Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee del 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libeŕation (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).
A Roma il 24 novembre migliaia di donne sono scese in piazza per protestare contro la violenza maschile sulle donne, ma anche contro le nuove politiche antifemministe del governo nato dall’alleanza tra Lega e Movimento 5 stelle: dal disegno di legge Pillon su divorzio e affidamento dei figli nelle coppie di separati, alle mozioni comunali antiabortiste che sono state presentate in diverse città italiane, fino alle posizioni contro l’aborto e le famiglie arcobaleno del nuovo ministro della famiglia Lorenzo Fontana, che ha annunciato misure per favorire la natalità e sostenere la cosiddetta famiglia tradizionale.
Se l’Italia – con un tasso di obiezione di coscienza negli ospedali che sfiora il 70 per cento – sembra essere diventato un laboratorio per le politiche conservatrici contro le donne, anche in altri paesi europei la questione è al centro di un acceso dibattito politico. Il Commissario per i diritti umani al Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, nel dicembre del 2017 ha espresso preoccupazione per “le restrizioni” all’aborto in molti paesi europei e quello che ha definito un vero e proprio “backlash” su questi temi. Nei paesi dell’Unione europea, infatti, l’accesso all’interruzione di gravidanza è molto disomogeneo: a Malta una donna che abortisce rischia il carcere fino a tre anni (anche se è rimasta incinta dopo uno stupro o se la gravidanza mette in pericolo la sua salute o la sua vita), mentre nei Paesi Bassi si può abortire senza problemi fino alla ventiquattresima settimana.
L’aborto in Europa
La situazione è particolarmente difficile in Polonia dove la legge del 1993 è tra le più restrittive in Europa e dove i populisti del partito Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) al governo nel paese hanno provato diverse volte a limitare ulteriormente l’accesso all’interruzione di gravidanza (ivg).
Nel marzo del 2016 alcuni membri del PiS hanno presentato una proposta di legge scritta dall’organizzazione pro-life Pro-Prawo do życia (Diritto alla vita), appoggiata dai vescovi del paese, che prevedeva di consentire l’aborto solo nel caso di pericolo per la vita della donna e che indicava sanzioni come la reclusione per i medici che praticavano l’aborto illegalmente. Migliaia di donne si sono autoorganizzate sui social network e il 3 ottobre 2016 hanno manifestato in 140 città della Polonia per fermare l’approvazione della norma.
Solo a Varsavia sono scese in piazza trentamila donne vestite di nero e qualche giorno dopo la proposta di legge è stata bocciata dalla camera bassa. Nel giugno del 2017 il PiS ha portato in parlamento una nuova proposta di legge contro l’aborto, scritta e sostenuta da think tank e organizzazioni pro-life. La camera ha votato in favore della proposta che ha scatenato una nuova ondata di proteste delle donne in nero e così di nuovo il PiS ha sospeso la proposta di legge.
Tuttavia la Polonia rimane uno dei paesi europei in cui la legge sull’aborto è più restrittiva: si può ricorrere all’interruzione di gravidanza solo in caso di pericolo di vita per la madre, gravissima malformazione del feto o stupro. Secondo alcuni studi, ogni anno nel paese avvengono tra gli 80mila e i 200mila aborti clandestini e molte donne sono costrette a espatriare in Germania o in Repubblica Ceca per abortire.
I paesi europei che hanno leggi più restrittive della Polonia sull’aborto sono Andorra, Liechtenstein, San Marino e nel Regno Unito l’Irlanda del Nord, oltre a Malta e al Vaticano (i due paesi in cui l’aborto è vietato in ogni caso). L’Irlanda ha abolito una legge molto restrittiva sull’aborto con un referendum il 25 maggio 2018. Fino a quel momento le donne irlandesi rischiavano il carcere fino a quattordici anni se decidevano di interrompere la gravidanza.
In Ungheria l’aborto è legale entro il terzo mese di gestazione e in ogni caso se il feto è gravemente malformato, ma il governo di Viktor Orbán si è sempre dichiarato contrario all’igv. Alcuni anni fa l’esecutivo ha finanziato una campagna pubblicitaria contro l’aborto che mostrava sui cartelli pubblicitari la foto di un feto nell’utero materno con la scritta: “Capisco che non sei pronta per me, ma dammi in adozione, lasciami vivere”. Sulla stessa linea il partito tedesco Alternative für Deutschland (AfD) che vuole rendere più difficile l’accesso delle donne all’aborto. “Anche i bambini non ancora nati hanno il diritto alla vita”, era uno dei punti della campagna elettorale dell’AfD nel 2017. “Rifiutiamo i tentativi di rendere legale l’omicidio dei non nati”, c’è scritto nel programma del partito tedesco di estrema destra.
Anche gli austriaci del Partito della libertà (Fpö) hanno definito l’utero femminile il “luogo con il più alto tasso di mortalità nel nostro paese”. Il Partito della libertà, inoltre, ha insistito sulla possibilità di vietare gli aborti nelle cliniche private e in ogni caso di limitare il ricorso all’interruzione di gravidanza entro i primi tre mesi di gestazione. “Il diritto all’aborto non esiste”, ha detto Carmen Schimanek, una portavoce dell’Fpö.
Il terzo figlio
Nei partiti dell’estrema destra europea il tema del sostegno alla natalità è spesso legato alla teoria del complotto nota come “sostituzione etnica”, la tesi simile a quella di matrice neofascista (piano Kalergi) secondo cui l’arrivo di migranti e rifugiati in Europa sarebbe parte di un progetto messo in atto dalle élite liberali per sostituire le popolazioni autoctone “di razza bianca”. “Più bambini invece dell’immigrazione di massa”, è uno degli slogan dell’AfD in Germania.
Il governo ungherese ha istituito una consulta nazionale sulla famiglia e nell’atto di costituzione ufficiale della piattaforma governativa le autorità hanno spiegato: “Il declino demografico è un problema grave in Europa e in Ungheria. Secondo i burocrati di Bruxelles, il declino demografico dovrebbe essere combattuto con il ricollocamento dei migranti, ecco perché promuovono il meccanismo dei ricollocamenti. Invece noi crediamo che dobbiamo sostenere le famiglie invece dell’immigrazione”.
Anche il ministro della famiglia italiano, il leghista Lorenzo Fontana, ha suggerito questo collegamento nel suo libro La culla vuota della civiltà. All’origine della crisi (2018), scritto insieme al banchiere vaticano Ettore Gotti Tedeschi e con la prefazione del leader della Lega Matteo Salvini. Nel decreto fiscale per il 2019 il governo italiano ha riconfermato lo stanziamento di fondi in sostegno della natalità, il cosiddetto “bonus bebè”.
L’assegno di natalità sarà emesso per il primo anno di vita del bambino, potrà arrivare a 960 euro all’anno (80 euro al mese) e sarà corrisposto alle famiglie con un reddito non superiore a 25mila euro. Per il secondo figlio l’assegno aumenta del 20 per cento. Si è molto discusso, inoltre, di un possibile sussidio per il terzo figlio: per incoraggiare le famiglie il governo ha promesso di regalare terreni agricoli alla nascita del terzo figlio. In Ungheria da tempo sono previste agevolazioni fiscali e sussidi per la nascita del terzo figlio, tanto che i terzi sono spesso chiamati “bambini bonus”.
Da poco nella capitale ungherese, Budapest, è stato costruito un monumento che esprime le posizioni del partito di Orbán, Fidesz, sul ruolo della donna nella famiglia: una statua di bronzo che rappresenta una madre con i suoi due bambini. “Dedicato a chi educa i piccoli”, è scritto sul monumento, inaugurato dalla ministra per la famiglia e la gioventù e vicepresidente di Fidesz Katalin Novák. In molti hanno notato che non c’è nessuna figura maschile nella famiglia rappresentata nel monumento.
La costituzione dell’Ungheria “attribuisce particolare importanza alla famiglia, protegge l’istituzione del matrimonio e afferma che il fondamento della famiglia è nel matrimonio e nella relazione genitore-figlio e dichiara che l’Ungheria incoraggerà l’impegno di avere figli”, ha detto Novák durante una conferenza sulla famiglia organizzata in Vaticano nel maggio del 2018. In Austria il Partito della libertà ha approvato una misura per premiare la natalità: dal gennaio del 2019 i genitori che lavorano riceveranno un’agevolazione fiscale di 1.500 euro per ogni figlio, una misura che non ha nessuna relazione con il reddito e che secondo molti finirà per favorire soprattutto i ceti più abbienti.
Anche in Polonia sono state approvate delle misure per favorire le famiglie numerose, accolte con grande favore soprattutto nelle aree rurali. Dal 2016 ogni famiglia riceve circa cento euro per figlio al mese, a partire però dal secondo figlio. La leader del PiS Beata Mazurek in un’intervista radiofonica ha consigliato alle persone più indigenti di fare più figli per beneficiare dei sussidi.
Il Pis ha approvato una legge pro-life nel 2016 che prevedeva un bonus una tantum da mille euro alle donne che decidevano di non abortire, nonostante una diagnosi prenatale di disabilità grave o di malattia incurabile del feto. Il governo polacco inoltre ha espresso diverse volte le sue posizioni contrarie alla fecondazione assistita. Nel parlamento di Varsavia al momento è in discussione una legge che consentirà di ricorrere alla fecondazione assistita solo alle coppie sposate, inoltre potrà essere fecondato un solo ovulo alla volta, riducendo le possibilità di successo della tecnica.
Famiglie di una volta
Inoltre il ministro della giustizia polacco Zbigniew Ziobro è stato accusato di voler rendere più difficile il divorzio, imponendo alle coppie che vogliono divorziare l’obbligo di ricorrere alla mediazione. Secondo molti esperti, l’obbligo di mediazione potrebbe peggiorare la situazione delle donne vittime di violenza domestica, rendendo il percorso del divorzio più difficile e costoso. Stesse critiche sono state rivolte al progetto di legge presentato in Italia dal senatore leghista Simone Pillon che, come nel caso polacco, vuole imporre la mediazione familiare a pagamento alle coppie che vogliono divorziare.
In Francia il fronte della famiglia tradizionale è meno istituzionale: è difeso dalla piattaforma cattolica Manif pour tous, che ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso e contro la cosiddetta “ideologia gender”, ma non ha l’appoggio esplicito di Marine Le Pen e del suo Rassemblement national. In passato nel Front national (Fn) di Jean-Marie Le Pen confluivano le posizioni più radicali del tradizionalismo cattolico, ma Marine Le Pen, a differenza del padre, ha deciso di mantenere un approccio più ambiguo a questi temi che potrebbero farle perdere consensi nell’opinione pubblica francese. Ha appoggiato Manif pour tous senza mai partecipare ai cortei. Non si può dire la stessa cosa della nipote, Marion Maréchal-Le Pen, che ha partecipato diverse volte a queste manifestazioni e ha sempre rappresentato l’anima più estremista e tradizionalista del Fn.
Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee del 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libeŕation (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).
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