Questo articolo è stato pubblicato l’11 aprile 2014 nel numero 1046 di Internazionale.

Princess era stata contagiata dal clima febbrile che caratterizzava il Sudafrica nell’aprile del 1994. Princess era la nostra domestica a Johannesburg, una donna robusta, pacata e spiritosa. Il suo vero nome era Noli-zwe Mneno, ma l’aveva cambiato perché, secondo lei, i nomi africani sono troppo difficili da ricordare per i bianchi. Quel mese si sarebbero svolte le prime elezioni libere nella storia sudafricana, a cui avrebbero potuto partecipare tutti: neri, bianchi e meticci. La notizia della fine del regime dell’apartheid era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Quasi quattrocento corrispondenti stranieri erano arrivati in Sudafrica per seguire il voto. Io ero uno di loro.

Il dominio dei bianchi era finito e in Sudafrica si avverava il sogno di tutti gli africani. I notiziari e gli articoli dei giornali non parlavano d’altro, anche perché nessuno di noi capì quello che stava succedendo in Ruanda né immaginava quali proporzioni avesse raggiunto l’incubo che nel frattempo si stava materializzando nel centro del continente. Neanch’io lo immaginavo. Nelle mie corrispondenze da lontano scrivevo cose imperdonabili. Vent’anni dopo me ne vergogno ancora.

Le prime notizie che arrivavano dal Ruanda, quattromila chilometri a nord del Sudafrica, erano confuse: prove di forza militari, rivolte sanguinose, scontri etnici e lotte fratricide. Sul numero 16 del 1994 Der Spiegel scrisse: “Un’anarchia che si autoalimenta”. Un tipico conflitto africano. Un collega britannico mi disse: “Ruanda? Ah, sì. Tutsi e hutu hanno ricominciato a spaccarsi la testa: l’eterna guerra tribale”. Ma la “guerra tribale” fu un genocidio, il più spaventoso dopo lo sterminio nazista degli ebrei e i killing fields, i campi della morte cambogiani.

“Fummo abbandonati, il mondo intero si girò dall’altra parte”. A parlare è Jonathan Nturo, 34 anni, alto e magro. Nturo è vestito in modo elegante: giacca di pelle bordeaux, jeans, occhiali da sole. Sta per andare a visitare l’inferno a cui è scampato e vuole presentarsi nel modo migliore.

In piedi su una collina che sovrasta Murambi, un insediamento vicino a Kigali, Nturo mi racconta la storia di come arrivò lì insieme alla famiglia e a cinque capi di bestiame. Con altre decine di persone terrorizzate, misero su un accampamento di emergenza nel cantiere di un liceo, nello stesso posto dove ancora oggi si vedono tre betoniere gialle lasciate ad arrugginire. I soldati dell’esercito governativo avevano promesso di proteggere i profughi e loro speravano di sfuggire ai massacri. Jonathan Nturo aveva 14 anni.

L’indifferenza dell’Onu
Alle 20.20 del 6 aprile, a Kigali, la capitale del Ruanda, l’aereo del presidente hutu Juvénal Habyarimana fu abbattuto a colpi d’arma da fuoco mentre si preparava all’atterraggio. Le circostanze dell’incidente sono ancora avvolte nel mistero, ma la morte di Habyarimana segnò l’inizio del genocidio. Quella notte la guardia presidenziale e le milizie Interahamwe (“lottare insieme” in kinyarwanda, la lingua ufficiale del paese) imperversarono nelle strade di Kigali. Un gruppo di estremisti hutu prese il potere e decise di annientare la minoranza tutsi, circa il 10 per cento della popolazione ruandese. Nel giro di una settimana le violenze si allargarono a tutto il paese.

“All’inizio mio padre non voleva crederci”, ricorda Nturo. “Decidemmo di fuggire verso Murambi solo dopo che gli hutu cominciarono a incendiare i villaggi anche nella nostra regione e dopo che furono uccisi tre dei miei fratelli”. La famiglia Nturo arrivò nell’accampamento di Murambi verso le 16 del 10 aprile.

La stessa sera, intorno alle 22.30, il generale canadese Roméo Dallaire telefonò da Kigali alla centrale operativa di New York. Dallaire era il capo dell’Unamir, il contingente di caschi blu delle Nazioni Unite che, secondo gli accordi di Arusha (firmati nel 1993 dal governo di Kigali e dai ribelli tutsi del Fronte patriottico ruandese), avrebbe dovuto mantenere la fragile pace e garantire la transizione verso la democrazia. Erano mesi che Dallaire lanciava con insistenza l’allarme su una possibile escalation di violenze in Ruanda. A gennaio aveva spedito un messaggio cifrato in cui parlava di armi ammassate in depositi segreti, di elenchi di persone da uccidere e di squadroni della morte. Lo scenario peggiore si era realizzato e il comandante delle truppe dell’Onu chiese di rafforzare immediatamente il contingente di caschi blu. Dallaire stimava che, con circa quattromila uomini e un mandato più ampio, avrebbe potuto evitare la catastrofe. I suoi superiori del dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace, diretto da Kofi Annan (che in seguito diventò segretario generale dell’Onu) respinsero le sue richieste. Non volevano ammettere che in Ruanda stava per essere commesso un crimine contro l’umanità. Nei cento giorni successivi il regime hutu ruandese e i suoi complici assassinarono ottocentomila tutsi e hutu moderati. Cinque morti al minuto: nella storia dell’umanità non sono mai stati uccisi tanti esseri umani in un tempo così breve. Roméo Dallaire lo definì un “olocausto africano”.

A Murambi l’inferno scoppiò alle 3 di notte del 21 aprile. All’improvviso, racconta Jonathan Nturo, i soldati si misero a sparare a caso contro i profughi e a lanciare bombe a mano. Un’ora dopo, dalle alture circostanti, i miliziani piombarono sull’accampamento e massacrarono gli sfollati inermi a colpi di machete, coltello, lancia, falce, zappa e bastone.

Nel caos la famiglia Nturo si divise. Jonathan finì insieme a un gruppo di ragazzi che si difesero tirando i mattoni del cantiere contro gli aggressori. Ma la disparità di forze era troppo grande. Quasi per miracolo un centinaio di profughi rimasti intrappolati nel campo, tra cui Jonathan, riuscì a fuggire sotto il fuoco delle truppe governative e a mettersi in salvo correndo a valle e attraversando a nuoto il fiume Murambi.

Contagiati da un virus
Nturo indica la piantagione di banane sulla collina di fronte, dove si era nascosto approfittando della debole luce dell’alba. Non vuole far vedere che i ricordi lo sconvolgono, ma ha l’aria smarrita, gesticola, parla in fretta e ogni tanto balbetta. “Abbiamo paura di parlare di queste cose”, ammette. Racconta di notti insonni in cui è tormentato dai fantasmi del passato e di varie terapie che non sono servite ad alleviare i suoi disturbi da stress post-traumatico.

A Murambi morirono almeno quarantamila persone. Fu una delle stragi più spaventose. Nessuno conosce il numero esatto dei morti perché ancora oggi si continua a disseppellire scheletri umani. “Kubera umurimo wari wakozwe” (avete fatto un buon lavoro), commentò il prefetto di Gikongoro ringraziando gli assassini.

Le prime immagini televisive che fecero il giro del mondo erano così terribili che i commentatori parlarono di aberrazione, di furia omicida, come se il genocidio fosse un virus che aveva colpito il Ruanda.

Ma oggi sappiamo che il genocidio non fu l’opera di arcaiche forze del caos, ma di un’élite istruita e moderna, che usò tutti gli strumenti a sua disposizione: forze armate e polizia, servizi segreti e milizie, apparato amministrativo e mezzi d’informazione. Gli assassini non erano dei demoni, ma i complici di un sistema criminale. Agirono seguendo una logica semplice: se gli hutu non sterminavano i tutsi, sarebbero stati i tutsi a sterminare gli hutu.

A Murambi è stato costruito un memoriale del genocidio. Lo scheletro della scuola è stato lasciato nelle stesse condizioni di vent’anni fa. Sul primo pannello c’è scritto: “Per descrivere quello che è successo in questo luogo i mezzi d’informazione non hanno parlato di genocidio, ma di guerra tribale”. I ruandesi non hanno dimenticato quanto furono superficiali i giornali stranieri. Quello che successe non aveva niente a che vedere con una “guerra tribale”: hutu e tutsi condividevano da secoli lingua, usanze e cultura, si sposavano tra loro e spesso era difficile distinguere gli uni dagli altri basandosi solo sull’aspetto fisico. Le vere cause furono altre: la pressione demografica in un piccolo paese prevalentemente agricolo, la competizione per le poche risorse a disposizione, la politica di segregazione imposta dalle autorità coloniali che alimentò il razzismo latente tra i gruppi etnici.

L’atmosfera è ostile, gli abitanti tengono lo sguardo fisso sul nostro fuoristrada

Dalle porte delle vecchie aule scolastiche di Murambi esce un odore di putrefazione insopportabile. Dentro, su alcuni tavoli di legno giacciono centinaia di scheletri bianchi di calce, che viene usata per conservarli. Ci sono scheletri con le membra scomposte, bambini decapitati, crani sfondati da cui sporgono punte di lancia, donne senza gambe. Sui volti, espressioni di orrore. Probabilmente non esiste un altro memoriale al mondo che mostri la bestialità umana in modo così esplicito.

Jonathan Nturo si tira gli occhiali da sole sulla fronte. Non dice niente perché sta cercando di trattenere le lacrime. Ricomincia a parlare solo quando usciamo all’esterno. Si mette in piedi su una lastra di cemento coperta di erba e spiega: “Qui sotto c’è la fossa comune su cui i francesi giocavano a pallavolo”.

Via dal paese
Già, i francesi. Che erano legati da una stretta amicizia con il regime hutu: gli davano armi e consiglieri e addestravano le milizie. La Francia inviò una missione quando ormai i massacri erano finiti. L’operazione Turquoise creò un corridoio sicuro attraverso cui gli assassini, nascosti tra centinaia di migliaia di profughi hutu, riuscirono a fuggire in Burundi o nell’allora Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo).

All’uscita dal memoriale vediamo dei bambini impegnati a giocare con delle eliche che si sono costruiti da soli. “La normalità è inquietante”, dice Nturo. “A volte mi stupisco perfino che qui cresca ancora l’erba”. Il suo viaggio prosegue fino a Gataba, dove furono uccisi suo padre e uno dei suoi fratelli. Anche loro fuggirono da Murambi, ma riuscirono ad arrivare solo fino a un villaggio su una collina vicina.

Sulla strada incrociamo un ciclista che trasporta nel cestino un mucchio di machete nuovi. Le lame lucide scintillano al sole. Nturo vorrebbe andare a parlare con la moglie dell’uomo che ha ucciso i suoi familiari. Ma quando la nostra auto supera a passo d’uomo il negozio della donna, Jonathan si tira indietro. “No”, dice, “oggi no. C’è un’atmosfera strana”. Ha ragione: l’atmosfera è ostile, gli abitanti tengono lo sguardo fisso sul nostro fuoristrada. Nturo non vuole scendere per fare domande. Le risposte, dice, le possiamo leggere negli sguardi sospettosi di quelle persone. Sembra che dicano: “Vedi un po’ questo tizio che si presenta con i giornalisti per rivangare vecchie memorie. No, adesso vogliamo vivere in pace. Ormai sono trascorsi vent’anni. Il passato è passato”.

La riconciliazione per forza
Ma per Jonathan Nturo il passato non si cancella, soprattutto non nel villaggio dove ci troviamo. I cadaveri del padre e del fratello furono abbandonati davanti a un banco del mercato coperto di piastrelle bianche, una macelleria dove normalmente si ammazzano vitelli e capre. Furono in quattro a ucciderli: il capo della banda, un ricco imprenditore, è in carcere e oggi è sua moglie a portare avanti gli affari. A Gataba assassini e vittime – i primi della maggioranza hutu, i secondi della minoranza tutsi – sono vicini di casa. Gli uni cercano di rimuovere il passato, gli altri non riescono a dimenticarlo. Chi parla troppo della questione hutu-tutsi rischia una condanna per sedi-zione.

Il governo autoritario del Ruanda ha varato provvedimenti che impongono la riconciliazione, ma al governo c’è ancora il presidente Paul Kagame, un tutsi, il cui esercito ribelle nel 1994 conquistò il paese mettendo fine al genocidio. Oggi l’economia del Ruanda va a gonfie vele, e il paese è una “dittatura dello sviluppo” sul modello della Cina o di Singapore. E come in quei paesi, gli oppositori vengono perseguitati e, se necessario, ridotti al silenzio.

Ritorniamo a Kigali. Nelle risaie a fondovalle si vedono delle squadre di detenuti al lavoro. I delinquenti comuni indossano uniformi rosa, i responsabili del genocidio una divisa color arancione squillante. “Tutti devono vedere che i responsabili sono stati loro ”, spiega Nturo. “Devono pagare per i loro crimini, è giusto così”.

Jonathan Nturo è cresciuto in una grande famiglia di quattordici persone, ma oltre a lui sono sopravvissuti solo la madre, due sorelle e un fratello. Gli hanno chiesto varie volte di organizzare delle visite guidate a Murambi, ma lui ogni volta ha rifiutato. Intorno a sé ha costruito una barriera, ma questa barriera si sgretola ogni volta che torna sui luoghi del genocidio. La sua strategia di superamento si chiama rimozione, e per questo si concentra molto sul lavoro. Dopo aver studiato ragioneria ed economia aziendale all’università di Butare, ha trovato impiego in un’organizzazione umanitaria e guadagna molto bene. Vive da solo a Kigali. Non vuole essere identificato come un abarokotse, un sopravvissuto, rinchiuso per sempre nei suoi ri-cordi.

In Ruanda ce ne sono tanti come lui, prigionieri anche se innocenti. Una è Dancille Nyirabazungu, chiusa da vent’anni nella prigione del passato. Dancille dice che per lei il tempo si è fermato nell’aprile del 1994. Ogni giorno ricorda il massacro avvenuto nella chiesa di Ntarama, non lontano dalla capanna dove abita. Dancille ha perso venti familiari. Cinque dei suoi nove figli sono stati assassinati. Suo marito è stato fatto a pezzi con il machete davanti all’altare della
chiesa.

Dancille, 61 anni, abita con il figlio maschio e due nipoti, figli di un fratello, in due stanze piccole e buie. Niente sedie né tavolo, corrente elettrica o acqua corrente. Solo una latrina nell’orto. È appena rientrata dal lavoro, ha i vestiti logori e sporchi di terra: trasporta pietre in un cantiere edile, dove la pagano meno di un euro al giorno.

Il villaggio di Ntarama si trova nel distretto di Bugesera, una zona paludosa e inospitale, dove molti tutsi si erano rifugiati o erano stati trasferiti con la forza ai tempi delle prime grandi persecuzioni, alla fine degli anni cinquanta. Nell’aprile del 1994, nella stagione dell’itumba, cioè delle grandi piogge, dovevano essere annientati come insetti fastidiosi. Gli hutu li chiamavano inyenzi, scarafaggi.

Migliaia di tutsi fuggiti dalle campagne circostanti si erano rifugiati dentro la chiesa di Ntarama. Speravano che nel luogo sacro sarebbero stati al sicuro perché molti dei loro carnefici erano cattolici osservanti, come del resto le vittime. La domenica andavano a messa insieme. Anche Dancille Nyirabazungu e la sua famiglia cercarono riparo in chiesa. Ma il 15 aprile, alle 8 del mattino, i miliziani circondarono la zona. Sfondarono in più punti le mura di mattoni della chiesa e lanciarono delle bombe a mano all’interno. Poi fecero irruzione all’interno e si accanirono contro chi era già morto o era rimasto gravemente fe-rito.

Un fallimento personale
Sulla facciata dell’edificio vicino, dove si svolgevano le lezioni di catechismo, si distingue ancora una grande macchia scura. È il sangue dei neonati che furono sbattuti contro il muro. Nell’angolo è appoggiata una pertica. “Con questa”, spiega Dancille, “stupravano le donne”. Dancille parla con voce inespressiva. Si potrebbe credere che il racconto la lasci indifferente, se non fosse per i suoi occhi che fanno intravedere un orrore indelebile.

“Perché?”, chiede. Perché? Non trova spiegazioni per tanta barbarie. E come si fa a spiegare che i medici uccisero i pazienti nei letti d’ospedale? Che i maestri massacrarono i loro alunni? Che le suore versarono benzina sui fedeli per dargli fuoco? “Avanti! Le fosse non sono ancora piene!”: con queste parole radio Mille Collines incitava gli assassini. Uccidere era diventato un dovere civile e tante persone semplici, abituate a non contestare l’autorità, ubbidirono. Uccisero spinte dalla paura, dall’odio, dalla smania di impossessarsi dei beni altrui.

All’epoca Dancille Nyirabazungu aveva 41 anni. Si nascose nella sacrestia, sotto un mucchio di cadaveri. Il bambino che portava in grembo, Eric, nacque a giugno. La madre gli mise il secondo nome di Rucyamubicyika: “Colui che è sopravvissuto al male”. Dov’era Dio in quei giorni? “Era qui, altrimenti non saremmo sopravvissuti”, risponde la donna. Poi tocca a lei fare una domanda: “E voi, dov’eravate? Perché non ci avete aiutati?”.

Davanti a domande come queste provo ancora vergogna, perché a fallire non sono state solo le Nazioni Unite, l’occidente, gli altri stati africani: abbiamo fallito anche noi giornalisti. Siamo corsi dietro al grande evento del Sudafrica e non abbiamo prestato attenzione a quello che succedeva in Ruanda, o abbiamo scritto solo frasi fatte.

Il 15 aprile, mentre si svolgeva il massacro di Ntarama, su Die Zeit veniva pubblicata una mia analisi, ovviamente scritta da lontano. Con tono saccente blateravo di un’“orribile guerra tribale” nel cuore dell’Africa. Tutti contro tutti, scrivevo: bellum omnium contra omnes. Quando non capisci niente di quello che succede veramente, una bella formula latina funziona sempre. Alla fine dell’articolo scrissi che un intervento esterno sarebbe stato inutile. Quell’articolo contiene gli errori più imperdonabili che abbia mai commesso nella mia vita professionale.

Pochi giorni dopo, il 24 aprile, nella chiesa cattolica di Ntarama, regnava un silenzio spettrale. La vista era orribile. Cadaveri sparsi tra i banchi, cadaveri nel recinto che circonda la chiesa, nella boscaglia circostante, nelle paludi del fondovalle. Un massacro.

Quella stessa domenica nella più grande chiesa cattolica di Soweto, in Sudafrica, si cantava. Era cominciata la funzione del mattino. Mancavano tre giorni alle elezioni e il clima era euforico. I fedeli intonavano l’inno nazionale, Nkosi sikelel’ iAfrika, “Dio protegga l’Africa”. Celebravano la vita, la libertà, il futuro.

L’entusiasmo generale contagiava anche i corrispondenti stranieri, e alcuni colleghi si misero a cantare insieme ai fedeli. Sul soffitto della chiesa si vedevano ancora i fori d’ingresso dei proiettili sparati dai soldati bianchi quando davano la caccia ai combattenti per la libertà neri. Le violenze dell’apartheid erano un ricordo sfocato. E il massacro in Ruanda? In quelle ore di gioia a Soweto, non ne sapevamo niente. Non ci sfiorava neanche il minimo presentimento.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Da sapere
In cento giorni

1990-1993 Guerra tra i ribelli tutsi del Fronte patriottico ruandese (Fpr), guidato da Paul Kagame, e l’esercito ruandese.

4 agosto 1993 Firma degli accordi di pace ad Arusha, in Tanzania. Il presidente ruandese Juvénal Habyarimana s’impegna a portare avanti una politica di riconciliazione nei confronti dell’Fpr.

6 aprile 1994 A Kigali viene abbattuto l’aereo su cui viaggiavano Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, il presidente del Burundi.

7 aprile Gli estremisti hutu danno il via ai massacri dei tutsi e degli hutu moderati. Le violenze si diffondono nel resto del paese.

8 aprile L’Fpr comincia a marciare su Kigali.

9-16 aprile Gli stranieri vengono rimpatriati.

21 aprile Per ragioni di sicurezza l’Onu ritira il contingente di caschi blu. Sul campo restano 270 peacekeeper su 2.500.

17 maggio Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ammette che in Ruanda sono stati commessi atti di genocidio.

23 giugno La Francia lancia l’operazione Turquoise, creando una zona sicura per i profughi nel sudovest del paese.

4 luglio L’Fpr conquista Kigali, il governo hutu cade, lo sterminio si ferma.

13 luglio Due milioni di hutu scappano dal Ruanda. Afp


Questo articolo è stato pubblicato l’11 aprile 2014 nel numero 1046 di Internazionale.

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