Il quartiere di Turkman Qoria, a Kirkuk, il 27 luglio 2014. (Hawre Khalid, Metrography)

Mi fermano dopo appena un minuto. Mi hanno sentito parlare in inglese. Un tempo eravamo noi occidentali ad avere paura in Iraq. Ora sono gli iracheni ad avere paura di noi. Mi perquisiscono due volte: temono che io faccia parte del gruppo Stato islamico (Isis). Che sia una combattente straniera.

Nonostante la sua aria dimessa, un po’ anni cinquanta, con le case basse, i colori spenti, Kirkuk ha più di un milione di abitanti ed è presidiata da esercito e polizia. Il fronte è a quindici chilometri di distanza. Anche se in realtà, a chi è nuovo, l’intero paese sembra un’unica linea del fronte. “Non pensi di essere in Iraq”, mi hanno avvertito alla frontiera timbrandomi il passaporto. “Non creda mai di sapere chi ha davanti. L’Iraq non esiste”.

Oltre che dal malconcio esercito di Baghdad – 60mila uomini che nel giugno di un anno fa si sono liquefatti davanti a duemila jihadisti – l’Iraq è difeso dai peshmerga curdi, ben equipaggiati e ben addestrati (che però combattono solo per il Kurdistan), e da una serie di milizie sciite di cui si sa poco, a parte le storie in cui sono protagoniste di massacri e abusi.

Ma, oltre a questo facile schema, è tutto un mosaico di minoranze etniche e religiose, o anche solo, più prosaicamente, di gruppi di potere. Nessuno si fida di nessuno. E sono anni ormai che gli analisti discutono di possibili soluzioni. Di equilibri da ricostruire, di sunniti e sciiti, arabi e curdi. Costituzioni, referendum e confederazioni. Amnesty international, nel suo ultimo rapporto, è stata più concisa. È inutile negoziare, proporre un piano di pace dopo l’altro: il problema è che in Medio Oriente sono tutti armati. Il problema è che a Kirkuk i kalashnikov si vendono al mercato. In mezzo alle mele.

L’ingresso al mercato è protetto da barriere di cemento intervallate da grigliate di pesce e da soldati in assetto da battaglia. Il 25 giugno 2014 un’esplosione, un attentato dell’Isis, ha ucciso quindici persone. E da allora le cose sono po’ cambiate. Al mercato si contratta, ma la merce si trova a casa dei venditori. Che ciondolano tutto il tempo tra un tè, un caffè e i negozi degli altri, i macellai, i fruttivendoli, tra i vestiti appesi alle grucce. Ogni tanto qualcuno si avvicina e chiede un lanciagranate.

Un agente in borghese che si presenta come Shwan, 32 anni, nega tutto. Nessuno vende armi ai civili, dice. Solo ai peshmerga. Per comprare un’arma è necessaria un’autorizzazione. E giura: noi controlliamo tutto. Questo non è l’Iraq, questo è il Kurdistan. Qui la legge viene rispettata. Il poliziotto che gli sta accanto annuisce: qui la legge viene rispettata, ripete. Il fotografo che mi accompagna lo riconosce subito: un paio di mesi fa gli ha scattato un ritratto, proprio al mercato. È uno che per arrotondare vende armi.

In realtà anche in altre città c’è il suq al asliha, il mercato delle armi. Non è una prerogativa di Kirkuk: in Iraq è vietato girare con un’arma, ma è legale averne una in casa per autodifesa. Il problema, a Kirkuk, è che le armi sono vendute solo ai curdi. E soprattutto, il problema è che Kirkuk non è nel Kurdistan. Per i curdi è l’equivalente di Gerusalemme perché negli anni di Saddam Hussein la repressione fu feroce e in 400mila furono costretti ad andare via. Non importa, quindi, che tecnicamente i curdi oggi non siano la maggioranza, ma che la popolazione sia mista, con un 30 per cento di arabi sunniti e un 15 per cento di turcomanni sciiti, mentre migliaia di persone reclamano il diritto al ritorno e la restituzione delle proprietà confiscate.

Munizioni per pistole e fucili vendute al mercato delle armi di Kirkuk, il 23 luglio 2014. (Hawre Khalid, Metrography)

Per i curdi, Kirkuk è curda indipendentemente dai numeri. E quindi, quando l’esercito iracheno si è dato alla fuga davanti all’avanzata dell’Isis, il 12 giugno di un anno fa, i peshmerga hanno prontamente cominciato a proteggere la città – e il suo petrolio. Nel sottosuolo c’è uno dei principali giacimenti dell’Iraq.
Anche il secondo bazari chak – come ti rispondono in curdo quando chiedi, in arabo, del suq al asliha – è stato colpito da una bomba. E anche qui, ora, è tutto un po’ più discreto. I venditori non stanno tutti insieme. Ognuno ha allestito una piccola officina in cui ufficialmente si limita a riparare armi e fornire accessori, giubbotti antiproiettile, munizioni, visori notturni, mirini da cecchino. “Abbiamo tutti paura dei sunniti”, ammette uno dei proprietari. “I sunniti di Kirkuk hanno tutti un fratello o un cugino a Mosul. Un cugino nell’Isis. Se i peshmerga lo uccidono, la famiglia potrebbe vendicarsi. Appena gira voce di scontri in periferia, tutti tirano fuori le armi. Tempo due minuti, e diventa una caccia all’arabo”. Ed è così non solo quando gira voce di scontri. È sufficiente osservare un uomo che parcheggia, uno qualsiasi. Scende dall’auto e si aggiusta la pistola alla cintola. Sono tutti armati. Sono sempre armati.

E i dissidenti – o meglio gli indipendenti, i curdi non allineati fedelmente ai peshmerga – sono espliciti, anche perché i curdi sono considerati gli eroi del momento in occidente. Con la loro società ugualitaria, le loro donne al fronte: sembrano gli unici, nel tracollo generale del Medio Oriente, ad aver ideato un nuovo modello di governo basato su una forte autonomia locale. Ma, osservati da vicino, i curdi sono anche le vecchie spartizioni di appalti e affari tra i Barzani, la famiglia di Masoud, il presidente del Kurdistan iracheno, e i Talabani, la famiglia di Jalal, primo presidente non arabo dell’Iraq.

La guerra al gruppo Stato islamico, a un nemico così difficile da definire, si presta ad abusi e distorsioni di ogni tipo. Il timore è che dalla caccia ai colpevoli si passi presto a quella ai sospettati, e dai sospettati ai collaborazionisti, cioè chiunque sia scomodo per chi sta al potere. Indipendentemente dalla religione. “Circa cinquecento curdi si sono uniti all’Isis”, mi dice A., dipendente pubblico. “Quindi chiunque di noi può finire nella lista nera. Nessuno è al sicuro. Puoi sapere chi compra un’arma. Ma non contro chi sarà usata”.

Davanti all’officina di un meccanico, un ragazzo ripara un motorino. Alle sue spalle un uomo ripara una Beretta. È tutto un misto di carburatori e canne di fucile. “Fino a dieci mesi fa venivano solo i peshmerga”, dice Farman, 30 anni. “Ora tutti vogliono un kalashnikov. Perché è inutile negarlo: se i jihadisti arrivano, ci uccidono tutti”. Il problema, però, è che l’Isis è già in città. “Per me tutti i sunniti sono del gruppo Stato islamico. Non abbiamo problemi a vivere con loro, sono loro ad avere problemi a vivere con noi. Anche se non sono jihadisti, comunque permettono all’Isis di agire, di stare nelle zone sotto il loro controllo”, dice. “Non venderei un’arma a un arabo neppure per mille dollari”. Non ha paura di venderla per sbaglio a un curdo dell’Isis? “Sappiamo bene come riconoscere gli amici dai nemici”. I suoi clienti, intorno, approvano. Lei ha un’arma in casa?, chiedo a uno dei presenti. Ridono tutti. “Un’arma sola? Ho un arsenale. Sono pronto”.

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