Negli ultimi anni sono entrati nei paesi dell’Unione europea a quindici 26 milioni di immigrati. Dal 2000 in paesi come l’Irlanda e la Spagna, oggi duramente colpiti dalla crisi, è raddoppiato il rapporto tra la popolazione straniera e quella indigena. Certo, questi flussi sono precedenti alla recessione. Bisogna considerare, infatti, che nei periodi di crisi l’immigrazione tende a diminuire: secondo alcuni studi, scende del 2 per cento per ogni punto percentuale perso dal pil nel paese di destinazione.
E ora che a causa della crisi i deficit dei bilanci pubblici salgono alle stelle e la disoccupazione raggiunge tassi a due cifre, i cittadini hanno la legittima preoccupazione che anche i più strenui difensori delle politiche ridistributive saranno costretti a tagliare le prestazioni sociali, a meno che non riescano a limitare l’immigrazione o almeno l’accesso degli immigrati al welfare. Questa paura ha contribuito in larga misura alla sconfitta dei socialdemocratici in quasi tutti i paesi. Le coalizioni di destra sono percepite come più credibili nell’attuazione di politiche restrittive.
Le barriere all’immigrazione, però, sono slogan facili da sbandierare in campagna elettorale, ma molto difficili da applicare una volta al governo. La strada giusta può essere quella decisa dalla Danimarca e dalla Svezia, paesi che hanno programmi di welfare solidi e dinamici. Come si può fare? Per esempio, subordinando la possibilità di ricevere i sussidi al pagamento dei contributi e sanzionando gli abusi sia sotto il profilo sociale sia sotto quello amministrativo. (con lavoce.info)
Internazionale, numero 800, 19 giugno 2009
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it