Le prime notizie da piazza Taksim, a Istanbul, raccontavano di cinquanta manifestanti accampati per impedire l’apertura di un cantiere e la distruzione del parco Gezi, “l’unico polmone verde rimasto nel centro cittadino”.
Dopo quattro giorni di protesta, cinque persone in condizioni gravissime, un morto, millesettecento arresti e scontri in tutte le città del paese, i media occidentali parlano di primavera turca, attacco al regime di Erdoğan, battaglia per la democrazia.
Come era già accaduto per la rivolta egiziana, giornali e televisioni esprimono solidarietà e simpatia nei confronti dei ribelli, senza troppo insistere su lanci di sassi e vetrine rotte, mentre condannano con sdegno la polizia antisommossa che ha fatto uso di idranti, spray al peperoncino, pallottole di gomma e lacrimogeni ad altezza d’uomo. Un atteggiamento opposto a quello che di solito incornicia le manifestazioni nostrane, dove si giustifica la “reazione” delle forze dell’ordine e ci si appunta sul vandalismo “dei black bloc”.
Qualcuno dirà che c’è una bella differenza tra chi combatte per la democrazia e chi lo fa – per esempio – per bloccare un cantiere. In questo caso, gli alberi del parco Gezi erano solo un pretesto. Non si tratta della solita, stupida, egoistica battaglia in difesa del proprio cortile.
Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Certo basta guardare una mappa di Istanbul per rendersi conto che Gezi Parkı, in quanto area verde, non è nulla di così speciale. Assediato dai grattacieli e dal traffico, si trova a un paio di chilometri in linea d’aria da parchi più estesi, come il Maçka e lo Yıldız.
A differenza di questi ultimi, però, il Gezi non è un semplice giardino: fa parte di un quartiere che molti considerano il cuore della città, la sua zona più creativa e libera. Piazza Taksim è da sempre un luogo di ritrovo e di protesta. Il 1 maggio 1977, durante le celebrazioni per la festa dei lavoratori, una mano rimasta ignota sparò sulla folla di 500mila manifestanti. Il caos e l’intervento spropositato delle forze di sicurezza causarono 37 morti. Da allora, fino al 2010, le manifestazioni per il 1 maggio non si sono più potute svolgere in piazza Taksim. Tre anni fa, Erdoğan aveva revocato il divieto, salvo poi reintrodurlo, proprio quest’anno, con la scusa dei lavori in corso nella piazza.
Taksim è anche il centro di un’area urbana ricca di ristoranti, luoghi di divertimento, turismo e attività economiche. Ecco perché l’amministrazione cittadina ha deciso di sostituire Gezi Parkı con un grande centro commerciale, cercando di far passare la scelta come un restauro della vecchia piazza. Al posto del parco, infatti, c’era un tempo la caserma di Halil Pasha. Danneggiata durante i moti reazionari del 1909, venne prima utilizzata come stadio per il calcio e poi demolita nel 1940. Il parco che prese il suo posto era molto più esteso di oggi, arrivava fino alla riva del Bosforo, ma in seguito venne ridotto per costruire alberghi e uffici. Il centro commerciale è quindi l’ultimo di una serie di affronti, e poco importa se il suo aspetto sarebbe una copia dell’antica caserma, in perfetto stile ottomano d’antan. La Storia, in questo caso, è davvero un pretesto, al contrario degli alberi di piazza Taksim.
Occupy Gezi, infatti, non è soltanto una battaglia ecologista, ma non è nemmeno una battaglia simbolica. Piuttosto, è l’ennesima dimostrazione di quanto siano sentite, oggi, in tutto il mondo, le lotte per quello che Henri Lefebvre ha definito il diritto alla città, ovvero il diritto a “cambiare noi stessi cambiando l’aspetto delle nostre metropoli”. Il diritto a partecipare ai processi di urbanizzazione e a non farsi strappare dagli speculatori il valore di un quartiere, di una piazza, di un parco. Quel valore, infatti, è il risultato di un lavoro collettivo, delle attività e delle relazioni sociali prodotte da chi vive un determinato spazio. Eppure viene mercificato e venduto – tot euro al metro quadro – proprio da chi intende stravolgere quello spazio senza nemmeno confrontarsi con la comunità che ha contribuito a dargli forma. Una dinamica di sfruttamento che non è tipica soltanto dei contesti urbani: più in generale, si potrebbe parlare di diritto al paesaggio.
Ecco allora che la difesa di una piazza, di un parco, di una valle alpina non è mai soltanto locale o soltanto simbolica. Chiedendo di poter esercitare il proprio diritto al paesaggio, i manifestanti stanno già combattendo per la democrazia. Per quella democrazia che ormai è diventata incompatibile con il capitalismo e le sue inevitabili conseguenze: l’urbanizzazione selvaggia, la speculazione edilizia e il land grabbing.
Non deve sorprendere, allora, se la protesta del parco Gezi si è diffusa in tutta la Turchia, mettendo insieme anarchici, socialisti, sindacati, curdi e turchi, movimenti lgbt, ultrà di opposte tifoserie e persone finora rimaste lontane dalla politica.
Ciò che sorprende, piuttosto, è che quando il diritto al paesaggio viene reclamato in Italia, invece di accogliere la protesta come una risorsa e uno stimolo, si preferisce rispondere con le parole di Erdoğan a proposito del nuovo, contestato, ponte sul Bosforo: “Possono fare quello che vogliono”, ha detto. “Noi abbiamo preso la nostra decisione e faremo come abbiamo deciso”.
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