La tredicesima giornata della memoria, il 27 gennaio prossimo, con le relative cerimonie e dichiarazioni, richiama oggi più che mai la necessità di una riflessione e di una forma diversa di memoria condivisa, più profonda e raccolta, che duri anche solo un minuto di silenzio, ma che sia capace di lasciare un segno profondo, senza voce. Urlando con il silenzio.

E quando il viaggio della memoria per scolaresche si trasforma in un tweet di poco meno di 140 caratteri (banali) o in istantanee sorridenti del ministro di turno, si crea quella misteriosa formula secondo cui più aumenta il numero delle giornate della memoria, più (tragicamente) queste perdono significato.

Verrebbe da chiedersi, ispirandosi al titolo del noto libro di Nathan Englander, di cosa parliamo quando parliamo della Shoah? Cosa rimane di tante tantissime parole che (dette sempre con lo stesso tono e vari sinonimi) recitano promesse retoriche di un futuro migliore e rischiano di banalizzare la memoria e trasformarla in un modesto cliché?

Tra tutte le numerose cerimonie a cui ho partecipato, pochi momenti sono più significativi del minuto di silenzio, scandito dalle sirene, celebrato ogni anno in Israele e in varie comunità ebraiche nel mondo, anche in Italia. Un raro momento in cui la solitudine trova un senso e i pensieri corrono simultaneamente verso un’unica direzione.

Ne parla Elena Loewenthal nel suo nuovo saggio

Contro il giorno della memoria in cui l’autrice, scrittrice e traduttrice nonché studiosa della Shoah scrive: “Altro che il giorno della memoria, ci vorrebbe il giorno dell’oblio”, anche se “ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile”. Loewenthal scrive dalla posizione, scomoda, della seconda generazione, quella che ha vissuto gli orrori senza subirli in prima persona, e ne ha pagato il prezzo.

Una seconda generazione, ironica e amara allo stesso tempo, è descritta in La seconda generazione, un graphic novel di Michel Kichka, scrittore e illustratore israeliano di origini belghe. Senza troppe parole, in modo diretto, racconta nel suo libro la seconda generazione, ovvero gli attuali sessantenni, e le loro ferite, create inizialmente dal silenzio e poi dall’atroce istante in cui il silenzio viene trasformato in un flusso inarrestabile di lacrime e parole.

Con le parole mai espresse, i segreti, i silenzi, i fantasmi presenti ovunque, la memoria della Shoah è stata trasmessa da una generazione “vittima” alla seconda, terza e quarta generazione altrettanto “vittima”, anche se in forma diversa.

Una memoria tramandata ed espressa in silenzio, un’iniziativa non ancora proposta a livello nazionale e internazionale, sarebbe il più forte e intenso momento di condivisione, invece di tante cerimonie, tweet, instagram e parole a vanvera.

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