Gli incubi lo hanno tormentato per mesi dopo che è uscito dall’ospedale: sogna di non riuscire a muoversi, steso su un letto, i tubi nella gola e il corpo legato dai cavi collegati alle macchine. Altre volte immagina di vedere tutto appannato, sentire delle voci che provengono da macchie colorate, non riuscire a distinguere la forma delle persone davanti a sé, ascoltare le parole che gli sono rivolte, voler rispondere e non riuscire a farlo.

“La sensazione di annegare nel sonno, gli incubi ricorrenti non mi hanno lasciato dormire per molto tempo. Credo che sia il modo in cui il corpo elabora quello che gli è successo, il trauma che ha vissuto a distanza di tempo”, racconta Sergio Levrino, 46 anni, libero professionista, piemontese trapiantato a Milano, che il 22 marzo ha scoperto per caso di avere una polmonite bilaterale e il covid-19, prima di essere sottoposto a un’operazione chirurgica nell’ospedale Humanitas di Rozzano. Levrino è rimasto nella struttura per 28 giorni, due dei quali in terapia intensiva. È stato poi rimandato a casa dopo essere risultato negativo al tampone per due volte. È uscito dall’ospedale ad aprile, ma per sei mesi ha avuto degli strascichi: l’insonnia, gli incubi e poi una stanchezza continua che gli ha impedito di svolgere le mansioni più basilari.

“Era come stare in alta montagna: sollevare pesi, fare pochi passi era molto faticoso, avevo un senso di stanchezza e spossatezza importante. Mi mancava il fiato. Questo è durato almeno fino a ottobre”, racconta. A otto mesi dall’infezione gli è rimasta l’alterazione dei valori della glicemia e della pressione sanguigna: “Per la prima volta in vita mia ho avuto il diabete di tipo 2 e la pressione alta, ho dovuto prendere farmaci e continuo a farlo, anche se mi hanno spiegato che questi valori potrebbero rientrare nella normalità con il tempo e che sono una conseguenza a lungo termine del covid”, spiega Levrino, che è solo uno dei migliaia di pazienti che presentano dei disturbi di vario tipo, mesi dopo aver contratto la malattia. Lo avevamo intervistato a giugno, a due mesi dalle dimissioni e rispetto ad allora il suo racconto sembra più pacato, anche i ricordi sono di meno, più selezionati: “Lentamente scompaiono dai ricordi alcune cose, mi sembra che la mia mente stia lentamente elaborando quello che mi è successo e stia anche rimuovendo alcuni particolari, credo che sia un modo per salvaguardarmi”, racconta.

La fase acuta della malattia dura al massimo 21 giorni, ma un malato ogni dieci potrebbe presentare dei disturbi anche a distanza di tre mesi

Nei primi mesi della pandemia, mentre i governi cercavano di arginare la diffusione del virus adottando misure di contenimento del contagio, la maggior parte della ricerca scientifica si è concentrata sul trattamento o sulla prevenzione dell’infezione. Poco si sa di questo aspetto della malattia che alcuni studi definiscono “sindrome post-covid” oppure “covid lungo”. Di solito la fase acuta della malattia dura al massimo 21 giorni, ma un malato ogni dieci potrebbe presentare dei disturbi anche a distanza di tre mesi dalla fine della fase acuta. Uno studio del King’s college di Londra, condotto attraverso una app su quattro milioni di persone, ha mostrato che sessantamila di loro hanno riportato alcuni disturbi per più di tre mesi dopo la fine della fase acuta. Per questo si stima che nel mondo ci potrebbero essere quasi quattro milioni di persone in queste condizioni.

La stanchezza cronica è il disturbo più comune tra i sopravvissuti al covid, ma tra le altre conseguenze riportate – alcune più lievi altre più debilitanti – ci sono: senso di costrizione toracica, stati di confusione mentale, problemi gastrointestinali, dolori articolari, mal di testa e vertigini, insonnia, problemi cardiaci e diabetologici, danni ai polmoni, al cuore e ad altri organi interni. Secondo i dati preliminari dello studio britannico, questi effetti potrebbero essere causati dal fatto che il virus in molti casi provoca danni a più di un organo contemporaneamente.

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature ha messo in luce che i problemi polmonari persistenti e le difficoltà respiratorie sono più frequenti nei pazienti che hanno contratto la malattia in una forma grave e in quelli che sono stati in terapia intensiva, e che di solito i danni polmonari regrediscono progressivamente. “Uno studio austriaco ha mostrato che il danno polmonare è diminuito con il tempo: l’88 per cento dei partecipanti ha riportato danni visibili sei settimane dopo essere stato dimesso dall’ospedale, ma dopo dodici settimane questo numero è sceso al 56 per cento”, scrive Nature.

Un’altra ricerca condotta su 143 pazienti dimessi dal policlinico Gemelli di Roma rileva che il 53 per cento di loro ha riportato stanchezza cronica e il 43 per cento difficoltà a respirare a due mesi dalla fine della fase acuta, solo il 12 per cento dei pazienti esaminati dallo screening non ha denunciato disturbi. L’università di Oxford ha seguito il decorso della malattia di 58 persone con covid-19 moderato o grave: nel 60 per cento di loro il covid ha lasciato danni ai polmoni, nel 29 per cento ai reni, nel 26 per cento al cuore e nel 10 per cento al fegato. La difficoltà a respirare è stata denunciata dal 64 per cento dei pazienti, mentre la stanchezza cronica era presente nel 55 per cento dei casi.

Una sensazione di stanchezza e spossatezza non è insolita dopo le infezioni virali, sono state riportate sindromi simili anche nel caso di altre malattie come ebola o il virus di Epstein-Barr. Tuttavia i ricercatori temono che uno degli effetti del covid sul lungo periodo possa essere proprio questa sindrome da affaticamento cronico, caratterizzata da una stanchezza duratura e invalidante, che peggiora dopo uno sforzo mentale o fisico. Alcuni raccontano di aver impiegato un’ora anche solo per fare una doccia.

Un paziente guarito dal covid-19 si sottopone a dei controlli nel dipartimento di cardiologia riabilitativa in un’azienda sanitaria locale a Genova, 22 luglio 2020. (Marco Di Lauro, Getty Images)

“Il virus nella fase acuta colpisce principalmente l’apparato respiratorio e l’apparato cardiovascolare e provoca una disregolazione importante del sistema emocoagulativo. Tuttavia, soprattutto nelle forme gravi, è in grado di colpire praticamente qualsiasi organo e apparato del nostro corpo. Può provocare dunque danni diffusi, dando luogo a forme infiammatorie multiorgano, ma anche danni localizzati, al sistema nervoso per esempio, come la perdita del gusto e dell’olfatto”, spiega Andrea Antinori, direttore dell’unità operativa immunodeficienze virali dell’Istituto Spallanzani di Roma. I sintomi del post-covid sono così tanti e così diversi che alcuni ipotizzano che si possa trattare di più di una sindrome, ma gli studi condotti finora non permettono di chiarire del tutto questo aspetto.

“Due recenti rapporti del Centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) suggeriscono che alcuni sviluppano una sindrome infiammatoria multisistemica. Questo raro esito di covid-19 è già stato osservato nei bambini. Non tutti gli adulti che sviluppano questa sindrome avevano condizioni di salute compromesse prima di contrarre la malattia. Inoltre molti continuano a risultare negativi al test del covid-19, prima di sviluppare i sintomi veri e propri della malattia”, spiega la rivista New Scientist. Per gli scienziati tuttavia non è ancora chiaro chi sia più soggetto a contrarre il covid lungo. A determinare il perdurare dei sintomi in alcune persone potrebbero concorrere una serie di fattori, da questioni genetiche a malattie pregresse.

In generale non è ancora chiara l’origine della sindrome. “Le cause del covid lungo rimangono un mistero, per ora si fanno solo ipotesi”, continua New Scientist. Ci sono i danni diretti provocati dal virus e ci sono i danni collaterali provocati dall’attivazione del sistema immunitario per rispondere all’attacco virale. Gli effetti a lungo termine della malattia sono una combinazione di questi due processi. Secondo alcuni ricercatori, il virus potrebbe nascondersi in alcuni tessuti, come quelli del sistema nervoso, negli occhi o nella prostata, causando una reazione immunitaria che si riattiva di continuo. Ma al di là dell’individuazione delle cause e dei meccanismi di funzionamento, al momento è molto difficile per i pazienti che sviluppano il covid lungo ricevere un’assistenza sanitaria specifica. Nonostante i sintomi e uno stato infiammatorio persistente, i pazienti non vengono più identificati come covid e non sono più seguiti da programmi di screening sanitari adeguati.

Durante la prima ondata dell’epidemia Massimo Spelta, 63 anni, pensionato di Codogno, è stato uno dei pazienti ammalati per più tempo: è stato positivo per 84 giorni. Ma da quando il 15 giugno è risultato negativo al tampone, non è stato più seguito dalle autorità sanitarie, nonostante la persistenza di molti sintomi invalidanti: difficoltà a respirare, giramenti di testa, mancanza di equilibrio, astenia, insonnia. Anche lui lo avevamo intervistato all’inizio di giugno e siamo tornati a chiedergli come si sente e cosa è cambiato.

“Mi avevano detto che mi avrebbero fatto dei controlli, dopo aver avuto la malattia per così tanto tempo, ma mi hanno chiamato per fare una radiografia di controllo il 24 novembre, cinque mesi dopo il tampone negativo”, racconta. “In estate ho dormito due ore per notte e non riuscivo a camminare, trascinavo i piedi”, ricorda. Alla fine di settembre la situazione non migliorava, quindi Spelta ha fatto degli esami del sangue privatamente e ha fissato una visita privata da uno specialista in pneumologia che gli ha prescritto una cura specifica: una dose minima di cortisone, dei farmaci per i sintomi asmatici.

La Tac eseguita successivamente ha evidenziato delle lesioni ai polmoni. “Anche dal punto di vista cardiologico ho riportato dei problemi. Tuttavia non c’è stato nessun programma di screening per seguire i casi più gravi come il mio soprattutto nei primi mesi”, denuncia. Dal punto di vista psicologico il pensionato di Codogno, uno dei primi epicentri dell’epidemia in Italia, dice di aver reagito abbastanza bene, ma si sarebbe aspettato che durante l’estate fossero adottate più misure per prepararsi alla seconda ondata. Anche Rosanna Padrini, un’architetta di 67 anni, di Salò, in provincia di Brescia, è dello stesso avviso. È mancato completamente un sostegno ai sopravvissuti del covid-19 che hanno sviluppato dei disturbi a lungo termine.

“Io e mio marito, entrambi guariti dal covid, ci siamo sottoposti da soli e privatamente a tutti i controlli che abbiamo ritenuto necessari, visite cardiologiche, visite diabetologiche e analisi del sangue. Noi abbiamo potuto farlo, ma quanti non sono nella condizione di farlo?”, chiede. La sua preoccupazione al momento è di poterlo prendere di nuovo, perché non è ancora chiaro quanto a lungo si rimane immuni dalla malattia, una volta guariti. “Abbiamo fatto dei test per capire quanti anticorpi abbiamo sviluppato, sempre privatamente, sempre per una tranquillità personale, ma non c’è stata nessuna indagine da parte delle autorità sanitarie”, racconta.

“Per mesi non riuscivo a salire le scale e fare la spesa mi affaticava moltissimo, mi addormentavo nel pomeriggio sul divano per la stanchezza, non mi era mai successo prima”, racconta. La malattia le ha lasciato un diabete che deve curare prendendo delle medicine, mentre suo marito Paolo ha riportato gli stessi problemi a cui si sono aggiunti episodi di confusione mentale e amnesie. “Ma nessuno si è fatto sentire per controllare le nostre condizioni di salute”, continua. “Quando sento alla tv tutti questi dibattiti sul pranzo di Natale e sulle piste da sci mi sembrano completamente fuori luogo”, conclude.

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