Non è un fatto nuovo: da alcuni decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Trent’anni fa e più un valoroso filologo, Arrigo Castellani, nel diffondersi di anglismi nell’uso italiano vide e diagnosticò un morbus anglicus, un virus capace di infettare e corrompere la lingua italiana. Ma del fenomeno ormai bisogna dire di più. Come si vedrà meglio qui più oltre, le ondate di anglismi non riguardano solo l’italiano. In italiano come in altre lingue l’afflusso di parole inglesi dagli anni ottanta ai nostri ha assunto dimensioni crescenti, uno tsunami anglicus. Le ondate somigliano ormai infatti a un susseguirsi di tsunami (parola che si può forse considerare maschile in latino, attratta da maris motus): imponenti ondate che movendo dal mare più profondo investono improvvisamente le acque costiere e i tranquilli porti dei più lontani paesi. È possibile trovar riparo? E come? Quasi a un tempo sul tema delle possibili difese vedono la luce un comunicato stampa dell’Accademia della Crusca, un grosso libro pubblicato dall’editore Reverdito di Trento e gli atti di un convegno della Crusca (La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, goWare 2016).

Incipit Crusca nova
Il comunicato stampa della Crusca contiene varie notizie importanti. La prima, che già aveva circolato, è che dentro l’Accademia si è costituito il gruppo Incipit. Del gruppo fanno parte valenti studiosi di linguistica italiana (Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni) cui si aggiunge Annamaria Testa, copy o copywriter come lei stessa si definisce, ben nota ai lettori di Internazionale anche per le sue preziose note e impegnata da tempo nella campagna Dillo in italiano. Secondo il comunicato stampa, Incipit “si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi ‘incipienti’, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana”.

Come informa il comunicato, “il gruppo Incipit ha osservato che nel sistema universitario italiano è presente una forte disponibilità a impiegare termini ed espressioni provenienti dal mondo economico-aziendale, per designare o descrivere momenti della valutazione relativi alla didattica e alla ricerca, o per indicare fasi burocratico-organizzative previste nella vita ordinaria dell’istituzione”. Incipt “segnala alcuni di questi termini, scelti tra quelli di uso più frequente, e rammenta l’esistenza di vari equivalenti italiani perfettamente adeguati, i quali eviterebbero di accentuare quell’immagine aziendalistica dell’università che sembra oggi imperante, ma che in realtà non riscuote consensi incondizionati”. Quella di Incipit vuol dunque essere una linguistique d’intervention: individua gli anglismi e propone per ciascuno alternative di vocaboli italiani, ma l’intento è più che linguistico, è combattere la visione aziendalistica dell’università. Questo è un obiettivo condivisibile, anche se, forse, non specifico della veneranda Accademia e anche se difficilmente basteranno i sostituti italiani di parole inglesi per combattere l’aziendalismo o, meglio, le aspirazioni aziendalistiche delle politiche universitarie in Italia (presenti purtroppo anche altrove). A ogni modo ecco l’elenco delle parole e locuzioni inglesi stilato da Incipit con l’indicazione, per ciascuna, di un possibile equivalente italiano.

  • analisi on desk → analisi preliminare o analisi a tavolino
  • benchmark → parametro di riferimento
  • benchmarking → confronto sistematico o analisi comparativa
  • tool (per esempio: learning tool, teaching tool) → strumento
  • student (o client) satisfaction (es.: monitoraggio della student satisfaction) → soddisfazione dello studente (dell’utente)
  • debriefing → resoconto
  • executive summary → sintesi
  • distance learning → apprendimento a distanza (distinto da e-learning → teleapprendimento o apprendimento online)
  • peer review → revisione tra pari
  • public engagement → impegno pubblico
  • valutazione della performance → valutazione dei risultati

Qualche dubbio
Se l’obiettivo dell’Accademia è ottenere gli applausi della stampa, l’obiettivo è in gran parte raggiunto. Internet documenta parecchie riprese giornalistiche del comunicato, a volte pubblicate bizzarramente, sotto il titolo anglizzante Stop all’inglese (ma gli evitabili anglismi degli antianglisti, a cominciare dall’insistente uso di anglicismo, parola che per l’appunto è un anglismo, meriterà una volta un discorso a parte). Dal punto di vista dello studio del fenomeno e delle conseguenti proposte per limitarlo, resta però qualche dubbio. La promessa di Incipit è, come già detto, cogliere parole ed espressioni “di uso incipiente”, quelle cioè che stanno appena affiorando nell’uso, per poterne suggerire l’abbandono prima che si affermino. Ma in buona parte quelle dell’elenco, se si fa una breve ricerca in Google, o anche solo nel Gradit o nel Dizionario di Internazionale, risultano in uso da tempo. Eccole rielencate con la data di prima attestazione: analisi on desk 1998, benchmark 1978, benchmarking 1980, tool 1977, executive 1959, distance learning 1997, peer review 1980, performance 1895.

Forse valeva la pena di fare un po’ di analisi preliminare dei dati disponibili, un po’ di analisi on desk. Si sarebbe visto che la fonte prima della fortuna di parecchi degli anglismi in questione non è un aziendalese improvvisato e posticcio, come il comunicato dice e fa credere al giornalista frettoloso. La coppia analisi on desk/analisi on field o field analysis (questa in gara con la più diffusa analisi o ricerca sul campo) non nasce nelle aziende, ma nasce e vive in lavori di metodologia della ricerca. Di benchmark e di benchmarking e peer review hanno cominciato a parlare lavori di fisica teorica e sperimentale. L’uso di distance learning (e del coevo insegnamento a distanza) nasce nelle scienze dell’educazione. Quanto a performance circola con successo dagli ultimi anni dell’ottocento negli ambiti più diversi, arte e spettacolo, ovviamente, e poi scienze dell’educazione, fisica dei materiali, ingegneria, teoria economica. Se c’è (e c’è) abuso di anglismi nella comunicazione universitaria, l’imputato chiamato alla sbarra da Incipit, l’aziendalese, va assolto: non è lui che ha commesso il fatto. Un fatto, la visione aziendalistica dell’università, che resterebbe e resta grave anche se direttori amministrativi e affini evitassero parole di trasparente origine straniera.

Conoscere l’inglese per “dirlo in italiano”
Resta certamente il fatto fastidioso per la sua insistenza. Un caso che pare ancor più clamoroso e che si potrebbe segnalare a Incipit è quello di summer school. L’equivalente italiano, scuola estiva, antico e di consolidata tradizione, ha ancora una sua prevalenza nelle pagine italiane di internet e in Wikipedia italiana. Forse Incipit poteva spendere una parola a suo favore per rinsaldarne l’uso. Nel caso della Sapienza di Roma anni fa con la collega Emanuela Piemontese cercammo di opporci alla dizione anglizzante. Ci fu detto che l’espressione inglese giovava a richiamare gli studenti stranieri. Lo studente indiano, cinese, senegalese, tedesco, svedese, statunitense, britannico eccetera che vuol venire a Roma alcune settimane a sentire lezioni in italiano di storia, letteratura e storia dell’arte italiane e per seguire un corso accelerato di italiano per fini specialistici, verrebbe volentieri grazie al cappello summer school, non verrebbe con l’intitolazione scuola estiva. Questa tesi ci fu esposta non da un bieco direttore amministrativo aziendalista e anglizzante, ma da nostri colleghi archeologi e filologi illustri. Purtroppo il caso di Roma non è isolato e summer school dilaga da Palermo a Padova, da Milano a Siena e Firenze.

C’è però un’isola di resistenza. Se si fa un po’ di field analysis, ci si accorge che fisici, matematici e logici italiani chiamano scuola estiva e non summer school le loro scuole estive. Il caso a prima vista può stupire: ma non sono proprio questi i tre settori disciplinari in cui l’inglese è più di casa? E come mai la dizione italiana di buon conio vive tranquilla per loro e tra loro? Parecchi anni fa, all’inizio della diffusione dei pc in Italia, studiando con Paola Manacorda il fenomeno, apparve con evidenza un fatto: gli anglismi lussureggiavano nei dépliant commerciali, apparivano più raramente nei manuali di istruzione, scomparivano nei trattati scientifici di teoria dei sistemi e di informatica. Il caso suggerì un’ipotesi: dietro tutti gli usi linguistici c’è una questione di “densità della cultura”, come Ascoli insegnava centocinquanta anni fa. A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l‘“americano” di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti. Correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi.

Contro gli anglismi, dalla Spagna con amore
Per combattere gli anglismi e a difesa dell’italiano scende nell’arena, accanto alla Crusca, l’autore del libro di Reverdito cui si accennava all’inizio. Lo ha messo insieme non un’accademia intera ma un lupo solitario, Gabriele Valle. Se ha senso dire (qualcuno ne dubita) che si ama una lingua, Gabriele Valle ci offre una vivace prova del fatto che sì, si può. E addirittura, come mostrano questo suo libro e la sua biografia intellettuale, Valle di lingue ne ama due: la lingua della sua infanzia e giovinezza peruviana, lo spagnolo, e l’italiano, la lingua degli avi genovesi ritrovata appieno rientrando in Italia, dove vive stabilmente dal 2007. In nome dell’amore per entrambe le lingue propone in un suo sito, Italiano urgente, e ora nell’omonimo libro di Reverdito, una raccolta di osservazioni, ordinate come un vocabolario, sul diverso comportamento dei parlanti ispanofoni e italofoni nei confronti di circa cinquecento anglismi affermatisi degli ultimi decenni. Come si è detto qui all’inizio lo tsunami ha investito e investe tutte le aree linguistiche del mondo.

L’inglese e i suoi incroci
Nelle aree in cui l’ondata anglizzante è più intensa e pare non ritrarsi il fenomeno è stato variamente etichettato ricorrendo a parole macedonia, parole che fondono il nome della lingua locale e le parole che vogliono dire “inglese”. Un elenco di questi glottonimi, anche succinto, non è breve, ma è utile ad avviare la riflessione sulla natura globale dello tsunami anglicus. Su queste “interlingue” l’informazione di una grande fonte come Ethnologue è in genere avara, mentre Wikipedia, soprattutto nella versione inglese e delle altre lingue coinvolte, è spesso ampia e accompagnata da ricche bibliografie. Ecco di seguito l’elenco:

  • chinglish, parola usata genericamente per i pidgin o creoli anglocinesi, più spesso per l’inglese quando è interferito, specie foneticamente, dal cinese; viene parlato da comunità di nativi cinesi immigrati negli Stati Uniti, a Hong Kong e a Singapore (qui pare preferito il termine singlish); chinglish designa anche il semilinguismo scolastico di apprendenti cinesi;
  • czenglish, l’inglese (britannico) parlato da cechi;
  • denglish (anche germish), tedesco con influenze inglesi, deformazioni grafiche di parole inglesi o pseudoanglismi molto diffusi anche in Germania (slip, body ecc.);
  • dog latin, latino maccheronico anglizzante (analogo al latin de cuisine francese o, appunto, al latino maccheronico italiano); un esempio storico è la seguente descrizione di una cucina: camera necessaria pro usus cookare; cum saucepannis, stewpannis, scullero, dressero, coalholo, stovis, smoak-jacko; pro roastandum, boilandum, fryandum, et plum-pudding-mixandum… ; altro esempio è lo pseudobrocardo illegitimi non carborundum “don’t let the bastards grind you down”; variante di dog latin è l’hiberno-latin (chiamato anche hisperi latin), usato per scherzo da monaci irlandesi;
  • Elfe, English as Lingua Franca in Europe, inglese dell’Unione europea, inglese come realmente usato dagli europei;
  • engrish, l’inglese di giapponesi e cinesi (incapaci di distinguere r e l);
  • franglais, dal 1959 designazione polemica del francese farcito di anglismi più o meno ben importati; in inglese frenglish;
  • goleta english (o inglés goleta in spagnolo, detto anche jibaro english), l’inglese tendenziale di portoricani, relativamente stabilizzato;
  • hinglish, l’hindi anglicizzato, per il quale lo scrittore Baljinder Mahal ha scritto un dizionario, The queen’s hinglish: how to speak pukka; si stimano a centinaia di milioni gli indiani che lo praticano;
  • konglish, coreano interferito da inglese americano, spesso da black english, affermatosi dopo la guerra di Corea;
  • namlish, inglese parlato (come lingua seconda, dunque con una certa stabilità) in Namibia, con interferenze e calchi da oshiwambo, ma anche da afrikaans, damara, herero e altre lingue minori;
  • poglish, l’inglese di immigrati polacchi negli Stati Uniti, con molti calchi lessicali e sintattici dal polacco;
  • portenglish, portoghese brasiliano con molti prestiti dall’inglese;
  • runglish, designa sia un pidgin anglorusso, per esempio di astronauti russi e d’altra lingua nello spazio o di ebrei russi a Brooklyn, sia un inglese fortemente influenzato dal russo (soppressione degli articoli, people con verbo al singolare eccetera) nelle comunità immigrate negliStati Uniti;
  • spanglish, parola coniata dal linguista portoricano Salvador Tiò per lo spagnolo anglicizzato distinto dall’inglañol, che è l’inglese ispanizzato;
  • swenglish o swinglish (in svedese svengelska), inglese con forti interferenze svedesi o, come il franglais, svedese con molti prestiti dall’inglese;
  • taglish (o anche englog), forma interferente di inglese e tagalog o filippino, relativamente stabilizzata in loco e tra i nativi filippini negli Stati Uniti e in Gran Bretagna;
  • tinglish (anche thenglish, thailish o thainglish), inglese con forti interferenze thai usato in Thailandia;
  • yeshivish, yiddish (dialetto tedesco ebraizzante) parlato negli Stati Uniti con influenze inglesi da ebrei ashkenaziti ortodossi nell’ambito di scuole talmudiche;
  • yinglish, l’inglese di comunità ebraiche in paesi anglofoni.

Tutte queste formazioni interlinguistiche non sono sullo stesso piano. Alcune per massa di parlanti che le adoperano appaiono stabilizzate e in qualche misura accettate, come l’hinglish o il namlish, e ormai tendenzialmente creolizzate (si apprendono nativamente). Altre sono formazioni forse passeggere. In alcuni casi siamo in presenza di un inglese soggetto a interferenze di sostrato, come l’Elfe o il tinglish, in altre invece è la lingua locale che subisce l’influenza di superstrato dell’inglese. Questo è il caso del franglais o, in parte, delle deformazioni scherzose del latino de cuisine (ma l’influenza dei sostrati romanzo-germanici sul latino colto d’età tardo medievale e moderna è un problema diverso, che esige altro discorso). Ed è, come Valle concorre a mostrare, il caso dell’italiano quando venga usato con abbondanza di anglismi.

Contro gli anglismi l’ispanofono è il più bravo
Valle è un colto insegnante e, anche se non è un linguista, sa bene di non essere il primo a fermarsi sul fenomeno italiano e a etichettarlo. A parte più antiche manifestazioni linguistiche di anglomania e correlata anglofobia, segnalate già in diverse pagine della Storia linguistica dell’Italia unita (1963), il ricorso a vocaboli inglesi nell’uso comune, anche fuori di ristretti ambiti tecnici (banche, finanza), è diventato sempre meno raro a partire dagli anni sessanta del novecento. È da allora che significativamente appaiono etichette di condanna o scherno, spesso “parole d’autore”, coniate cioè da studiosi o scrittori come Primo Levi o Roberto Vacca (mascherato sotto lo pseudonimo di Giacomo Elliot, nel volume Parliamo itang’liano. Ovvero le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera): italiese o italese (1966), itang’liano (1977), itanglese (1999), anglitaliano (2010). Valle propone un’altra etichetta ancora, itanglish (oppure il già nato e noto itanglese), e si unisce a quanti intendono combattere il fenomeno, come già vollero fare Paolo Monelli e gli Accademici d’Italia in età fascista, poi un valoroso filologo come Arrigo Castellani col suo scritto già ricordato sul morbus anglicus, e come vanno facendo in anni più recenti il capitano Paolo Cappelli, dal 2008 per conto del ministero della difesa (nomen omen), per conto invece dell’editore Manni gli storici della lingua italiana Riccardo Gualdo e Claudio Giovanardi (Inglese-Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi?), dal 2010 l’Agenzia Agostini Associati (con la campagna Stop itanglese) e infine dal 2015, come abbiamo ampiamente detto prima, Annamaria Testa e, da questa stimolata, l’Accademia della Crusca col gruppo Incipit e il convegno già ricordato. Nell’impresa Valle è guidato anzitutto dal suo duplice amore per l’italiano e per lo spagnolo.

Rispetto agli italiani, ma anche a molte altre comunità linguistiche, gli ispanofoni sono più cauti nell’accettare anglismi nell’uso corrente. A Valle gli italiani appaiono invece inclini assai di più all’accettazione e questo gli fa temere lo stravolgimento della stessa amata lingua italiana. Sempre più spesso, teme Valle, gli italiani abbandonano le parole del loro patrimonio storico nazionale e usano parole inglesi. Questo non è più italiano, egli dice addolorato, è itanglish. L’itanglish gli appare ormai imperversante senza freni: questa specie di pidgin diventerà un vero creolo coloniale angloitaliano, i bimbi lo impareranno nella culla, l’italiano vero finirà nella soffitta degli usi dotti e letterari. Per amore delle due lingue Valle da tempo sostiene che chi parla italiano farebbe bene a osservare il comportamento cauto di chi parla spagnolo.

L’accostamento delle due lingue e la proposta dello spagnolo come possibile modello di scelte linguistiche italiane non sono basate solo sull’esperienza soggettiva di Valle, ma anche su un dato linguistico oggettivo. Se ricorriamo alla nozione tecnica di distanza linguistica occorre dire che il castigliano e, quindi, lo spagnolo da una parte e, dall’altra, i dialetti toscani centrosettentrionali e, quindi, il fiorentino e l’italiano sono, insieme al sardo logudorese, gli idiomi romanzi che meno si sono allontanati dalla matrice latina e protoromanza. Di conseguenza, la distanza linguistica tra loro è molto minore della distanza che ciascuno ha con il francese, il ladino o il romeno. Di qui l’interesse che per gli italofoni possono avere le soluzioni adottate dagli ispan0foni per fronteggiare gli anglismi.

Il contributo di Valle sollecita diverse riflessioni. Come ha mostrato già anni fa un ampio studio di Manfred Görlach (A dictionary of european anglicism. A usage dictionary of anglicisms in sixteen european languages, Oxford University Press 2001) sono circa quattromila gli anglismi insediatisi in modo non occasionale nell’uso comune di molte lingue europee. Essi sono dunque quegli anglismi non occasionali (come il choosy della ministra Elsa Fornero) candidati a entrare nella categoria degli internazionalismi. È una categoria di parole geneticamente composita in cui, sul sempre dominante fondo grecolatino, si sono aggregati nei secoli arabismi, francesismi, italianismi, ispanismi, tedeschismi, giapponesismi e, più rari, specie se siguarda ai significanti, ebraismi, e ancora russismi e sinismi. I gruppi intellettuali dei diversi paesi e le tradizioni d’uso delle varie lingue hanno differenti atteggiamenti nei confronti degli internazionalismi. Una linea di comportamento diffusa e spesso consapevolmente programmata dai gruppi intellettuali è quella, già latina nei confronti di grecismi, del ricorso a calchi semantici: con materiali del patrimonio lessicale tradizionale si creano parole ricalcate sul modello alloglotto e si introduce nella lingua una nuova parola di forma indigena ma di “anima”, come diceva Leo Spitzer, cioè di significato inizialmente straniero. Così, ad esempio, una diffusa famiglia di internazionalismi risale alla parola latina conscientia, ma questa parola è un calco dal greco, ha un’anima greca. Il calco, dovuto a Cicerone e diffuso poi dal linguaggio del cristianesimo, riprende la parola greca syneídesis, composta di syn “con”, in latino cum, com- , e di eídesis “sapere, conoscenza”, in latino scientia. In altri casi invece gli internazionalismi sono adattati non solo alle diverse abitudini fonetiche nazionali (pronunciamo all’italiana l’anglismo tunnel, alla seminglese club o surf), ma anche alla fonematica e ortografia e morfologia desinenziale (così beaf-steak è stato adattato in bistecca), operazione che in italiano è facilitata dalla natura di “cavallo di ritorno” (diceva il grande indimenticabile Bruno Migliorini) dei molti anglismi di origine latina o neolatina (così, senza difficoltà, sentimental nel settecento fu reso con sentimentale).

Gli anglismi suscitano impressione negli osservatori, specie digiuni di studi linguistici scientifici, per il numero e la rapidità con cui hanno fatto e fanno irruzione nelle diverse comunità linguistiche. Le autorità governative francesi da diversi decenni si sono impegnate in una difficile impresa, una mission impossible direbbero gli anglizzanti più corrivi: l’impresa di difendere l’antica posizione dominante della francofonia e di frenare l’uso della lingua inglese come lingua internazionale della diplomazia, delle scienze, delle tecnologie d’avanguardia, dello spettacolo. Sullo slancio di quest’impegno una legge varata dal ministro Jacques Toubon nel 1994 pensò di trasferire dalla politica estera alla politica interna lo stesso atteggiamento combattivo e quindi si propose di limitare l’uso degli anglismi nella comunicazione pubblica. Nell’informazione i risultati non sono brillanti come può vedersi ad esempio leggendo un giornale dallo stile sorvegliato come Le Monde. Sfogliando qualche numero recente del grande quotidiano si trovano nei titoli e negli articoli anglismi presenti anche in italiano e altre lingue, come boom, budget, football, marketing, match, meeting (standard per “comizio”, come fu in italiano a fine ottocento, quando circolava anche meetingaio “comiziante”), tory, week end, ma anche anglismi che l’uso italiano ignora, come biopic, sextape o il semiadattato footballeur, les gamers, la polirematica narrative designer eccetera. In qualche caso generosi sforzi di calco coesistono nello stesso articolo con l’anglismo grezzo: tories e conservatives, la polirematica Parti du travaille e Labour, travailliste e labouriste.

Se contrastare l’uso di anglismi è una virtù, il lavoro di Valle offre larga messe di esempi virtuosi nel contemporaneo uso dello spagnolo sia europeo sia americano. Così, per esempio, resumen è preferito ad abstract (che Incipit sembra ritenere inevitabile in italiano), cuenta vince su account, dopaje e antidopaje paiono prevalere su doping e antidoping, antimonopolio su antitrust, bloguero su blogger e si potrebbe continuare a lungo con le decine e decine di voci per le quali l’uso spagnolo ha preferito optare per equivalenti autoctoni che Valle suggerisce come modello agli italofoni.

Resistenza, ma non sempre
Occorre però dire che proprio la maggior resistenza ispanofona all’uso degli anglismi rende particolarmente interessante il manipolo di anglismi che gli ispanofoni hanno tuttavia adottato sia nella loro forma grafica “cruda”, come diceva Bruno Migliorini (salvo anche in tal caso lo sviluppo di ovvi adattamenti fonetici non registrabili nell’ortografia rispetto alle pronunzie inglesi), sia in una forma grafica leggermente adattata alle consuetudini fonologico-ortografiche dello spagnolo, per esempio indicando un accento (come in búnker), scrivendo –i e non –y in fine parola o ritoccando più decisamente la forma grafico-fonica (estándar o filme, meno usato però del calco película). L’elenco degli anglismi affermatisi anche nello spagnolo è ricavabile dal lavoro di Valle e non è brevissimo. Si tratta, come già si è accennato, di anglismi sia grezzi sia più o meno tenuemente adattati: bar, barman, beisbol, blog, bodi, boomerang, box, brandi, budget (nello spagnolo degli Stati Uniti), búnker, baipás, casting, catering, Ceo, chat (che pare alternare con cibercharla), clic, club, cluster, cocktail, closet (nello spagnolo d’America), curri, dandi, detective, disc jockey (alternante a volte con pinchadiscos), drinque, estándar, file (nello spagnolo cubano e centroamericano), filme e microfilme (accanto a película), flash o flas, freezer (nell’America ispanofona), frizer (in Spagna, accanto a congelador), gang, gángster, gay, hacker, hall, holding, hot dog (nello spagnolo d’America), jeans e blue jeans (nello spagnolo d’America), jetlag, killer (nello spagnolo degli Stati Uniti), líder, living room, manager, manspreading (alternante con despatarre masculíno “spaparanzamento maschile a cosce divaricate”), marketing o anche márquetin, mail, ok (in molte nazioni ispanofone), performance, puzle (convivente con rompecabezas), racket (nello spagnolo degli Stati Uniti), relax, round, sándwich, selfi, sexi, slip, stock, stop, stress, test e testar, web, wéstern, zombi, zum.

Agli esempi ricavabili dal lavoro di Valle qualche altro anglismo ben attestato nello spagnolo si potrebbe aggiungere, come córner o fútbol. Insomma la certa propensione ispanofona a frenare l’entrata degli anglismi non porta a una chiusura ermetica. Nella coscienza linguistica degli ispanofoni la presenza di modelli inglesi è chiara e forte se, per fare ancora un esempio, Brexit ha suggerito, come si legge in questi giorni nel País, Spexit e Catexit (a *Padexit in Italia per ora non si è ancora pensato). Tuttavia è indubbio: quel che altrove è uno tsunami appare invece ed è una fronteggiabile ondata sui lidi ispanici, specialmente quelli europei (non altrettanto vale per gli assai più esposti lidi ispanici americani).

Anglismi nell’uso italiano più recente
Senza dubbio lo tsunami anglizzante va guadagnando terreno nell’uso italiano. Non è rilevante tanto il numero di lessemi di origine inglese registrabili in un grande dizionario. Sulla scala dei grandi dizionari da molti anni ho cercato di mostrare e precisare un dato che non dovrebbe essere privo di interesse per chi vuole accostarsi alla questione dell’interscambio linguistico cercando di capire prima di brandire la spada delle crociate. Nei grandi dizionari inglesi, subito dopo i latinismi e i francesismi che hanno invaso la lingua mettendo ai margini le parole di origine germanica comune, il nucleo genetico della lingua, vi è una percentuale di italianismi e di ispanismi paragonabile alla percentuale di anglismi presenti nel Gradit e ora nella versione online del dizionario Treccani, bruscamente e senza troppe spiegazioni arricchitosi rispetto alle versioni cartacee di pochi anni fa. Chi ha parlato e parla l’inglese nelle isole britanniche e negli Stati Uniti ha aperto e continua ad aprire generosamente le porte alle lingue di origine latina. L’ondata anglizzante in questi anni più recenti si segnala non per la percentuale di parole nel lessico, ma per altri aspetti relativi piuttosto all’uso: l’adozione di anglismi in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, question time, spending review, spread, welfare e via governando); l’ampiezza dei campi semantici investiti dall’uso di anglismi, da quelli tecnico-scientifici alla politica, dallo sport alla quotidianità; e, infine, l’eccezionale frequenza con cui l’uso comune ricorre negli anni più recenti ad alcuni anglismi. Per stabilirlo possiamo riprendere un confronto già avviato in Storia linguistica dell’Italia repubblicana (1a ed., 2014, p.159). È il vocabolario di base dell’italiano redatto nel 1980 sulla scorta di testi (di complessive 500.000 occorrenze di parole) risalenti per lo più a testi scritti degli anni cinquanta e sessanta del novecento e la nuova versione o meglio il radicale rifacimento elaborato con Isabella Chiari su una massa di testi enormemente maggiore (18 milioni di occorrenze), anche trascritti dal parlato, risalenti ai nostri anni dieci. In ogni lingua, non solo in italiano, le poche migliaia di vocaboli del vocabolario di base hanno una frequenza incomparabilmente maggiore delle parole anche comuni e sono così frequenti da coprire oltre il 90 per cento di ciò che diciamo, scriviamo, ascoltiamo. Nel vocabolario di base italiano del 1980 figuravano solo pochi anglismi, bar, film, sport, tennis, tram, whisky. Oggi si affolla invece un ben più folto manipolo. Elenco qui di seguito per ordine di uso decrescente anglismi ora entrati a far parte delle fasce d’alta frequenza:

  • parole in gran parte già comuni, ma soltanto comuni intorno alla metà del novecento, salite ora di frequenza ed entrate quindi nelle fasce di più alto uso del vocabolario di base: ok e okay, design, copyright, designer, gay, sexy, band, slogan, hobby, test, quiz, brand, baby, bit, boss, box, detective, fax, fan, fiction, flash, global, gossip, home, jeans, killer, leader, link, live, look, marketing, menu, monitor, monitoring, network, news, offline, online, party, poker, pop, privacy, pub, pullman, record, rock, set, share, shopping, show, single, software, spot, stress, style, tag, team, top, tour, trend, weekend;
  • parole nuove (rispetto alle precedenti) o non ancora comuni, entrate ora nel vocabolario fondamentale: email, euro “moneta”, web, internet, post, digitale “numerico, discreto”, cliccare.

Torneremo a presentare più diffusamente il nuovo vocabolario di base in questo Gran mare delle parole (già nel Dizionario online si è provveduto ad assegnare nuove etichette, nuove marche d’uso dei lemmi se variate rispetto al vecchio vocabolario di base). E si vedrà che l’accentuata frequenza di anglismi è certamente uno dei tratti in cui si sedimenta la storia linguistica italiana degli ultimi decenni.

A voler bandire l’uso degli anglismi dalle lingue del mondo e dall’italiano c’è lavoro, se non gloria, per tutti.

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