Inutile dirgli che non sono musulmana. Non sono neppure palestinese. E che comunque ho avuto l’ennesima ricaduta di tifo, ho la febbre, e quindi il Corano mi autorizza a rompere il Ramadan.
Ed è inutile, in realtà, dirgli qualsiasi cosa, perché il poliziotto di Hamas che mi ferma per tre ore – sono colpevole di avere con me una bottiglia d’acqua – non ha divisa né distintivo: so che è di Hamas solo perché sono a Gaza. Ed è inutile provare a discuterci: non discute. Impone.
Alla fine intasca cento dollari sottobanco e mi lascia andare.
Questa è Hamas, oggi. Stanno lì ai checkpoint a illuminarti con la torcia e ad accertarsi che il tizio al volante sia tuo padre o tuo marito. Controllano che non ti fumi una sigaretta, che non ti guardi la partita in televisione stappandoti una birra.
Controllano che tu non scriva un rigo contro di loro.
Tutto intorno, intanto, è fame e disperazione. Di 137mila abitazioni danneggiate, novemila distrutte, in un anno non una singola casa è stata ricostruita. Gli sfollati sono centomila. Secondo l’Onu saranno necessari trent’anni, a questo ritmo, perché Gaza torni come prima.
Perché il 70 percento della popolazione, cioè, torni a essere sotto la soglia di povertà.
Vivono così, su questi pavimenti inclinati, i pilastri spezzati, tra macerie miste a ordigni inesplosi e scaglie di amianto
In cinquantuno giorni di guerra l’anno scorso Israele ha rovesciato sulla Striscia di Gaza – quaranta chilometri di lunghezza e dieci di larghezza – una quantità di esplosivo equivalente all’atomica di Hiroshima. Quello che è rimasto di Shejaiya, l’area bombardata con più ferocia, è tutto rattoppato con ritagli di stoffa, lamiere, cartoni. Tranci di iuta. O anche con niente.
Le famiglie continuano a vivere in queste case scardinate dall’artiglieria, cammini, e invece che finestre vedi divani, tavoli, frigoriferi: l’interno degli appartamenti, i palestinesi dentro con il tè in mano. Vivono così, su questi pavimenti inclinati, i pilastri spezzati, tra macerie miste a ordigni inesplosi e scaglie di amianto, sotto questi soffitti che stanno per crollargli in testa.
Abu Nidal, come tanti altri, è seduto su un tappeto steso su polvere e sabbia, le scarpe ordinatamente allineate, e guarda fuori da uno squarcio di mortaio – guarda un bambino che tenta inutilmente di fare volare un aquilone che è un foglio di carta.
Abitava qui con moglie e figli, dieci persone in tutto, e dopo avere pagato duemila dollari per un anno di affitto della nuova casa, ora non ha più nulla, vive di elemosina, “non di solidarietà”, precisa, “perché ho incontrato più giornalisti che Ong”.
I figli sono meccanici. Avevano un’officina al piano terra, di cui non sono rimasti che pezzi sparsi appesi agli alberi, un parafango, due copertoni. Una batteria incastrata tra i rami. Sta qui tutto il giorno, accanto a questa rampa di scale che non conduce più a niente: “Dovesse passare l’Onu e non trovarmi”.
Gaza ora è sotto assedio solo virtualmente. Si trova più o meno tutto, anche la Nutella: e tutto entra da Israele.
Eppure alcune case sono fresche di intonaco. Alcune sono state ricostruite. Perché l’unico settore dell’economia che tira, qui, è il mercato nero del cemento. La tonnellata a cui ognuno ha diritto al prezzo di venti shekel (quattro euro) è insufficiente, e quindi conviene rivenderla: il prezzo varia tra i quaranta e i sessanta euro, dipende dalla qualità. Da Israele sono entrate 1,1 milioni di tonnellate, ma le più ambite sono le ottomila entrate dall’Egitto, perché sono adatte anche ai tunnel.
Il 90 percento dei tunnel ormai non esiste più. Sono stati demoliti quasi tutti dall’Egitto, in realtà, non da Israele. Dal generale Al Sisi, che è contro gli islamisti. E Hamas, così, ha perso la sua principale fonte di finanziamento. Con i tunnel, in parte gestiti in proprio, in parte affidati a terzi, copriva il 70 per cento del bilancio di Gaza: ognuno in media rendeva centomila euro al mese.
Adesso, tra l’altro, Hamas ha perso anche molti dei suoi generosi amici del Golfo, concentrati sulle emergenze di Siria e Iraq, e ha problemi con l’Iran, contrariato dal mancato sostegno al presidente siriano Assad. E quindi cerca di racimolare il possibile imponendo tasse. Perché Gaza, in realtà, ora è sotto assedio solo virtualmente. Si trova più o meno tutto, anche la Nutella: e tutto entra da Israele.
Questo però significa che tutto viene tassato tre volte: da Israele, da Hamas, e dall’Autorità Nazionale Palestinese. Perché da un anno, in teoria, si ha un governo di unità nazionale, un solo governo; diversamente Hamas non avrebbe più potuto pagare i suoi quarantamila dipendenti pubblici.
Hamas controlla Gaza e Fatah controlla la Cisgiordania. Il risultato è che tutto è molto più caro. Hamas ricarica il 10 percento sul cibo, il 25 per cento sulle auto, il 50 per cento sulle sigarette. Alla fine una Fiat Panda, qui, costa quasi ventimila euro.
Anche se la disoccupazione è al 43 percento, e uno stipendio medio è di trecento euro. Anche se i due terzi dei palestinesi dipendono dagli aiuti umanitari.
Si gira in fuoristrada dai vetri blindati, a Gaza, oppure sugli asini.
Qui nessuno ha dubbi: Hamas è il migliore alleato di Israele
Ebaa Rezeq ha 31 anni, ed è una delle ricercatrici locali di Amnesty International. Qui nessuno ha dubbi, dice: Hamas è il migliore alleato di Israele. “Non governa. Non è né islamico né niente. Se ti scoprono a bere vino, finisci in carcere per un mese, o magari sei. Non c’è la sharia, qui, c’è solo la volontà del più forte. Hamas esiste ancora solo perché con i suoi razzi, rispetto all’arrendevolezza di Mahmoud Abbas e di Fatah, si fa paladino della resistenza. Sostiene di non avere mezzo dollaro per i dipendenti pubblici. Per la ricostruzione. Ma non è un segreto: l’unica ricostruzione in corso è quella dei tunnel. E del suo arsenale. Per Israele è perfetto. Tra uno, due anni, bombarderà tutto di nuovo. Demolirà tutto di nuovo. E si ricomincerà”.
Del resto, la guerra si è conclusa con un accordo identico a quello della guerra precedente.
“Fidarsi di Israele è una follia”, dice Fady Hanona, 28 anni, documentarista. “Possono chiudere la frontiera in qualsiasi momento, e ridurci alla fame”. Soprattutto ora che è stato reso noto che due israeliani sono prigionieri di Hamas. Era ieri, in fondo, quando Israele autorizzava le importazioni di cibo contando le calorie necessarie alla sopravvivenza: 2.279 a testa.
I palestinesi vogliono semplicemente andare via da Gaza. Tutti. Perché non c’è più neppure acqua potabile, qui, solo acqua salata, acqua di mare: rimani appiccicaticcio tutto il giorno, tutti i giorni, per anni. Ogni tanto, in risposta a un razzo, gli israeliani bombardano. Ma in mezzo alla Siria, allo Yemen, all’Iraq, non fa più notizia.
Sharif ha 36 anni e quattro figli. Un tempo aveva una piccola rivendita di ricambi e accessori per auto: ma era tartassato dalle estorsioni, perché è vicino a Fatah. È stato arrestato tre volte. E per tre volte ha provato a raggiungere l’Europa: ma è stato scoperto, con il suo visto contraffatto, ed è stato rispedito indietro. Anche se per i palestinesi l’ostacolo non è tanto il visto, perché moltissimi per esempio studiano, hanno borse di dottorato.
L’ostacolo è l’Egitto. Raggiungere l’aeroporto del Cairo. Nel 2015, la frontiera di Rafah è stato aperta per un totale di dodici giorni. Si ha una specie di lista d’attesa, ma hanno priorità i malati – a Gaza il 30 percento dei farmaci essenziali è esaurito – e quindi sono passati solo tremila palestinesi su 15mila. La soluzione è pagare: tremila euro e un poliziotto viene a chiamarti per nome
Chiedo a Sharif cosa sogna dell’Europa, mi dice: farmi la doccia la mattina.
“Nessuno qui sostiene Hamas. Ma non si ha più alcuna attività politica: nessuno tenta di cambiare le cose”, dice M., uno dei fondatori del Movimento 15 marzo, che nel 2011, sulle orme di Tunisia ed Egitto, scese in piazza per chiedere riforme e democrazia. E che in un raro esempio di unità nazionale, finì manganellato da Hamas a Gaza e da Fatah a Ramallah. “Ogni energia è drenata dallo sforzo di sopravvivere. Anche perché la battaglia è impossibile senza la Cisgiordania. E dalla Cisgiordania, l’unico gesto di solidarietà, durante la guerra, è stata una donazione di bare”.
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