“Il presidente Jalal Talabani è morto!”. Mufaq, uno dei miei reporter, mi ha mandato questo messaggio martedì mattina. “È il peggio che poteva capitare il giorno del mio compleanno”, mi ha scritto. “Continuo a chiamare il suo consigliere da più di un’ora. Ma in risposta ho ricevuto solo un sms”. “Ma no, si è solo sentito male, non è morto!”.
Appena abbiamo pubblicato la notizia, Haider Said, un analista mio amico, ha telefonato da Amman: “Sarebbe il momento peggiore per perdere uno come Talabani”. Ha ragione. Il presidente iracheno era appena riuscito a calmare le tensioni militari tra la regione curda e il governo centrale, con i due eserciti pronti a scatenare una nuova guerra in una regione del paese ricca di petrolio.
Il presidente ha passato tutto il giorno del suo rientro in Iraq dopo tre mesi di cure mediche in Germania (e dove è dovuto tornare in questi giorni) a incontrare tutti i protagonisti dell’attuale crisi e a cercare di raggiungere un compromesso. Ha annunciato più volte ai mezzi d’informazione di non aspettarsi un miracolo, visto che i suoi interlocutori non erano ben disposti alla riconciliazione.
Secondo Haider Said, che mi ha chiamato di nuovo il giorno successivo per espormi le sue preoccupazioni, si creeranno delle nuove divisioni nel partito di Talabani, l’Unione patriottica del Kurdistan, e tra la città del presidente, Sulaymanyia, ed Erbil, la capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Queste fratture si aggiungerebbero a quelle esistenti tra nord curo e sud arabo, tra arabi sunniti e sciiti. “Talabani è l’unica personalità che accontenta tutti. Preghiamo che rimanga in vita per un altro po’, per salvare l’Iraq da una nuova tragedia”.
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