In questi giorni Emanuel Rosen, uno dei più noti giornalisti israeliani, è al centro di uno scandalo a sfondo sessuale (con conseguente processo mediatico) con l’accusa di aver corteggiato in modo troppo insistente decine di giovani donne ai loro primi passi nella giungla del giornalismo.

Si tratta di donne ferite da un uomo che le ha usate, oppure di una guerra morale contro un uomo famoso e rispettato che si rivela un molestatore?  I mezzi d’informazione e la polizia israeliana stanno ancora cercando di capire.

Lo scenario è quello noto: una personalità popolare e spesso autorevole comincia a dedicare tempo e attenzioni a una giovane determinata ad andare lontano, illudendola (se ancora oggi c’è qualcuna che vuole essere illusa) di poter ottenere un biglietto d’ingresso per l’agognata carriera giornalistica.

Le testimonianze delle corteggiate, con i dettagli che fanno in queste ore il giro della rete, sono state rese pubbliche da un gruppo nato con lo scopo di difendere e ridefinire la condizione femminile nel mondo giornalistico israeliano.

Simili nei contenuti, i racconti descrivono la solita cornice ormonale fatta di sorrisi, messaggi in piena notte, attenzioni particolari, tutto mirato a un incontro erotico. Legittimo chiedersi se queste donne, colte e preparate, non avessero gli elementi per almeno intuire le intenzioni prevalentemente sessuali di questo giornalista. Vero è che da più di una testimonianza emergono anche la delusione per essere state ignorate il giorno dopo e l’amarezza di chi capisce di non essere stata così speciale per il compagno di una notte.

Comunque finirà l’inchiesta, la carriera di Rosen, che avrebbe dovuto presentare uno dei programmi d’attualità più seguiti della tv israeliana, è stata distrutta, per la gioia dell’esercito femminile che negli ultimi vent’anni ha taciuto e solo ora ha trovato un modo per ribellarsi.

Non è facile (per fortuna, diranno alcuni) subire un processo mediatico del genere in Israele. Ma come sarebbe un processo simile in un paese come l’Italia, dove nonostante il codice penale che prevede “la molestia o disturbo alle persone” e l’aggravante dell’abuso di potere, nonostante le direttive europee e vari codici di condotta, il dibattito nell’ambito delle molestie sessuali rimane ancora vago? Così vago da dover ragionare per qualche secondo prima di poter trovare la traduzione precisa del termine inglese

sexual harrassment.

In Italia le storie di uomini potenti o meno che fanno avances a donne giovani e non, unite dal desiderio di farsi strada nel mondo del lavoro, vengono raccontate nei corridoi con un mezzo sorriso e sembrano far parte di una prassi quotidiana, almeno in certi ambienti e mondi professionali. Come sono diffusi gli insulti e le battute per le donne che hanno saputo fare carriera.

Alcuni sostengono che le donne hanno il diritto e i modi per dire di no, altri, o altre, arrivano ad ammettere che è meglio lasciar fare o addirittura prendere l’iniziativa e concedere  una parte di sé per raggiungere il proprio obiettivo. 

Molto si potrebbe dire sull’argomento, specialmente in Italia, dove secondo l’Istat 1,3 milioni di donne hanno subìto molestie o ricatti sessuali. Un’esperienza terribile e molto ben descritta, senza eccessivo allarmismo, nel blog Il porco al lavoro, diario di una giornalista italiana che usa lo pseudonimo di Olga.

Ma oltre al dubbio se sarebbe meglio denunciare (e non c’e dubbio, bisogna denunciare), rimane spesso un retrogusto amaro di fronte a quegli atteggiamenti ambigui che, lontani dal femminismo combattente statunitense (e israeliano) pronto ad attivare meccanismi militari pur di distruggere il colpevole, hanno creato una generazione di giovani donne che sarebbero perfettamente in grado di mettere dei paletti in un campo di battaglia oscuro, problematico e calunnioso.

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