Alla fine Hassan Diab ha ceduto alle pressioni dei manifestanti, ma soprattutto a quelle politiche. Il 10 agosto, una settimana dopo la tragica esplosione nel porto di Beirut, il primo ministro ha annunciato le dimissioni del suo governo, arrivate dopo giorni segnati da scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, e da una serie di manovre politiche per far cadere l’esecutivo. È una vittoria per il movimento di protesta, ma non basta a soddisfare le richieste dei manifestanti, che vorrebbero un rinnovamento dell’intera classe politica.
In ogni caso la tempistica della decisione di Diab spinge il Libano verso l’ignoto. Il primo ministro ha gettato la spugna in un momento critico, caratterizzato da una crisi economica, sociale e sanitaria a cui si aggiungono le pressioni senza precedenti della comunità internazionale, impaziente di vedere il Libano intraprendere una volta per tutte la via delle riforme economiche per sbloccare gli aiuti promessi in occasione della conferenza Cedre di Parigi nell’aprile 2018 e quelli del Fondo monetario internazionale.
Le pressioni internazionali sono state rafforzate dalla visita del presidente francese Emmanuel Macron, che il 6 agosto è stato a Beirut. Macron ha indicato il 1 settembre, data in cui ha promesso di tornare in Libano, come scadenza per l’avvio delle riforme. Ma ora, dopo le dimissioni del governo, è improbabile che il nuovo esecutivo possa insediarsi prima di quella data, anche perché la presidenza della repubblica ha deciso di temporeggiare prima di avviare un giro di consultazioni per nominare un primo ministro, subordinandole al raggiungimento di un’intesa politica allargata. A tutto questo si aggiunge il fatto che la costituzione non impone al primo ministro designato alcuna scadenza per la formazione del governo.
La situazione, quindi, potrebbe trascinarsi a lungo. Ma la verità è che i politici libanesi, alle prese con un tracollo economico senza precedenti e con un negoziato con il Fondo monetario internazionale sospeso dal 10 luglio, non possono permettersi il lusso di lanciarsi nelle solite guerre per spartirsi i ministeri.
In attesa di capire cosa succederà, una cosa sembra chiara: dietro le dimissioni del premier si nasconde un regolamento di conti politico con il presidente della camera, Nabih Berri. Tutto è cominciato la sera dell’8 agosto, quando il primo ministro uscente si è rivolto alla nazione, annunciando che avrebbe presentato al consiglio dei ministri (che si è tenuto il 10 agosto) un disegno di legge che prevedeva le elezioni anticipate. In questo modo Diab ha tentato di calmare la rabbia dei manifestanti, dopo una giornata segnata da violenti scontri con le forze dell’ordine intorno al parlamento. Le parole di Diab non sono servite ad attenuare il malcontento della folla e in più hanno scatenato l’ira del presidente della camera.
Secondo una fonte anonima, Berri avrebbe visto nella mossa di Diab un attacco alle sue prerogative e a quelle del parlamento, anche perché il primo ministro dimissionario ha parlato di elezioni anticipate senza consultarsi né con il presidente della camera né con Hezbollah, ovvero i principali sostenitori del governo. A questo punto, riferisce la fonte, Berri ha deciso di convocare un dibattito alla camera il 13 agosto, con la tragedia del 4 agosto sullo sfondo. La seduta avrebbe dovuto provocare la caduta del governo, ma le dimissioni di Hassan Diab hanno privato Berri della soddisfazione di essere la causa della fine dell’esecutivo.
Hezbollah è stato informato della determinazione di Berri a liberarsi di Diab. L’organizzazione ha accettato le dimissioni del primo ministro, mentre il direttore dell’intelligence libanese, Abbas Ibrahim, cercava invano di gettare acqua sul fuoco per l’ennesima volta.
E così, in un messaggio rivolto ai libanesi, Hassan Diab ha annunciato le proprie dimissioni. Come da costume, si è poi lanciato in una serie di accuse, ma senza fare nomi: “Siamo stati lasciati soli, hanno fatto tutto contro di noi. Hanno usato tutte le armi possibili, falsificato fatti e prove. Sapevano che rappresentavamo una minaccia per loro”.
Alcune ore prima Diab aveva presieduto l’ultimo consiglio dei ministri al palazzo del Gran serraglio. Poco prima, il ministro delle finanze Ghazi Wazni (vicino a Nabih Berri), quello della giustizia Marie-Claude Najm e quello della difesa Zeina Acar avevano presentato le dimissioni per iscritto al primo ministro. I loro colleghi Manal Abdel Samad (informazione) e Damien Kattar (ambiente e sviluppo) si erano già arresi il 9 agosto. Per tutta la giornata si sono susseguite le dimissioni dei parlamentari.
La comunità internazionale segue da vicino gli sviluppi in Libano. Il ministro degli esteri egiziano, Sameh Choukri, è atteso l’11 agosto a Beirut, mentre il sottosegretario di stato statunitense per il Medio Oriente, David Hale, dovrebbe arrivare in questi giorni. La sera del 10 agosto il ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian ha dichiarato che “la priorità è la formazione rapida di un governo che dimostri la propria solidità alle persone e abbia come missione quella di reagire alle grandi sfide, a cominciare dalla ricostruzione di Beirut e dalle riforme, senza le quali il paese è condannato al tracollo economico, sociale e politico”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sul giornale libanese L’Orient-Le Jour.
- Il 4 agosto un’enorme esplosione ha devastato la zona portuale di Beirut. A causarla sarebbero state quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio, un composto chimico usato come fertilizzante ma anche per produrre esplosivi. Più di seimila persone sono rimaste ferite e più di duecento sono morte.
- Secondo alcuni documenti visionati dall’agenzia Reuters, i funzionari addetti alla sicurezza avevano avvertito i vertici dello stato del rischio rappresentato dal nitrato. Il materiale era arrivato con la nave Rhosus, partita dalla Georgia e diretta in Mozambico, sequestrata anni prima. Il 5 agosto le autorità libanesi hanno messo ai domiciliari i funzionari portuali della capitale.
- Nelle ultime notti a Beirut ci sono state grandi manifestazioni, durante le quali ci sono stati scontri con le forze dell’ordine. I cortei, cominciati a ottobre, non si sono fermati neanche dopo le dimissioni del governo. I manifestanti accusano la classe politica libanese di corruzione e negligenza.
- Da tempo il Libano è alle prese con una crisi economica senza precedenti, con circa il 45 per cento della popolazione costretta a vivere sotto la soglia di povertà.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it