvissute a tutti noi.
I due erano
Akira Kurosawa
e Michael Powell.

Altre ancora racconta delle sue affascinanti scoperte:

Una volta
ho fatto un viaggio dalla California al Texas.
Nonostante fosse inverno
una cosa non mi aspettavo:
la neve.
Ma ad El Paso nevicava!
Molti bambini non avevano mai visto la neve.
Indossavo solo una camicia e gelavo miseramente.
Sotto un ponte dell’autostrada
trovai un cimitero abbandonato.

El Paso, Texas. (Wim Wenders, Contrasto)

E altre, svela i tentativi abbandonati come fotografo. Come quella volta che

mentre abitavo a New York
avevo preso per un certo tempo l’abitudine
di ‘sparare’ foto dal fianco.
Lungo il marciapiede per andare in sala di montaggio,
ho fotografato senza guardare nel mirino
soprattutto la gente per strada.
Per un qualche motivo
ho quasi sempre puntato troppo in alto.
Anche dopo i primi provini,
che mostravano tutti teste tagliate,
e mai delle figure intere,
non ho fatto veri progressi.
Questo approccio alla fotografia
aveva un fascino leggermente aggressivo
o voyeuristico.
Vi rinunciai dopo un po’.
Non faceva per me.

Ci sono poi elementi ricorrenti che richiamano inquadrature e movimenti della macchina da presa dei suoi film. Le auto, gli aerei, le strade quasi deserte, i paesaggi silenziosi. Auto e aerei (a volte senza ali, come quello di cui racconta a pagina 66 del libro) che sono anch’essi strumenti del viaggio. Un viaggio che preferisce fare da solo: “Se non sono solo non faccio foto. Ho bisogno di immergermi nel luogo e non posso farlo se sono con qualcuno”. Ma che in questo libro invece divide a volte con registi, scrittori, attori, e sua moglie. Ci sono Martin Scorsese e Isabella Rossellini in auto con lui lungo la Monument valley, Denis Hopper nel deserto Mojave diretti alla casa di Nicholas Ray, fino a un dinosauro incontrato con sua moglie in un autogrill della California.

Due diari importanti per la fotografia

Ma nelle oltre trecento immagini raccolte in questo libro – dal sole islandese che tramonta a mezzanotte, al Portogallo la cui forma sembra un naso sulla mappa dell’Europa – ciò che cattura di più l’attenzione di Wenders spesso non include le persone. E sono proprio queste immagini – che lui dice “riescono a evocare l’uomo molto più quando la presenza umana non c’è”– a portare il pensiero ad altri due diari, costruiti sul viaggio e le immagini come strumento per ricordare, e che hanno segnato la storia della fotografia.

Il primo ha dovuto aspettare molti anni prima di essere pubblicato e più recentemente è stato riletto dallo scrittore Teju Cole come un profilo Instagram ante litteram. Si tratta di American surfaces di Stephen Shore. Era il 1972 e Shore aveva 24 anni. La fotografia artistica al tempo era quella formale, in bianco e nero, dove tutto seguiva delle regole: dalla forma al contenuto. Ma i protagonisti delle immagini di Shore erano a colori e nel contenuto, a prima vista, sembravano senza significato, quasi inutili allo sguardo.

Trail’s end restaurant, Kanab, Utah, 10 agosto 1973. (Stephen Shore, Contrasto)

Quel viaggio attraverso gli Stati Uniti, dalla costa sud alla Route 66 e poi da Flagstaff a Chicago, per poi tornare a New York, è oggi considerato un punto di svolta per la fotografia documentaria, un vero road movie, come lo ha definito il critico Bob Nickas nella prefazione. Shore si sofferma sui particolari dello scorrere semplice e quotidiano della vita, senza afferrare alcun momento decisivo, come ha spiegato l’autore stesso, riferendosi alla teoria di Henri Cartier-Bresson. E allora troviamo i soffitti delle camere d’albergo, i pasti avanzati sulle tavole dei fast food, le pompe di benzina abbandonate e gli accessori stravaganti indossati dalle persone che incontra. Non ci sono appunti nel diario di Shore, solo didascalie dei luoghi che ha visitato. Ma il suo lavoro è oggi considerato dalla critica al livello di The americans di Robert Frank (1959) e 1964 di Garry Winogrand (2002).

Il secondo diario, a differenza degli altri due, aveva uno scopo preciso di documentazione, ed è stato realizzato dagli architetti statunitensi Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour che partirono alla scoperta di Las Vegas negli stessi anni in cui Shore se ne andava in giro per gli Stati Uniti. Per loro la fotografia era il mezzo attraverso cui “dare il giusto valore al simbolismo dell’architettura che a Las Vegas si manifestava in tutta la sua potenza”.

Upper Strip, driving north, Las Vegas, 1968. (Venturi, Scott Brown and Associates)

Le loro immagini, spesso sfocate, scattate dal finestrino dell’auto, in cui a volte compaiono loro stessi in posa, senza seguire alcuna regola compositiva, catturarono aspetti della città prima di allora ignorati: l’uso di massa dell’automobile, i cartelloni pubblicitari, nuovi tipi di architetture come i fast food e i drive-in. Perché dal loro punto di vista i casinò e le geometrie create dal traffico delle auto erano elementi altrettanto istruttivi delle cattedrali francesi e delle antiche piazze dell’impero romano. Le foto che scattarono furono raccolte nel libro Learning from Las Vegas, pubblicato nel 1972, che diventò subito un classico della teoria dell’architettura. Nel 2015 la casa editrice Scheidegger & Spiess ha pubblicato una nuova edizione dal titolo Las Vegas studio.

Nel saggio L’infinito istante, Geoff Dyer scrive che ogni grande fotografo è capace di trasformarsi, anche inconsapevolmente, per poco tempo o comunque per caso, in un altro fotografo. Perché tutti i fotografi hanno scattato immagini che somigliano a quelle scattate da altri grandi fotografi.

E allora non sembra strano immaginare che Wim Wenders si sia trasformato a volte in Stephen Shore e altre negli architetti di Las Vegas.

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