La scorsa settimana Baghdad pullulava di gru intente a rimuovere gli imponenti muri di protezione posizionati in vari quartieri. Passando dal complesso olimpico in via di Palestina, le abbiamo viste portare via quei blocchi di cemento che erano lì ormai da quindici anni, a difendere i palazzi da bombe e attentati. “Credimi, mi ero dimenticato degli alberi dietro quei muri,” mi dice Ismael al Janabi, il tassista ventottenne che mi accompagna. “Ci eravamo dimenticati della bellezza della nostra città”.

Hanno cominciato con la rimozione parziale dei muri che circondano la Green Zone, l’area di Baghdad in cui dall’invasione statunitense del 2003 hanno sede il parlamento, i ministeri, le agenzie delle Nazioni Unite e le ambasciate occidentali. I cosiddetti “muri a T” che circondano le zone protette e serpeggiano tra i quartieri di Baghdad sono blocchi di cemento che arrivano anche a pesare sei tonnellate, sono alti più di tre metri e mezzo, per un metro e mezzo di spessore. Per ognuno di questi blocchi il costo del trasporto è tra i 600 e i 1.200 dollari.

Che ne sarà adesso di questi muri? Secondo alcuni saranno usati per costruire una barriera intorno a Baghdad. Altri sostengono invece che serviranno per chiudere i confini iracheni e impedire l’arrivo clandestino di terroristi dall’estero. Un portavoce delle autorità di Baghdad ha dichiarato che saranno impiegati per proteggere le sedi delle società straniere. Il mio tassista Al Janabi dice che non gli interessa il destino deciso dalle autorità per le centinaia e centinaia di blocchi di cemento portati via dal centro della capitale. “Chi se ne importa! Ne ho abbastanza”.

Ancora in guerra
A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno e dopo due mesi dall’insediamento del nuovo governo di Adel Abdul Mahdi, l’iniziativa sembra voler dare ai cittadini il segnale di una maggiore sicurezza. E non c’è dubbio che dopo la sconfitta del gruppo Stato islamico in Iraq la situazione sia migliorata. Eppure il paese continua a essere al centro delle crisi mediorientali. La scorsa settimana, insieme ad altri passeggeri ho dovuto trascorrere un’ora e mezza di attesa in un aereo iracheno nell’aeroporto internazionale di Erbil perché erano in corso manovre militari dell’aeronautica degli Stati Uniti. Più tardi abbiamo scoperto che il ritardo del nostro volo era stato causato dal massiccio ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, che sono state trasferite nelle basi Usa in Iraq.

E il presidente americano Donald Trump, insieme a sua moglie Melania, ha scelto proprio una base statunitense in Iraq per una rapida visita di auguri natalizi ai soldati, senza però incontrare nessun rappresentante politico iracheno. Da qui Trump ha dichiarato ai suoi: “Potremo usare l’Iraq come base per le operazioni in Siria”. All’indomani, alle prime ore del mattino, tre razzi sono stati lanciati nelle vicinanze dell’ambasciata degli Stati Uniti nella Green Zone. La sensazione di aver raggiunto una maggiore stabilità è accompagnata però da altri timori per la sicurezza. “Siamo ancora una zona di conflitto per qualsiasi operazione nella guerra in Siria o contro l’Iran,” mi dice Al Janabi con tono di sconforto mentre passiamo attraverso le luci di Natale nel centro di Baghdad, vicino al centro commerciale Zaytouna.

(Traduzione di Francesco De Lellis

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