Ieri gli hamburger, oggi i fornelli a gas. Sono le munizioni identitarie della guerra culturale dei repubblicani negli Stati Uniti, che provano a sollevare un polverone accusando ogni forma di regolamentazione di essere, in realtà, una minaccia alla libertà individuale, allo stile di vita, all’americanità.
“Dio. Armi. Fornelli a gas”, ha twittato il deputato repubblicano Jim Jordan a gennaio. Ma poteva essere anche “Dio. Armi. Hamburger”, oppure “Dio. Armi. Petrolio”.
Il tweet nasce da una polemica che si è scatenata quando Richard Trumka, presidente della commissione statunitense per la sicurezza dei prodotti di consumo (Cpsc), ha fatto intendere in un’intervista a Bloomberg che esisteva la possibilità di una regolamentazione dei fornelli a gas, a causa di rischi per la salute. Alcuni studi scientifici, infatti, hanno dimostrato che l’esposizione al gas dei fornelli può essere dannosa per gli esseri umani in quanto può contribuire a causare asma e problemi respiratori.
Come succede con tante polemiche politicamente strumentalizzate, il governo federale non aveva in realtà avviato alcun procedimento per vietare niente, tantomeno i fornelli a gas.
Il presidente della Cpsc ha comunque dovuto rilasciare una dichiarazione pubblica in cui afferma che le emissioni dei fornelli a gas possono essere “pericolose” e che l’agenzia intende trovare delle soluzioni per ridurre l’inquinamento dell’aria interna dovuto al gas, ma che non esiste alcun divieto. Diverse città e stati americani stanno regolamentando i nuovi allacciamenti al gas, e il District of Columbia ha proposto una politica per consentire alle famiglie a basso reddito di sostituire i fornelli inquinanti, ma nessuna autorità federale, statale o comunale vieta quelli già in uso.
La strategia delle lobby energetiche è indicare come responsabile solo l’individuo con le sue scelte quotidiane, non chi produce, chi inquina, chi emette
Il punto, tuttavia, non è questo. Il punto è che la più recente cartuccia della guerra culturale conservatrice americana, il fornello a gas, è l’ennesimo capitolo di una strategia industriale decennale per ingannare l’opinione pubblica.
Sappiamo già che le aziende di combustibili fossili hanno mentito per continuare a estrarre gas e petrolio. Uno studio pubblicato a gennaio dalla rivista Science, per esempio, dimostra che la ExxonMobil era consapevole dei danni per il clima legati alle emissioni di anidride carbonica dei suoi prodotti. Non solo, ma la Exxon sapeva molto più di quello che credevamo. Lo studio, infatti, rivela che fin dal 1977 la maggior parte delle proiezioni dell’azienda prevedevano con accuratezza il riscaldamento globale, in linea con l’aumento di temperatura successivamente osservato.
In maniera simile, l’industria fossile negli Stati Uniti ha lavorato a lungo per convincere l’opinione pubblica che i fornelli a gas non solo sono sicuri, ma che sono, in qualsiasi caso, la migliore opzione possibile. Un’inchiesta della giornalista Rebecca Leber su Mother Jones ha rivelato che, almeno dal 2018, alcune influencer sui social media sono state ingaggiate da associazioni industriali del gas per pubblicare post che esaltano i benefici dei fornelli con l’hashtag #cookingwithgas (#cucinareconilgas). Nel 2020, un altro gruppo commerciale, l’American public gas association, ha pianificato di spendere 300mila dollari per la campagna Natural gas genius, mirata ai millennial.
La campagna, in realtà, è cominciata almeno settant’anni prima della nascita di Instagram. Leber racconta che negli anni trenta del novecento gruppi come l’American gas association dovevano competere con i fornelli a legna ed elettrici e che un dirigente ideò uno slogan durato quasi un secolo: “Ora si cucina con il gas”. L’industria ha usato a lungo la cultura pop per diffondere il suo messaggio, spiega Leber: negli anni quaranta lo slogan faceva parte dello sketch di un famoso comico, negli anni cinquanta di uno spot pubblicitario di 13 minuti, negli anni ottanta era un brano rap dell’azienda di distribuzione del gas National fuel gas distributors.
Mentre si incoraggiava l’uso gas nelle case degli americani, ci sono documenti che dimostrano che l’industria ne conosceva bene i rischi per la salute. Uno studio del 1979 aveva già concluso che “la prevalenza di uno o più sintomi o malattie respiratorie era più alta nei bambini provenienti da case in cui si usava il gas per cucinare rispetto a quelli provenienti da case in cui si usava l’elettrico”.
La giornalista investigativa Amy Westervelt ha trovato e raccolto alcuni di questi documenti, che non riguardano solo gli Stati Uniti: anche Italgas, in un documento del 1991, parla del ruolo dell’industria nel guidare la ricerca sulla qualità dell’aria interna. Nel rapporto, fa notare Westervelt, è chiaro che, anche dopo l’introduzione di meccanismi per le riduzioni delle perdite di gas nelle cucine, i fornelli e gli altri apparecchi a gas hanno un forte impatto negativo sulla qualità dell’aria.
Nel corso degli anni l’industria del gas ha anche promosso l’idea che basti l’uso di dispositivi di ventilazione o di estrazione del gas dall’aria per risolvere i problemi. La responsabilità quindi non è di chi produce, ma di chi consuma. Il messaggio era questo. È il leitmotif al centro di una delle più efficaci strategie delle lobby di petrolio e gas: è responsabile solo l’individuo con le sue scelte quotidiane, non chi produce, chi inquina, chi emette, chi approva, facilita e investe in attività inquinanti e distruttive.
Distrarre l’opinione pubblica
E qui arriviamo a un secondo punto. Le strategie dell’industria fossile e di chi ne fa gli interessi – inclusi alcuni politici e alcune piattaforme mediatiche – hanno un duplice elemento in comune: fungono da velo e anche da diversivo, e rappresentano uno schema ricorrente e presente in molti paesi, inclusa l’Italia.
I recenti attacchi alle attiviste e agli attivisti di Ultima generazione, al movimento britannico Just stop oil, o alle proteste contro la miniera di carbone a Lützerath, in Germania, hanno una radice simile. Gli attivisti sono stati etichettati come “Eco anarchici”, “gruppetto di fanatici pseudo-ambientalisti”, “sociopatici”, “ecovandali”, “teppisti”. Sono stati giudicati, accusati, sottoposti a sgomberi, processi, violenza. La domanda non è se la disobbedienza civile sia una modalità di protesta legittima. La domanda è: cosa ci dicono la repressione e la violenza contro le proteste stesse?
Molte cose, certo, ma prima tra tutte che la violenza serve a mascherare. Polemizzare su quanto siano sbagliate le modalità di protesta, etichettare gli attivisti, condannarli, processarli permette da una parte di esercitare ordine e controllo, dall’altra di creare fumo e nascondere il problema reale, quello per cui i muri vengono imbrattati e il traffico bloccato. Permette di posporre e dilazionare l’azione sul clima. Permette di nascondere il fatto che, nonostante non ci sia mai stata così tanta urgenza nell’abbandonare le fonti fossili, molti governi, tra cui quello italiano, continuano a promuovere le trivellazioni, a sovvenzionare attività inquinanti con i soldi pubblici, a espandere le infrastrutture di gas e investire in nuovi progetti fossili nei paesi africani. Permette, appunto, di confondere la realtà e di deviare l’attenzione. Si sposta il bersaglio. Il contenuto delle proteste, le motivazioni, la vita non sono più importanti. Subentrano la disinformazione, la propaganda e la violenza. L’onere ricade su chi porta avanti la lotta, su chi dà voce alla scienza e ai diritti.
Quando ho fatto questa domanda – cosa ci dicono la repressione e la violenza contro le proteste? – all’autrice e attivista Rebecca Solnit, lei mi ha risposto: “Non si usa la violenza se non si è veramente preoccupati. Vuol dire che la propaganda e le bugie non sono state sufficienti”. E ha aggiunto: “La violenza è chiarificatrice.”
Più di tutto, dice Solnit, la violenza maschera la paura. La paura di sapere che la pressione per chiedere un’azione sul clima non è mai stata così elevata come oggi, che chi ha contribuito a creare la crisi climatica e a promuovere prodotti dannosi alla salute e alla vita sarà ritenuto responsabile, la paura che sia ribaltato lo status quo in un processo che toglie profitto, potere e privilegio a chi lo ha avuto finora.
Non guardate dove vi dicono di guardare, trovate quello che provano a nascondere.
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