Durante la riunione si alzò spiegando, con dovizia di particolari, perché la fabbrica non produceva la quantità di zucchero prestabilita. Intorno a lui, mentre descriveva l’obsolescenza delle macchine, la disorganizzazione dei turni e la mancanza di stimoli per i lavoratori, solo in pochi alzarono lo sguardo.

Alla fine della sua invettiva il direttore lo accusò di “criticare senza proporre soluzioni”. L’uomo si sedette ripromettendosi di non prendere mai più la parola durante quei noiosi incontri mensili. Con il tempo l’ingegnere capì che le polemiche venivano accolte bene solo se erano associate a espressioni come “la saggia decisione dei nostri leader” o mitigate da presunti buoni propositi come “abbiamo bisogno di più sacrifici”.

Ma lui voleva fare luce sull’inefficienza della produzione nella sua impresa e credeva che, il semplice fatto di raccontarla, fosse il primo passo per trovare una soluzione. Gli ci vollero alcuni anni per rendersi conto che il resto dei suoi colleghi aveva attraversato una fase di entusiasmo simile per il rinnovamento. Molti avevano alzato la mano nell’assemblea e avevano ricevuto gli stessi sguardi torvi per aver osato mettere in discussione qualcosa.

Alla fine si erano rassegnati a non dire niente contro gli slogan trionfalistici: non volevano essere bollati come “ipercritici”, la categoria precedente a quella di dissidente. Da quel momento l’ingegnere notò che le riunioni diventavano più brevi e gli sbadigli più lunghi. Il direttore sorrideva felice elencando solo i successi e le promesse.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 851, 18 giugno 2010*

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