Carlos è arrivato davanti all’ufficio immigrazione alle quattro di mattina, ma in fila davanti al cancello della questura di via Patini, a Roma, c’erano già decine di persone. Forse una quarantina. È un ragazzo colombiano di 28 anni, arrivato in Italia da tre mesi, e deve presentare la domanda per il permesso di soggiorno. Ad accompagnarlo c’è la sorella, Carmen, che il permesso ce lo ha già. Ha portato con sé una cartellina con tutti i suoi documenti, ma non parla italiano e spera di non avere dimenticato niente.

Le prime persone della fila sono arrivate la sera precedente e si sono messe a dormire vicino alla recinzione dell’ufficio immigrazione, un palazzo giallo con delle vetrate a specchio, in questa una strada di capannoni industriali in una zona della periferia est della città, vicino al grande raccordo anulare.

Carlos è lì davanti per la prima volta, ma teme comunque che non riuscirà a entrare, come è successo a quelli che sono in fila prima di lui. Ci sono persone che vengono a via Patini per la terza volta. Quando lo sportello apre le porte alle otto di mattina, i poliziotti al cancello si trovano davanti a una fila già formata. Distribuiscono dei numeri scritti a penna su dei pezzetti di carta ritagliata, Carlos riceve il numero 41, non crede di riuscire a entrare, ma si ferma lo stesso davanti al cancello ad aspettare, sperando che la fila scorra più rapidamente. Spera, spera ancora di non dovere tornare un’altra volta il giorno successivo, anche se sembra inevitabile. Alle dieci, diverse ore dopo, è ancora davanti all’ufficio, in fila tra le transenne, con un gruppo nutrito di persone.

Tre settimana fa, la mattina del 28 gennaio, un uomo di origine romena che dormiva davanti all’ufficio immigrazione di via Patini è stato ritrovato morto da alcune persone che erano in coda e hanno chiamato i soccorsi, ma non c’è stato niente da fare. In un comunicato, la polizia ha dichiarato che l’uomo non era in attesa dei documenti, in quanto cittadino comunitario, anche se poi ha aggiunto un particolare che potrebbe spiegare perché l’uomo stava dormendo vicino agli uffici: il ragazzo, infatti, era stato raggiunto da un ordine di allontanamento dal territorio nazionale, e secondo sindacati e associazioni poteva essere andato in via Patini per chiedere informazioni sulla sua situazione.

“Era una morte annunciata”, ha affermato Mattia Gregorio operatore della Federazione del sociale e dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) durante un presidio di protesta organizzato dall’Unione sindacale di base (Usb). Alle otto del mattino il corpo dell’uomo non c’era più, nessuno delle persone che erano in fila lo conosceva, ma alcuni di loro avrebbero testimoniato che fosse in attesa di una richiesta d’asilo. “Non crediamo alla tesi della questura, sembra irrealistico che si fosse accampato proprio nella fila dei richiedenti asilo. Ci è stato detto che era lì dalle dieci di sera. Mettersi in coda a quell’ora e in quel luogo è una modalità che seguono i cittadini stranieri che intendono richiedere la protezione internazionale”, continua Gregorio, secondo cui quella della questura è “una spiegazione lacunosa. Poi tutto può essere. Resta il fatto che un cittadino straniero è morto mentre era accampato sulla soglia di un ufficio pubblico”.

Dello stesso parere Federica Borlizzi, avvocata dell’associazione Nonna Roma, secondo cui la morte del ragazzo è una conseguenza delle pratiche illegittime delle istituzioni: “La questura di Roma ha tentato di eludere le proprie responsabilità sulla morte dell’uomo, affermando che il decesso è avvenuto per cause naturali e che questa persona non avesse ‘motivo di attendere dinanzi a via Patini, avendo ricevuto un decreto di allontanamento dal territorio nazionale’. Noi, invece, crediamo che questo decesso sia strettamente connesso con l’operato vergognoso dell’ufficio, che spesso non è dotato neanche dei mediatori culturali e degli interpreti necessari per spiegare alle persone straniere il contenuto dei provvedimenti di cui sono destinatari”, sottolinea Borlizzi, aggiungendo che, “La morte di questa persona, di cui non conosciamo neanche il nome, è strettamente connessa per noi alle dinamiche che denunciamo da anni”.

La situazione delle file notturne a via Patini non è nuova, ed è stata denunciata per anni dalle associazioni che si occupano di accoglienza e orientamento legale per gli stranieri nella capitale. E anche se per qualche tempo, a seguito di alcune denunce, ci sono stati dei miglioramenti, sembra che la situazione torni a peggiorare quando l’attenzione mediatica si spegne.

Roma, 29 gennaio 2025. Le proteste dopo la morte di un uomo di origine romena davanti alla questura in via Patini.  - Simona Granati, Corbis/Getty Images
Roma, 29 gennaio 2025. Le proteste dopo la morte di un uomo di origine romena davanti alla questura in via Patini. (Simona Granati, Corbis/Getty Images)

“Da anni denunciamo le prassi illegittime della questura di Roma, che è diventata un luogo di razzismo istituzionalizzato”, denuncia Borlizzi. “Uomini, donne e bambini sono costretti ad accamparsi a via Patini, nel tentativo di accedere all’ufficio immigrazione. Una situazione inaccettabile che comporta una palese violazione dei loro diritti e della loro dignità”, continua Borlizzi. “Nonostante una legislazione chiara e decine di ricorsi che condannano il suo operato, l’ufficio immigrazione non solo continua a richiedere l’iscrizione anagrafica per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno, ma addirittura si ostina a non accettare la residenza ‘convenzionale’ in via Modesta Valenti, che è del tutto equiparabile a quella ‘reale’”, spiega Borlizzi. Secondo l’avvocata, i funzionari della questura chiedono spesso documenti che non sono necessari secondo quanto stabilito dalla legge, e non riconoscono la residenza fittizia, assegnata a chi non ha una residenza reale come i senza dimora.

Per questo, secondo l’associazione Nonna Roma, migliaia di persone che avrebbero diritto a un permesso di soggiorno “sono condannate all’irregolarità, alla marginalità e all’invisibilità”. Per Gennaro Santoro, avvocato di Attiva diritti, questa inaccessibilità alle procedure per la domanda di asilo o per il rinnovo del permesso di soggiorno è una prassi, che ha avuto però delle evoluzioni nel tempo: “Dopo un ricorso al tribunale in cui erano state denunciate queste pratiche illegittime, per un paio di mesi la questura aveva trovato una soluzione lo scorso autunno. Faceva entrare tutti nell’ufficio e dava loro un cedolino, in cui si attestava dell’avvenuta domanda e con il quale, entro quaranta giorni, le persone potevano andare a presentare i documenti in altri uffici sul territorio. Ci risulta, però, che dopo un paio di mesi abbia ripreso a fare entrare solo un determinato numero di persone ogni giorno, creando quella fila”, spiega Santoro, che annuncia un nuovo ricorso al tribunale da parte di una decina di associazioni romane – tra cui Arci, Asgi, Libellula, Progetto diritti, Baobab – per denunciare la situazione.

Giovanna Cavallo, operatrice di Legal aid - diritti in movimento, da tempo impegnata nell’orientamento dei richiedenti asilo a Roma, spiega che la situazione ha avuto un’evoluzione a partire dal 2023. “All’epoca, in via Patini i funzionari di polizia davano degli appuntamenti su dei foglietti, che non avevano alcun valore dal punto di vista legale”.

Per questo la sua associazione ha fatto diverso ricorsi, vincendoli, avendo riscontrato il mancato accesso alla procedura di asilo per molti richiedenti. Da quel momento la questura ha cominciato a prendere in carico le pratiche di un certo numero di persone al giorno: “La fila che si forma è in media di settanta persone al giorno, ma solo circa venticinque persone al giorno riescono a entrare”.

La variazione di questo numero dipende dal personale dell’ufficio in servizio quel giorno e da altri fattori. “Le famiglie con i bambini hanno la priorità, e di solito vengono fatte passare avanti”, chiarisce Cavallo, che va a via Patini almeno una volta alla settimana da anni per accompagnare i suoi assistiti. La categoria più esposta al mancato accesso alla richiesta di asilo è quella dei richiedenti che presentano la domanda senza l’appoggio di un’associazione o di un avvocato.

“Il fenomeno dell’accesso alla procedura internazionale è più violato per i richiedenti asilo che non sono nei centri di accoglienza, ossia quelli che fanno domanda in autonomia. A questo gruppo di persone appartengono tre categorie: chi ha perso la protezione umanitaria per le variazioni legislative avvenute negli ultimi anni ed è costretto a ripresentare la domanda, chi entra in Italia via terra (soprattutto a Trieste), e quelli che chiamiamo ‘dublinati di rientro’, cioè richiedenti asilo che hanno avuto un diniego in altri paesi europei e che poi tornano in Italia a chiedere protezione. Gli iracheni o i somali, per esempio, spesso ricevono un diniego in altri paesi europei e poi vengono in Italia per provare a ottenere l’asilo”, spiega Cavallo.

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Ma la questura di Roma non è l’unica ad avere questo problema: ci sono molte città italiane che non garantiscono l’accesso alla richiesta di asilo. Con la campagna #paradossi, l’associazione Cambiare l’ordine delle cose ha monitorato le questure di alcune città italiane, tra cui Caserta, Firenze, L’Aquila, Milano, Napoli, Parma, Pesaro, Reggio Emilia, Trieste e Terni. “L’inaccessibilità alle richieste di asilo è una prassi diffusa in tutta Italia, non solo a Roma. In alcune questure la situazione è ben peggiore. Spesso i funzionari di polizia chiedono ai richiedenti asilo dei documenti che non dovrebbero essere necessari, come per esempio il passaporto. Nel Lazio ci sono grandi problemi a Latina, Viterbo e Frosinone. Per questo molti richiedenti vengono a Roma, pensando che sia più semplice, perché l’ufficio è più grande e monitorato”, conclude Cavallo.

In un rapporto dell’aprile del 2024, Asgi denuncia che le pratiche illegittime nel trattamento delle richieste di protezione internazionale e dei permessi di soggiorno negli uffici immigrazione italiani sono piuttosto frequenti: in 55 questure di diverse province italiane, ai richiedenti asilo è impedito l’accesso o la registrazione della domanda. Il 60 per cento delle persone intervistate da Asgi dichiara di non essere riuscito a presentare la domanda, per mancato accesso agli uffici, mentre nel 21 per cento dei casi la formalizzazione della domanda è ostacolata dopo la presentazione. In molti casi vengono richiesti dei documenti che in realtà non sono previsti dalla legge, come il passaporto o una dichiarazione di ospitalità. Solo in presenza di un avvocato, o dopo l’invio di diffide legali, la procedura si sblocca. Inoltre tra la presentazione della domanda e la sua formalizzazione possono passare anche più di sei mesi, durante i quali ai richiedenti asilo è negato sia il permesso di soggiorno sia l’accesso all’accoglienza.

A Torino, la situazione dell’ufficio immigrazione di Corso Verona è ancora peggiore di quella di via Patini. Le lunghe code all’ingresso, senza alcuna garanzia di poter accedere agli sportelli, sono una certezza per chi cerca di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno. Nel 2022 i locali dell’ufficio sono stati dichiarati parzialmente inagibili, senza che siano state adottate altre soluzioni. Asgi, insieme ad altre sessanta associazioni piemontesi, ha denunciato la situazione chiedendo l’istituzione di un sistema di prenotazione online e il decentramento delle pratiche, ma niente è cambiato.

La questura ha annunciato lo spostamento delle attività in altre sedi e l’introduzione di un sistema di prenotazione telematica. Le violazioni, però, continuano tra ritardi, richieste di documenti non previsti dalla normativa e personale non sempre preparato. “Chi deve fare richiesta di asilo a Torino, come a Roma, è costretto ancora a dormire fuori di notte per fare le file”, afferma il consigliere comunale del capoluogo piemontese, Abdullahi Ahmed, che insieme ad altri rappresentanti di origine straniera è promotore di una mozione comunale a favore di un protocollo d’intesa tra le questure e le anagrafi per passare la competenza di queste pratiche ai comuni.

“La sindaca di Settimo Torinese, Elena Piastra, ha proposto che siano gli uffici comunali a occuparsi di questa pratica per i duemila residenti stranieri della cittadina, sollevando le questure dal compito. Dopo di lei, altri cinquanta sindaci piemontesi che hanno proposto di fare lo stesso”, racconta Ahmed. Per il consigliere torinese di origine somala, soprattutto per i minorenni che spesso sono nati e cresciuti in Italia, questa sarebbe l’opzione migliore e consentirebbe in parte di risolvere il problema. “Non c’è bisogno di un approccio securitario, le anagrafi possono occuparsi di queste pratiche”, continua. “Potrebbe essere fatto tutto online e negli uffici comunali, come avviene in altri paesi”, sottolinea.

Il 17 febbraio la rete degli amministratori comunali con passato migratorio, di cui Abdullahi Ahmed fa parte, incontrerà l’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) a Roma per promuovere questa proposta. “Secondo una nostra stima, il rinnovo dei permessi di soggiorno da parte degli stranieri in Italia produce un contributo di un miliardo di euro all’anno allo stato. Converrebbe a tutti, quindi, favorire questo tipo di procedure e snellirle”, conclude Ahmed.

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