Quando dal gruppo Whatsapp dei compagni di reparto ha saputo che il suo ospedale insieme all’università avrebbe cominciato la sperimentazione di un vaccino contro il covid-19 non ha avuto esitazioni: ha deciso di offrirsi come volontario “per senso di responsabilità”. Federico Emanuele Pozzi ha 29 anni, è un medico specializzando in neurologia all’ospedale San Gerardo di Monza ed è uno dei 1.300 volontari che hanno chiesto di aderire alla prima fase della sperimentazione del vaccino prodotto dalla Takis e dalla Rottapharm Biotech, che dovrebbe cominciare il prossimo dicembre.
Mentre in Europa è arrivata la seconda ondata del nuovo coronavirus, le aspettative per un vaccino che possa fermare l’epidemia si fanno sempre più pressanti, anche se alcune sperimentazioni sono state sospese a causa degli effetti collaterali riportati da alcuni volontari. Inoltre la notizia di un uomo che negli Stati Uniti sarebbe stato infettato dal covid-19 per la seconda volta, con sintomi ancora più gravi della prima avrebbe gettato alcune ombre sulla possibilità di sviluppare anticorpi capaci di rendere le persone immuni alla malattia.
Intanto nel mondo si stanno sperimentando in tutto circa trecento vaccini contro il covid-19, una trentina sono nella fase di sperimentazione sulle persone e circa dieci sono nelle fasi finali dei test. I primi vaccini potrebbero arrivare sul mercato a fine anno o all’inizio del 2021, ma gli esperti si chiedono se i tempi di sperimentazione non siano stati troppo veloci per garantirne la sicurezza. Il 13 ottobre è stata bloccata la sperimentazione di uno dei vaccini in fase più avanzata, quello della casa farmaceutica Johnson&Johnson, a causa degli effetti collaterali sviluppati da uno dei 60mila volontari che hanno partecipato ai test.
La stessa cosa era accaduta il 6 settembre all’azienda farmaceutica AstraZeneca, che produce il vaccino in sperimentazione all’università di Oxford, che ha sospeso il programma per una settimana. Alcuni giorno dopo il laboratorio ha annunciato che avrebbe ripreso i test nel Regno Unito, ma la rivista scientifica Nature ha denunciato “la mancanza di trasparenza” sulle ragioni della sospensione e poi della ripresa della sperimentazione. L’azienda farmaceutica AstraZeneca aveva parlato di “un’azione di routine, necessaria quando una malattia inspiegabile compare in una delle cavie durante i test”.
Ma molti temono che i vaccini contro il covid siano commercializzati troppo presto, prima che siano stati fatti sufficienti esperimenti su un numero consistente di persone, anche sui più vulnerabili. Di solito infatti questo tipo di sperimentazioni durano anni: uno studio del 2013 ha osservato che, tra il 1998 e il 2009, il tempo medio impiegato per sviluppare un vaccino era di 10,7 anni. È possibile, però, procedere più rapidamente: quello contro l’ebola è stato prodotto in soli cinque anni. Ma finora nessun altro vaccino è stato sviluppato in così poco tempo.
L’Agenzia europea per i medicinali (Ema) “prevede di ricevere dati per ciascun vaccino sperimentato su una fetta di popolazione ampia (fino a 30mila adulti) inclusi soggetti con patologie pregresse e persone di età superiore ai 65 anni, che idealmente rappresentano un quarto o più del numero totale di volontari”. Ma nonostante gli annunci di distribuzione di un vaccino entro l’anno, alla sede dell’Agenzia europea per i medicinali è arrivata solo una richiesta di attivazione della procedura velocizzata di valutazione, per anticipare i tempi d’immissione in commercio da parte delle aziende nella fase finale della sperimentazione.
Alcuni vaccini sono alla fase 2 sulle persone, mentre quello di AstraZeneca e dell’università di Oxford è in fase 3, e potrebbe arrivare sul mercato all’inizio del 2021. All’istituto Lazzaro Spallanzani di Roma il 24 agosto 2020 è partita la prima fase di sperimentazione del vaccino brevettato dall’azienda ReiThera con il sostegno del governo e della regione Lazio.
All’ospedale San Gerardo di Monza dovrebbe partire tra qualche settimana la sperimentazione di uno dei sei vaccini a dna che sono in corso di studio in tutto il mondo. I vaccini a dna, usati anche contro i tumori, sono considerati più sicuri di quelli a rna, perché non hanno bisogno di un virus benigno per essere introdotti nella cellula, inoltre possono essere modificati più facilmente in laboratorio se il virus dovesse mutare nel corso del tempo.
Pozzi, che è già stato sottoposto a un prescreening, non teme gli effetti collaterali. “Il vaccino è necessario per evitare che il coronavirus continui a diffondersi”, spiega lo specializzando che ha deciso di partecipare al progetto insieme alla sua compagna, anche lei medico. Il fatto di essere un operatore sanitario ha avuto un ruolo nella sua scelta: “Penso che la mia formazione mi dia maggiore consapevolezza sul fatto che sia necessario agire in questa maniera, mentre vedo intorno un approccio antiscientifico diffuso”.
Per il momento Pozzi è stato sottoposto a una prima intervista, in cui gli sono state fatte delle domande sulle sue motivazioni e sul suo stato di salute e gli è stato spiegato come funzionerà il programma. Nelle prossime settimane potrebbe essere richiamato per essere sottoposto alla prima fase del progetto, che durerà dai due ai quattro mesi coinvolgendo un’ottantina di volontari. Pozzi è tranquillo: “Il rischio più grande è che il vaccino sia inefficace. Gli effetti collaterali sono quelli tipici dei vaccini: un po’ di febbre, dolori. Se ci sono altri effetti emergeranno con la sperimentazione su larga scala del vaccino”. C’è stata una conseguenza collaterale che il giovane medico non aveva considerato tuttavia: Pozzi è stato attaccato da reti no-vax e no-mask per la sua scelta di sottoporsi alla sperimentazione.
“Sono stato sommerso da centinaia di commenti di un gruppo che si chiama Free vax Italia”, racconta il medico. La forte polarizzazione dell’opinione pubblica provocata dalla questione dei vaccini suscita ulteriori dubbi sulla possibilità che la maggior parte della popolazione si faccia vaccinare. In Italia nel 2019 solo il 16,7 per cento della popolazione si è sottoposta al vaccino antinfluenzale, anche se a partire dal 2015 sono in aumento le persone che lo fanno, soprattutto tra chi ha più di sessant’anni. Secondo una ricerca condotta su un campione di mille italiani dall’EngageMinds Hub dell’università Cattolica di Milano, un italiano su due mostra diffidenza rispetto a un futuro vaccino contro il covid.
La sperimentazione dell’ospedale San Gerardo e dell’università Bicocca di Milano è in una fase preliminare: ad agosto è cominciato l’arruolamento dei volontari tra i 18 e i 65 anni, che al momento sono 1.300, e un terzo di loro sono già stati intervistati e sottoposti al prescreening. La fase operativa dovrebbe cominciare a dicembre. “L’età media dei volontari è tra i 45 e i 55 anni, ma ci sono anche persone più giovani o più anziane. Il 60 per cento di loro è composto da uomini, sono rappresentate le categorie più disparate, ma gli operatori sanitari sono il 20 per cento del gruppo”, spiega Marina Cazzaniga, direttrice del Centro di ricerca di fase 1 dell’ospedale San Gerardo e docente di oncologia medica alla Bicocca. I volontari che si sottopongono alla sperimentazione non percepiscono nessun contributo economico.
“Le motivazioni sono diverse, ma la maggior parte ci dice che vogliono rendersi utili alla collettività. Molti hanno avuto esperienze indirette di persone ammalate di covid-19 e questo le ha spinte a partecipare”, continua Cazzaniga. Ma il numero dei candidati ha sorpreso i medici e i ricercatori: “Soprattutto se si tiene conto che in Italia praticamente non esistono programmi di sperimentazione dei farmaci su individui sani”.
L’università Bicocca farà partire anche altri due programmi di ricerca, per capire quali motivazioni psicologiche e sociali hanno spinto i volontari a partecipare alla sperimentazione. “Questa affluenza massiccia alla candidatura ha qualcosa di straordinario”, continua Cazzaniga. La fase 1 durerà tra i due e i quattro mesi e dopo un periodo di follow up si analizzeranno i risultati. Alla successiva fase 2 parteciperanno duecento persone. Prima dell’inoculazione del vaccino, i volontari selezionati dovranno sottoporsi a una serie di esami clinici, basati su test ematici e strumentali. Trascorsi quattordici giorni dalla vaccinazione, i ricercatori dell’équipe dell’Asst di Monza eseguiranno dei prelievi del sangue ed estrarranno gli anticorpi prodotti. Gli anticorpi infine saranno messi in contatto con il virus attivo e se saranno in grado di neutralizzarlo, si riterrà che il vaccino funzioni.
Gli esperti concordano tuttavia che il vaccino contro il covid-19 avrà la funzione di rallentare la diffusione della malattia più che di debellarla, almeno in un primo momento. I vaccini che sono stati in grado di debellare il vaiolo, la poliomielite, la difterite e ridurre drasticamente il tetano e altre malattie, hanno dimostrato una capacità di prevenzione di oltre il 90 per cento (cioè più del 90 per cento di chi si vaccina non si ammala e non contagia gli altri).
Per i vaccini in fase sperimentale contro il covid-19 l’efficacia calcolata è del 50-60 per cento, questo vuol dire che chi si vaccinerà avrà comunque il 50 per cento di possibilità di infettarsi. “Per fermare l’epidemia l’efficacia del vaccino deve essere almeno del 60 per cento se si vaccina il 100 per cento della popolazione, oppure l’efficacia deve essere dell’80 per cento se è vaccinato il 75 per cento della popolazione”, sostiene uno studio pubblicato dall’American Journal of PreventiveMedicine a luglio.
Inoltre quando il vaccino sarà sul mercato, le autorità sanitarie dovranno continuare a monitorarne gli effetti, infatti di solito prima di arrivare sul mercato un vaccino viene sperimentato su larga scala per anni, ma questa volta non sarà così. La ricercatrice Stefania Salmaso scrive su Scienza in Rete che “gli studi in corso, per quanto accurati, non potranno rispondere subito a tutte le domande ancora aperte in merito all’efficacia della vaccinazione”. Per esempio non ci diranno quanto dura la protezione o se il vaccino è sicuro per tutti, per esempio anche per chi è stato da poco vaccinato per altre malattie.
Chi dovrà rispondere a queste domande è la stessa sanità pubblica che sta premendo per avere prodotti disponibili sul breve periodo. “La sorveglianza dopo la commercializzazione sarà essenziale a dare risposte tempestive e attendibili”, spiega la ricercatrice. Per Salmaso “l’avvento di un vaccino non renderà più leggere le attività di sanità pubblica, ma anzi aggiungerà altro carico a quelle già in corso”. E quindi sarebbe importante costruire già da ora “sistemi e infrastrutture con cui finalmente mettere in grado gli operatori di sanità pubblica di lavorare in modo coordinato ed efficiente”.
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