Lo scorso autunno gli statunitensi Bon Iver hanno pubblicato una canzone intitolata Speyside, un brano malinconico nel quale la voce del leader Justin Vernon si accompagna solo con una chitarra e una pedal steel. Era un pezzo notevole, ma aveva un’aria familiare. Molti a quel punto hanno cominciato a chiedersi se il gruppo sarebbe tornato alle atmosfere folk e minimaliste del primo album, For Emma, forever ago. I Bon Iver ormai hanno alle spalle diciotto anni di carriera e cinque dischi, ma quel primo lavoro resta insuperato. Sable, fable non è il suo seguito. È un album vario, che secondo alcuni potrebbe essere l’epilogo dei Bon Iver, qualcosa che anticipa una nuova fase della carriera di Vernon. La prima parte è introspettiva, con i brani pubblicati nel precedente ep Sable, e si apre con la cupa Things behind things behind things, nella quale Vernon canta in modo provato e irrecuperabile. Nella seconda metà, a partire da Short story, l’atmosfera si fa più solare e i brani somigliano più che altro a canzoni d’amore, a tratti goffe e giocose. In questo disco Vernon scrive e canta in modo più diretto del solito. Quando si arriva alla fine, è sorprendente trovarsi di fronte a Au revoir, una breve improvvisazione al pianoforte senza parole. Ma una conclusione simile ha senso, in effetti. Come cantava Vernon nel 2007 nel brano re: Stacks: “È il suono dell’aprirsi e dell’allontanarsi”.
Laura Burton, Uncut


Il terzo lavoro del sestetto britannico, oltre a essere un passo avanti decisivo nella sua evoluzione e una dimostrazione d’incredibile creatività, è uno dei dischi più belli e particolari usciti dal Regno Unito negli ultimi dieci anni. Nonostante la reinvenzione imposta dall’uscita pacifica del frontman Isaac Wood, il gruppo conserva una continuità con il passato e una forte coesione, puntando su tre voci femminili e una vera orchestra di strumenti. Le canzoni mostrano nuovi livelli di complessità, senza essere indulgenti. Musicalmente attingono da generi così vari da creare quasi uno stile a parte: alcuni brani non stonerebbero nella colonna sonora di un film di Sofia Coppola, altri in un festival medievale. E tutti e undici si fondono alla perfezione. Gli arrangiamenti elaborati fanno da contraltare alle semplici verità che vengono fuori nei testi, ispirati alle relazioni personali nella nostra epoca. Forever howlong conferma i Black Country, New Road come una delle band più vitali e innovative in attività.
Marc Abbott, Under The Radar
Anche se non è considerato uno specialista dell’opera, per inaugurare il suo incarico di direttore musicale dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma Daniel Harding ha scelto un classico del repertorio lirico: Tosca. L’inizio di questa esecuzione ha un suono di archi e ottoni così pesante che fa pensare più a Bruckner che a Puccini. E se Harding, nella sua altra attività di pilota dell’Air France, andasse lento come nell’aria di Cavaradossi “E lucevan le stelle”, i suoi passeggeri non arriverebbero mai. Ma le persone non vanno all’opera solo per ascoltare l’orchestra e qui i cantanti sono brillanti e vigorosi: qualità necessarie quando, come nella Tosca, musica e libretto sono costantemente sopra le righe. Jonathan Tetelman è un Cavaradossi potente ed entusiasta, anche se nel complesso la sua sembra più una posa che autentica emozione. Gli altri due protagonisti del triangolo amoroso sono più convincenti. Il cattivissimo Scarpia, interpretato da Ludovic Tézier, è davvero inquietante, mentre Eleonora Buratto è straripante nei panni di Tosca, diva adorata da troppe persone. Puccini, per fortuna, è in forma smagliante dalla prima all’ultima nota. E Daniel Harding? Così così.
Geoff Brown, The Times