Una cameriera del Bab al Har Café, a Kirkuk. (Hawre Khalid, Metrography)

Il Bab al Har Café ha qualcosa di strano. Ma non è la tappezzeria leopardata, né le teste di leone in finto oro, di aquila, di tigre o di lupo, sparse tra i divani. Né la spremuta di arance pericolosamente viola. Sono le ragazze. Lo capisci all’improvviso: c’è qualcosa di strano in questi giorni nella città irachena di Kirkuk. Per strada, nei negozi. Le donne. Non si vedono donne.

A Kirkuk sono tutti uomini.

In realtà sono tutti rigorosamente uomini anche qui, in questo caffè che da un paio d’anni è il più frequentato della città. Tutti, tranne le cameriere che sfilano tra i tavoli rigorosamente in tacco dieci, minigonna e svariati centimetri di scollatura. Non sempre sono propriamente slanciate. “L’importante è che siano femmine”, riassume uno dei clienti, Maan, 28 anni, ingegnere, mentre cerca di concentrarsi sulle banconote, invece che su un fondoschiena, prima di pagare il conto. “La società qui è estremamente conservatrice. L’idea dominante è che le donne devono stare in casa. Devono essere mogli e madri, nient’altro, anche perché in famiglia un solo stipendio è sufficiente. Non abbiamo classi miste a scuola e le ragazze non escono da sole. Né è ammesso il sesso prima del matrimonio. E quindi siamo tutti a caccia. Siamo tutti affamati. Non importa che siano belle. L’importante è che siano femmine”.

Poi si scusa e si allontana un momento. Sono le sei. Va a pregare.

Eppure siamo tra i curdi. Di là della frontiera, in Siria, a pochi chilometri da qui – una frontiera che esiste solo sulla carta – le ragazze sono al fronte in kalashnikov a difendere Kobane. E sono il biglietto da visita del Rojava, il Kurdistan siriano: la nuova icona della sinistra europea.

Mentre l’intero Medio Oriente è stretto tra estremisti islamici e generali, tra regimi vecchi e nuovi ma sempre ugualmente autoritari, nel nord della Siria, nei cantoni di Afrin, Kobane e Qamishli, i curdi sperimentano una democrazia dal basso che sembra uscita da un manuale di scienze politiche di Harvard. Si prova a superare lo stato-nazione attraverso l’autogoverno, attraverso istituzioni il più possibile decentrate: una società in cui tutti siano minoranza e nessuno possa imporsi.

Democrazia diretta, decisioni assembleari. Fortissimo impegno per i diritti sociali. E fortissimo impegno per la parità di genere. Le quote femminili sono al 40 per cento, ogni carica è sdoppiata: un uomo e una donna. “Anche il fronte, in realtà, è sdoppiato in combattenti affiliati ai due principali partiti. Che si spartiscono tutto, fino all’ultimo appalto. Fino all’ultimo dollaro. Ma nel disastro generale, siamo diventati gli eroi del momento”, dice Younis, che fa il fotografo e spesso lavora per i giornalisti stranieri. “La maggioranza di voi sta qui tre giorni, usa come interpreti gli attivisti, per risparmiare, e torna a casa entusiasta, convinto che i curdi salveranno il Medio Oriente. E invece le ragazze di Kobane sono un’immagine del Kurdistan del tutto fuorviante”, dice. “Non sono una fotografia, sono una cartolina. La battaglia per l’emancipazione qui è ancora lunga”.

Sul fronte di Kirkuk non c’è nessuna donna. Non c’è nessuna donna in nessuno dei mille fronti dell’Iraq.

Le considerazioni di Younis le condivide anche Azad, il gestore del Bab al Har. Ha aperto nel 2007, ha assunto le prime ragazze nel 2011 e con il suo caffè mira a contribuire alla modernizzazione dell’Iraq. Perché fino agli anni sessanta, dice, l’Iraq era normale, “era come l’Europa, e locali come questo non erano niente di straordinario”. Ma poi con Saddam si è avuto il tentativo di arabizzare il paese, soprattutto nel nord, con il trasferimento forzato di decine di migliaia di curdi, e il ritorno in voga dell’islam come cultura, non solo come religione.

Anche la nazionalizzazione del petrolio ha avuto un ruolo, dice, perché ha reciso i legami con gli occidentali. In Iraq abitavano moltissimi tecnici inglesi. “Via via, siamo diventati sempre più chiusi. Sotto Saddam, le donne non potevano neppure fumare una sigaretta”.

Ora, invece, possono lavorare in un caffè. Oltre che nelle professioni tradizionalmente aperte alle donne, come la medicina e l’insegnamento, quelle in cui è possibile evitare che entrino in contatto con uomini sconosciuti. “Spero che il Bab al Har sia di esempio”, dice Azad. Al momento, è l’unico locale di Kirkuk, negozi inclusi, ad avere dipendenti donne. “Ed è un locale perbene”, precisa. “Niente alcool”.

Sarah ha 27 anni e l’aria malinconica. È vestita di nero, stivali con lacci un po’ bondage, la spalla scoperta, il trucco marcato, tra i capelli ammicca un fiocco di seta in stile Moulin Rouge. Parla poco, e controvoglia. È di Baghdad. Studiava fisica a Beirut, ma era indietro con gli esami, e alla fine è venuta qui. Non si è mai laureata. Nessuna delle ragazze è di Kirkuk. Sarebbe inconcepibile, dice Azad.”Tutte hanno problemi in famiglia. Niente di drammatico, ma diciamo che per loro questa è un po’ una fuga: questo caffè è un rifugio”, ammette con distacco.

Sarah, con altrettanto distacco, si limita laconica a spiegare che aveva problemi con la seconda moglie del padre. E quindi non aveva voglia di tornare a Baghdad. “Certo, a Baghdad fare la cameriera non è niente di strano, non sei al centro dell’attenzione. Ma qui, a differenza di Baghdad, o di qualsiasi altra grande città, il proprietario ti protegge. Non ti senti a rischio”. E comunque preferisce Kirkuk, dice. A Baghdad ci sono milizie ovunque, la città è fuori controllo. “Kirkuk è sicura. A Kirkuk hai non più di un’autobomba alla settimana”.

Il Bab al Har è affollato a tutte le ore. Uomini di ogni età, studenti e avvocati, medici, ingegneri, impiegati e imprenditori passano qui ore sui divani leopardati a fumare il narghilè e a chiacchierare con aria fintamente sfaccendata: in realtà sono tutti impegnati a guardare le ragazze. Che incedono instancabili tra i tavoli con passo da sfilata: i clienti le chiamano con il minimo pretesto, chiedono loro di avvicinarsi, di piegarsi per svuotare il posacenere, spolverare il tavolo. Un altro caffè. Altre noccioline. “Certo”, dice Azad, “c’è molta ipocrisia. Io gestisco questo caffè, e sono convinto che sia importante per lo sviluppo di Kirkuk, della nostra società. Però non consentirei mai a mia moglie o a mia sorella di lavorare qui”.
“So bene che tanti non sanno cosa pensare di me”, dice Sarah. “Sono una ragazza come le altre o una mezza prostituta? Io sono solo orgogliosa del mio lavoro. Non guadagno moltissimo, ma mi mantengo da sola, sono autonoma. Non dipendo da un uomo, non sono agli ordini di nessuno. Il lavoro, anche il più umile, è sempre lavoro. Posso camminare a testa alta”.

Ma per camminare, deve prima cambiarsi. Perché arriva qui con altri vestiti. E si cambia e si strucca prima di andare via. Prima di tornare a casa. In un quartiere dall’altra parte della città, in cui nessuno sa che mestiere fa.

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