Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2017 nel numero 1215-1216-1217 di Internazionale.

“Cosa trasporta?”, mi chiede l’agente della dogana moldava alla frontiera di Giurgiulești. “Niente”, gli rispondo in tutta franchezza. “Qual è il motivo del suo viaggio, allora?”, mi chiede lui, muovendo furtivamente gli occhi mentre pronuncia queste parole che alle mie orecchie suonano scortesi. Dal momento che non riesco a dire nulla di sensato, il funzionario comincia a esaminare i documenti. La frontiera è assolutamente desolata: c’è solo un cane indolente che si crogiola al sole sull’asfalto pieno di crepe.

Quando si rende conto che non abito da queste parti, cioè che non vengo dalla città di Odessa, l’agente della dogana si mette a controllare i documenti in modo molto meticoloso. A un certo punto tira fuori una specie di microscopio tascabile e comincia ad analizzare il libretto di circolazione della mia auto. Non riesce a capire perché qualcuno che non è di queste parti voglia attraversare il confine proprio in questo punto, e per di più senza uno scopo preciso. Non gli dico che sto facendo il turista. Sembrerebbe davvero assurdo: che motivo avrei d’avventurarmi in auto per 430 metri in territorio moldavo? Cosa c’è da vedere? Di certo niente che meriti di essere fotografato.

La realtà è che se l’Ucraina non avesse ceduto queste poche centinaia di metri del suo territorio alla Moldova nel 1999, probabilmente qui sarebbero arrivati i romeni. Con l’accesso diretto al Danubio la Moldova si è di fatto conquistata uno sbocco al mare. L’Ucraina, in cambio, ha ricevuto alcune centinaia di metri di autostrada costiera nei pressi del villaggio di Palanca, che collegano la parte settentrionale e quella meridionale della regione di Odessa. Ai tempi dell’accordo qualcuno aveva insinuato che lo scambio non presentava alcun vantaggio per l’Ucraina ma che era semplicemente un gesto di sostegno alla Moldova, un modo per darle un importante strumento di sviluppo e ricchezza.

In effetti viene da chiedersi quali siano state le vere motivazioni di Kiev in questa faccenda. È possibile che l’Ucraina sia davvero così nobile da aiutare altri paesi quando non riesce nemmeno ad aiutare se stessa? La risposta è semplice: il rafforzamento della Moldova era considerato uno strumento per evitare che in futuro si unisse alla Romania. In realtà l’idea di un ritorno alla “grande Romania” non ha trovato molti sostenitori, a parte i romeni. Kiev ha comunque scelto la strategia del divide et impera. Con l’acquisizione del territorio di Giurgiulești, sgomitando tra i suoi vicini come un’anziana donna che al mercato cerca di infilarsi tra due banchi per vendere la sua mercanzia, la Moldova si è incuneata tra Ucraina e Romania. Il risultato è che da queste parti, in un certo senso, la geopolitica internazionale si riduce a due villaggi: Giurgiulești e Palanca.

È questo, in sostanza, il vero motivo del mio viaggio. Ma come posso spiegarlo all’agente della dogana moldava?

Il ghiaccio dell’inverno

L’ispezione della mia auto dura quasi un’ora. Una volta concluso il supplizio, sono libero di andare. Al confine romeno mi lasciano passare senza farmi domande. Mi rendo conto di aver varcato il confine quando la strada migliora e la macchina smette di tremare come una foglia. Sono diretto a Costanza, l’antico porto greco di Tomi, dove duemila anni fa Publio Ovidio Nasone, meglio noto come Ovidio, trascorse in esilio i suoi ultimi anni.

Il poeta romano sarebbe riuscito a varcare la frontiera di Giurgiulești? No. Anzi, volendo immaginare cosa avrebbe potuto fare in un posto simile, potremmo ipotizzare che, visti i suoi studi in diritto, sarebbe stato un agente della polizia di frontiera. Dopotutto, la competenza di Ovidio in materia di diritto è evidente dalla struttura della sua poesia, che possiede una costruzione logica rigorosa, argomentazioni solide e, dove necessario, un’abile capacità di manipolazione. Tuttavia Ovidio non fu in grado di difendersi dalla furia dell’imperatore Augusto, e finì esiliato ai confini del mondo, ai margini della civiltà occidentale.

Costanza, Romania, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

Cosa sappiamo di Ovidio? Nato nel 43 aC a Sulmona in una famiglia benestante, ricevette una classica educazione alla retorica, dedicandosi per qualche tempo al diritto prima di abbandonarlo per scegliere la poesia, arte in cui dimostrò di essere molto più versato. In breve tempo ottenne grande fama e raggiunse un’invidiabile posizione sociale: viveva nel centro di Roma, accanto al Campidoglio, aveva una moglie che amava e molti amici. Conduceva, insomma, una vita ordinaria finché, un giorno, un incidente cambiò per sempre la sua esistenza. Nell’anno 8 dC l’imperatore Augusto lo mandò in esilio a Tomi, l’attuale Costanza, un luogo all’epoca considerato lontano da tutto. Ovidio visse lì nove lunghi anni prima della sua morte, nel 17 dC.

Ma perché l’imperatore punì il poeta? Prima di tutto perché Augusto era un uomo molto severo, che amava infliggere castighi durissimi. Anche se la questione è ancora oggetto di dibattito, la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che Ovidio avesse assistito a un adulterio o a un’orgia in cui era coinvolta Giulia minore, la nipote di Augusto. Secondo una definizione contemporanea, nella Roma di allora Ovidio era una celebrità, una specie di vip abituato agli scandali.

Tuttavia, nonostante la fama, la fortuna lo abbandonò e fu spedito in esilio nella Mesia, la provincia più remota dell’impero. Qui scrisse i Tristia e le Epistulae ex Ponto, opere che presentano personaggi complessi, dolenti e intensi, ma in cui manca la realtà dei luoghi dell’esilio. Descrivendo Tomi e i suoi dintorni, il Danubio e il mar Nero, i barbari e i romani, Ovidio ricorre per lo più a stereotipi. Nelle sue descrizioni i barbari hanno capelli troppo lunghi, sono assetati di sangue e – cosa singolarissima – indossano i pantaloni. Questo dettaglio torna spesso nelle sue opere: i pantaloni lo impressionarono più della possibilità di essere ucciso durante uno dei numerosi assalti al porto. D’inverno il Danubio e il mar Nero gelavano, i pesci rimanevano intrappolati nel ghiaccio e i barbari attraversavano le acque gelate per andare a saccheggiare la città. Il freddo era tale – scrive Ovidio – che perfino il vino gelava. Rompendo le anfore, tuttavia, lo si poteva spezzettare in ghiaccioli e consumare in forma solida.

Mille culture

Ma partiamo dal principio. Non da Sulmona, la città di Ovidio, ma da Giurgiulești, il villaggio moldavo incastonato tra Ucraina e Romania. Come diavolo sono arrivato fin qui? Volevo capire meglio Ovidio, il mio poeta preferito. Avevo l’ingenuità di credere che, se avessi camminato negli stessi luoghi che lui aveva attraversato, avrei finalmente compreso l’Europa orientale nella sua interezza. A Giurgiulești pensieri simili sembrano perfettamente sensati. All’epoca di Ovidio qui finiva l’impero, la civiltà.

Da allora sono passati duemila anni, ma oggi questi luoghi ospitano un altro confine: quello che divide l’Ucraina dall’Unione europea e dai paesi della Nato. Forse l’Ucraina non è ancora entrata in Europa proprio perché le sue sponde continuano ad apparire come terre barbare agli occhi di Bruxelles. In fondo basta osservare la differente qualità delle strade – che in Ucraina sono praticamente assenti mentre in Romania sono ricoperte da un asfalto liscissimo – per cominciare a credere che il vecchio confine, una specie di fortificazione a protezione della civiltà occidentale, abbia resistito fino a oggi.

Vicino al villaggio di Giurgiulești, Moldova, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

Per attraversare la frontiera dal lato ucraino non si passa necessariamente per la cittadina di Ovidiopol, nella parte sud della regione di Odessa. Per diversi secoli la posizione della vecchia Tomi rimase praticamente sconosciuta. Così, nel 1795, l’imperatrice russa Caterina la grande decise che il piccolo insediamento turco di Hacıdere fosse ribattezzato Ovidiopol in onore del poeta. Come potevo non passare di qui?

Ovidiopol è una piccola città situata accanto a un lago collegato al mare, ma non abbastanza vicina alla costa da attirare folle di turisti. È una tranquilla cittadina di provincia. Ai margini dell’abitato, vicino al mare, c’è un monumento orrendo. Dappertutto domina il senso di vuoto. Solo il molo brulica di pescatori. Da appassionato di pesca, decido di fermarmi a parlare con loro. Chiedo informazioni sul monumento. “È la statua del milite ignoto”, risponde secco e senza esitazione un pescatore.

Una risposta interessante, penso, soprattutto dal momento che durante l’esilio Ovidio impugnò più volte le armi per difendere Tomi dai barbari. Durante gli assalti tutti gli abitanti della città dovevano salire in cima alle mura per respingere il nemico. Tuttavia affermare che questa statua di un uomo dall’aria stanca seduto e vestito con una toga romana è “un monumento in onore del milite ignoto sovietico” mi sembra un’esagerazione.

Il lungomare di Costanza, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

Rivolgo un altro sguardo al pescatore, con il dubbio che mi stia prendendo in giro. Ma no: è serio, totalmente concentrato sul suo galleggiante. Poi, approfittando di una pausa tra i suoi brontolii, gli chiedo perché la città si chiama Ovidiopol. Questa volta mi dà una risposta parzialmente corretta: mi spiega che qui fu esiliato un poeta romano, da cui la città prende il nome. “La Bessarabia”, mi dice, “per l’antica Roma era quello che la Siberia è per la Russia”.

“Sai”, continua buttando fuori il fumo di una sigaretta scadente, “da queste parti vivevano, e vivono ancora, persone di tante nazionalità diverse. Qui nel Budjak (la regione che affaccia sul mar Nero, compresa tra il Danubio e il Dnestr) c’è una grande varietà di culture. Ci sono tatari, turchi, ebrei, bulgari, ucraini, romeni, zingari, russi, moldavi, greci e tedeschi. Ma la somma di queste culture crea un’assenza di cultura. È per questo che viviamo così male”.

Ricordando Canetti

Mi dirigo verso Costanza, in Romania. Un tempo la città era completamente circondata dai barbari, fatta eccezione per la parte affacciata sul mare. La prossima tappa del mio viaggio è Balčik, una piccola città sulla costa bulgara del mar Nero. Con Balčik è amore a prima vista, soprattutto perché ho già ammirato decine di vedute della città al Museo nazionale di arte romena di Bucarest. Tra la prima e la seconda guerra mondiale Balčik era romena. La regina di Romania ci fece costruire un palazzo con un meraviglioso giardino da mostrare ai suoi ospiti, tra i quali c’erano i migliori artisti romeni dell’epoca.

Un’altra buona ragione per andare a Balčik è la possibilità di fare una piccola deviazione e visitare la città di Ruse, dove è nato e cresciuto lo scrittore Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981. Il fatto che Canetti, che scriveva in lingua tedesca, sia nato qui è un’ulteriore prova che le pianure del Danubio hanno sempre ospitato, a partire dall’epoca di Ovidio, una grande varietà di nazionalità e culture. Canetti si formò in un clima di grande diversità culturale e la regione non è molto cambiata dai suoi tempi. Leggere La lingua salvata – la prima parte dell’autobiografia di Canetti, in cui l’autore descrive la sua vivace infanzia nella città sul Danubio – e pensare che, solo cent’anni fa, in questa località al confine tra Romania e Bulgaria cresceva un bambino la cui madrelingua era il ladino (lo scrittore era infatti ebreo sefardita) è davvero straordinario. Con il tempo Canetti imparò anche qualche parola di bulgaro, romeno e romanì. Forse è proprio questa terra la principale ragione per cui racconta la sua infanzia con tanto calore e tenerezza. Per Canetti l’“altro” è una calamita, che attira e stimola la curiosità. Per Ovidio, invece, è un barbaro sanguinario, pericoloso e primitivo.

Giurgiulești , giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

In queste zone il poeta romano era uno straniero. Mi chiedo come avrebbe descritto le pianure del Danubio se fosse nato qui. Come avrebbe considerato i romani? Barbari, invasori, assassini e oppressori? O nobili colonizzatori e portatori di cultura, interessati a espandere i confini della civiltà occidentale? Mentre guido verso Balčik sono questi i pensieri che mi ronzano in testa.

A Balčik ci sono due moschee. Per curiosità chiedo a un abitante qualche informazione sulla demografia della zona. Evidentemente la mia domanda non è apprezzata. All’inizio l’uomo cerca di spiegarmi che tutti sono bulgari e cristiani ortodossi. A quanto pare le moschee sono semplicemente un equivoco storico. Quando ripeto la domanda, tuttavia, il mio interlocutore ammette che una delle strutture è ancora usata per il culto, anche se in città sono rimasti pochi turchi. Lo zoccolo duro della comunità islamica locale è composto da rom che, secondo lui, si considerano erroneamente turchi o discendenti dei turchi. Parlando dei rom si sforza di nascondere il disgusto.

Mi rendo conto che sto incontrando persone che in qualche modo somigliano a Ovidio: prima il pescatore di Ovidiopol e ora quest’esperto dell’etnogenesi dei turchi. Come il grande poeta romano, anche loro puntano il dito contro gli altri e se la prendono con i popoli confinanti.

L’isola di Ovidiu, nel lago Siutghiol, in Romania, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

Senza esitare parto per Costanza. In autostrada cerco di non perdermi neanche un dettaglio del panorama che scorre fuori dal finestrino della mia auto. Ho passato tanto tempo a leggere Ovidio che mi sento come un barbaro all’attacco di Tomi. Ora capisco che la mia è una forma di mania, l’“ovidiomania”. A Costanza fa freddo e comincio a rievocare alcuni versi dei Tristia e delle Epistulae ex Ponto. Cerco di visitare la città facendomi guidare dalla poesia di Ovidio.

Grazie alle autorità locali, che a quanto pare si sono del tutto dimenticate del centro storico, non è difficile immaginare di essere in un antico porto deserto, magari subito dopo un attacco dei barbari. L’unica cosa che riesco a vedere, a parte il vecchio casinò, che nella mia testa diventa la villa del governatore romano, sono alcuni cani randagi.

Ma cosa sto cercando in questo viaggio? Per quanto riguarda Ovidio, voglio trovare le tracce del suo passaggio. E – per essere del tutto onesto – la sua tomba. Da bambino ho imparato che Heinrich Schliemann aveva scoperto l’antica città di Troia grazie a una lettura attenta e meticolosa dell’Iliade. Così anch’io mi sono convinto che avrei potuto scoprire la tomba di Ovidio leggendo le sue opere scritte in esilio.

Il mare di Balčik, in Bulgaria, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

Ormai mi rimane solo un luogo da visitare: un piccolo centro chiamato Ovidiu, dieci chilometri a est di Costanza. Nella cittadina c’è ben poco d’interessante, ma con la macchina si può visitare il lago Siutghiol, separato dal mare da una striscia di terra. Come nei racconti di fiabe dell’infanzia, in mezzo al lago c’è qualcosa, e dentro questo qualcosa c’è un mistero. Secondo una leggenda, il poeta sarebbe sepolto proprio qui (possibilità che sembra abbastanza realistica).

A quanto pare i barbari accolsero Ovidio come un re. Non solo lo accettarono, ma lo sollevarono anche dall’obbligo di pagare le tasse, onorandolo con una corona d’alloro e seppellendolo in un luogo speciale e con tutti gli onori del caso. Perché Ovidio ha scritto cose così sgradevoli su persone che erano estremamente ospitali con lui? Molto probabilmente voleva dare un’immagine semplice ed esasperata della sua situazione e fare in modo che i suoi lettori si dispiacessero per lui, impressionando il mondo culturale romano con la descrizione delle terribili condizioni del luogo dove era stato esiliato.

L’isola di Ovidiu, al centro del lago, è davvero minuscola. In un grande giardino, trascurato e pieno di vecchi alberi, è nascosto un piccolo e accogliente ristorante. Parcheggio l’auto e prendo il battello che trasporta i clienti al locale. Sono diretto verso l’ultima tappa del mio viaggio. Con ogni probabilità i barbari condussero Ovidio alla sua destinazione finale su una piccola imbarcazione, come quella su cui mi trovo. Dopo aver vagato per l’isola senza trovare nulla che sia degno di nota, mi siedo nella terrazza del ristorante e ordino da bere.

La città portuale di Galati, in Romania, giugno 2017. (Davide Monteleone per Internazionale)

È un momento bello, anche se un po’ triste, come succede sempre quando si porta a termine un’impresa sognata a lungo. La cameriera mi distoglie dai miei pensieri avvicinandosi e rivolgendosi a me in una lingua sconosciuta, quindi barbara. Probabilmente è romeno. Vista la mia espressione imbarazzata, passa subito all’inglese. Mentre mi spiega cosa c’è nel menù, mi viene in mente che ci sono due definizioni della parola “barbaro”: la prima indica una persona che appartiene a una cultura diversa dalla nostra, che parla una lingua differente; l’altra indica il nomade, considerato un selvaggio dalle persone civili. In questo viaggio io rientro in entrambe le definizioni.

Il concetto di barbaro che è stato abilmente sviluppato da Ovidio è ancora valido nell’Europa dell’est. Dopotutto i barbari svolgono un sacco di funzioni importanti. Innanzitutto, la presenza di barbari dall’altra parte di un confine aiuta una comunità a convincersi di essere “migliore”, “più sviluppata” e “più civile”.

Lo storico britannico John F. Drinkwater sostiene che la presenza dei barbari è utile anche alle élite. Il potere ha bisogno di ricorrere a dei miti per giustificare alti livelli di tassazione e mantenere un esercito ben pagato che difenda la popolazione dalla minaccia del nemico esterno. Inoltre lo stesso imperatore può trarre vantaggio dall’esistenza, vera o presunta, dei “barbari”: si può infatti ergere a difensore del suo popolo e diventare il capo che protegge la civiltà da genti primitive, sporche e aggressive.

Suona familiare? Esistono moltissime battute offensive sui moldavi: per noi ucraini sono i barbari, perché sembrano meno progrediti di noi. Gli slovacchi pensano lo stesso degli ungheresi, che secondo loro non sono neppure europei, ma nomadi selvaggi dell’Asia. Decidendo di costruire un muro per fermare i rifugiati siriani, il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è costruito l’immagine di difensore della patria dall’assalto dei barbari. A quanto pare gli elettori dimenticano facilmente i problemi economici e la corruzione quando temono che, dall’altra parte del confine, ci siano dei barbari pronti ad attaccarli.

“C’è qualcosa nel menù che sia legato a Ovidio?”, chiedo alla cameriera del ristorante sull’isola di Ovidiu.
“Certo, abbiamo la carne al forno alla barbara”, mi risponde con un sorriso.

Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2017 nel numero 1215-1216-1217 di Internazionale.

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