“Mancano cinquemila rose, perché tante ne abbiamo messe, ma altrettante ne avevamo in più promesse”, scrive in Quale psichiatria? (Alpha Beta 2021) Franco Rotelli, uno dei collaboratori più stretti di Basaglia, per anni direttore dei Servizi di salute mentale (Ssm) a Trieste. Oggi, quando si entra nel parco dell’ex manicomio di San Giovanni, a colpire sono i colori e i fiori. Gli edifici dipinti di giallo e rosso, le finestre e le porte spalancate da cui esce musica jazz e canti stonati, le prove teatrali dell’Accademia della follia che si mescolano nell’aria estiva alle chiacchiere dei triestini seduti al Posto delle fragole, lo storico bar del parco, e tutt’attorno il profumo delle rose. C’è un’aria allegra, anche se sono giorni di tensione per il mondo psichiatrico italiano e soprattutto triestino.
A giugno la conferenza nazionale promossa dal ministro Roberto Speranza è stata disertata dalla Società italiana di psichiatria (Sip) che ne ha contestato il titolo e l’orientamento criticando “il metodo autoreferenziale di scelta degli argomenti senza confronto né discussione”. Il presidente della Sip Massimo Di Giannantonio ritiene che i metodi basagliani siano “superati”. “Forse la scelta di intitolare la conferenza ‘Per una salute mentale di comunità’ deve aver scontentato chi si riconosce in una psichiatria più tradizionale, meno sensibile ai ‘determinanti sociali’ e scarsamente impegnata nell’assistenza sul territorio”, ha ipotizzato Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale di Modena e membro del Consiglio superiore di sanità. A Trieste questa linea di frattura si è rispecchiata nello scandalo del risultato del recente concorso per il rinnovo della direzione del Centro di salute mentale (Csm) di Barcola, aperto da Franco Basaglia nell’omonimo rione. Mario Colucci, psichiatra di formazione basagliana con una ventennale esperienza sul territorio, al primo posto della graduatoria per pubblicazioni e titoli, si è visto scalzare da Pierfranco Trincas, che dal terzultimo posto è salito al primo dopo un breve colloquio a porte chiuse.
Trincas negli ultimi anni è stato direttore del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) di Cagliari, una realtà segnalata nel 2019 dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale a causa dell’uso della contenzione, della presenza di porte chiuse allarmate e di diverse irregolarità nelle procedure dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso). A presiedere il concorso friulano c’era Emi Bondi, direttrice dell’Spdc di Bergamo, dove nel 2019 è morta bruciata Elena Casetto, una ragazza di 19 anni legata al letto in una stanza chiusa a chiave.
L’esito del concorso, difeso dalla Sip, ha suscitato subito reazioni allarmate e ha agitato le comunità psichiatriche internazionali portando alla petizione “Save Trieste’s mental health system”, approdata sulle pagine dell’Indipendent e dell’autorevole British Medical Journal, mobilitando medici e scienziati di tutto il mondo in difesa di un modello recentemente indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità come “sistema complessivo d’eccellenza” al livello mondiale per i servizi di salute mentale di comunità.
La posta in gioco
Ma perché un concorso locale suscita tanta preoccupazione internazionale? In gioco c’è qualcosa di più decisivo e ingombrante: la vita di un modello di cura che da solo costituisce una scomoda anomalia e chiama in causa una certa idea di società e di politica, ma anche di scienza medica, e in definitiva il rapporto tra pubblico e privato.
Che la salute mentale a Trieste e in Friuli Venezia Giulia sia gestita diversamente dal resto d’Italia lo dicono i dati e la storia. Nel rapporto “Salute mentale” del ministero i dati dell’ultimo aggiornamento mostrano alcune differenze che saltano all’occhio. In Friuli Venezia Giulia gli utenti che ricevono una visita psichiatrica entro 14 giorni dal ricovero sono l’88,9 per cento (il 100 per cento per tutte le fasce d’età tranne quella tra i 45-54 anni), contro una media del 20,1 per cento nel Lazio, del 16,5 in Veneto, del 32,8 per cento in Liguria. La percentuale delle persone ricoverate di nuovo dopo sette giorni dalle dimissioni è del 6,9 per cento in Friuli Venezia Giulia, del 9,3 per cento in Piemonte, del 14,8 per cento nel Lazio. Per quanto riguarda i Tso ogni diecimila abitanti, il Friuli Venezia Giulia ha una media molto bassa dello 0,4 per cento, contro l’1,6 per cento della Liguria, il 2,5 per cento dell’Emilia-Romagna, il 3 per cento dell’Abruzzo. Solo per citare alcuni indicatori.
Questi dati hanno una storia e si radicano in un’esperienza oggi liquidata come ideologica, legata a quella rivoluzione degli anni settanta che è ora di lasciarsi alle spalle, magari smantellandola in favore di realtà private più profittevoli. La verità è che il modello psichiatrico triestino non è poi così conosciuto, vuoi per l’ingombrante fantasma di Basaglia, spesso invocato a sproposito, vuoi perché Trieste è sempre stata una città periferica rispetto alle dinamiche della società italiana.
Il modello Basaglia
Forse allora vale la pena di raccontarlo questo modello, per capire perché un parco con un roseto e gli edifici colorati faccia così paura, e perché a lanciare la prima pietra sia proprio la Società nazionale di psichiatria.
“In gioco ci sono due diversi modi di intendere il lavoro nella salute mentale, ma direi anche due diverse idee di società”, spiega Giovanna Del Giudice, psichiatra del gruppo di Basaglia e promotrice della campagna “…e tu slegalo subito” per l’abolizione della contenzione. “Da un lato c’è una psichiatria clinica che si fonda su un paradigma biomedico, una psichiatria del posto letto, e dall’altra invece c’è una pratica che guarda all’individuo come soggetto di bisogni complessi e si basa sui servizi, perché la gente ha il diritto di essere curata in libertà. Che sia scoppiato questo conflitto è un bene, perché chiede alla politica e alla società di schierarsi”.
È d’accordo anche Franco Rotelli: “Le persone che hanno un disturbo mentale non hanno solo bisogno di farmaci e colloqui con lo psicoterapeuta. Hanno bisogno di diritti e di poterli esercitare, hanno bisogno di una casa, di un lavoro, dell’indipendenza economica, di una sfera della sessualità e degli affetti. E questo non è affare solo della psichiatria: perché sia possibile serve un’alleanza con i cittadini e la città, le parrocchie e gli artisti, i giornali, serve un’alleanza globale”.
Ed è su questa alleanza che si fonda il modello basagliano, articolato su tre fronti: quello amministrativo, quello della pratica concreta e quello della pratica artistica. Quello amministrativo è fondamentale perché a Trieste le attività che riguardano la salute mentale non hanno il loro centro nei reparti ospedalieri, come accade nella maggior parte delle città italiane, ma nei Csm che sono realtà organizzate sia per il ricovero sia per le cure ambulatoriali e domiciliari. I Csm a Trieste sono aperti tutta la settimana 24 ore su 24, il che significa avere una vicinanza costante e una conoscenza profonda delle persone con disagio mentale, che rende possibile l’eliminazione totale di qualsiasi coercizione (in Italia ci sono 319 reparti di diagnosi e cura e solo venti non usano la contenzione. Il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione in cui in tutti i servizi della psichiatria non si contengono le persone).
L’unicità di Trieste è che al centro c’è sempre la libertà dell’individuo
Alla base di questo sistema non c’è solo una buona amministrazione, ma anche una pratica concreta il cui obiettivo è rendere autonoma la persona. In gran parte d’Italia, quando un utente esce dal reparto di diagnosi e cura finisce in comunità, dove la situazione si cronicizza e non esce più. A Trieste invece per ogni soggetto si predispone un budget di cura, cioè un percorso economicamente sostenuto che risponda alla domanda: cosa serve a questa persona per rientrare nella società? Si costruisce un progetto sul singolo che parte dai suoi desideri. Per fare questo è fondamentale il lavoro con le cooperative sociali, le istituzioni cittadine, il tessuto urbano.
A Trieste la rete è forte. “Da noi più del 40 per cento dei lavoratori proviene dall’area della salute mentale”, spiega Stefania Grimaldi, operatrice della cooperativa La collina. “C’è il pregiudizio che realtà come le nostre, che hanno a che fare con la salute mentale ma possono anche gestire bar, musei, occuparsi di pulizie o formazione informatica, forniscano servizi di bassa qualità, ma da anni non è più così, altrimenti non stai nel mercato”. Anche questa rete di lavoro è sotto attacco. “È un modello difficile da portare avanti, ma dobbiamo cogliere questa occasione per rinsaldare alleanze storiche, mettere in sicurezza quello che fa parte delle nostre pratiche. Nel percorso di Basaglia le assemblee sono state una pratica fondamentale per gettare le basi del cambiamento ed esercitarlo fino in fondo. Non si trattava solo di buttare giù i muri del manicomio, ma di ridefinire le relazioni di potere perché salute mentale di comunità non vuol dire solo che esistono i servizi e non gli ospedali, ma che la comunità diventa corresponsabile della salute dei suoi cittadini”.
Penso alla parola assemblea e fatico a immaginarla come una pratica efficace per gestire una realtà così complessa, forse lo è stato nei rivoluzionari tempi di Basaglia quando lo scontro tra pubblico e privato era meno feroce. Poi invece, mentre vago nel parco di San Giovanni, sotto l’ombra del caseggiato con la scritta rossa “La libertà è terapeutica” disegnata dall’artista Ugo Guarino – che insieme a Giuliano Scabia fu uno degli artisti che diedero voce alle pratiche basagliane – vedo un centinaio di persone riunite sotto un glicine. Sono psichiatri giovani e della vecchia guardia, utenti, familiari, studenti, qualche infermiere. Cosa stanno facendo? “È un’assemblea autoconvocata”, mi spiega sorridente un giovane operatore sociale conosciuto come Pantxo Ramas. “L’assemblea è sempre stata uno strumento centrale nella vita delle strutture psichiatriche basagliane. Qui la persona con disturbo mentale ha gli stessi diritti dello psichiatra, ma anche gli stessi doveri, tutti devono spiegarsi, raccontarsi, autocriticarsi, nessuno accusa e nessuno si difende”.
Se Foucault aveva descritto lo psichiatra come il “signore della follia”, depositario di un sapere incontestabile, nel cortile dell’ex manicomio triestino è evidente come a essere messa in crisi sia proprio l’idea di un sapere come potere, il controllo del medico sul malato. In ballo è invece l’apertura di uno spazio di espressione dove la malattia mentale riesca a mettere in gioco tutti. “Qui lavorano tre dimensioni: quella del corpo fragile, del corpo curante e del corpo sensibile”, continua Ramas. “Il corpo fragile è costituito dalle persone con disagio, ma la precarietà delle condizioni di lavoro rende fragili anche gli operatori. Il corpo sensibile dovrebbe essere quello degli operatori e dei cooperanti, ma spesso la sensibilità degli utenti è la più sottile. Il corpo curante poi esiste solo dentro una relazione e quindi è sempre molteplice”.
Sotto il glicine, in questa atmosfera di allarme ma anche di grande energia e voglia di fare comunità perché un modello di cura non finisca demolito, le voci si alternano con partecipazione. Conosco Arturo, ha 31 anni ed è entrato in contatto con i servizi di salute mentale quando ne aveva 18: “Posso dire di aver vissuto in prima persona dei momenti di esclusione dalla società, ma da quando sono entrato in contatto con i servizi le cose sono migliorate sempre di più. Per me è stato importante cominciare fin da subito a lavorare, prima in una casa editrice, poi nell’organizzazione di un festival di poesia, poi in un’azienda. Oggi lavoro come addetto alla formazione in una cooperativa sociale per attività di inclusione digitale e progetti culturali, per cui organizzo conferenze internazionali lavorando anche come interprete”, racconta con calore.
“L’unicità di Trieste è che al centro c’è sempre la libertà dell’individuo. Nessuno nega la terapia, ma è sempre negoziata con la persona. Il farmaco è utile, ma da solo non è niente, non riesce a farti superare quel vuoto di relazioni, di significato”, dice Arturo. “Qui il vuoto è colmato grazie a un sistema dove, anche se decidi di non prendere la terapia per un periodo, il servizio ti sta vicino, ti segue, ma senza forzarti a fare nulla. Se alla persona manca una casa per vivere bene, le viene offerta una soluzione abitativa, se manca il lavoro vengono fornite delle opportunità, se manca la socialità, si lavora tantissimo per crearla. E piano piano tu riesci a emanciparti e pesare sempre meno sul servizio. A quel punto sta a te decidere se rimanere all’interno di questo tessuto o uscirne. Io ho scelto di restare qui seguendo un po’ la filosofia racchiusa nel concetto giapponese dell’ikigai, che vuol dire ‘ragione d’esistere’, ciò che ti permette di avere una vita felice in un equilibrio tra le tue vocazioni e la società. Lavorando in una cooperativa sociale faccio delle cose che hanno un’utilità e restituiscono anche un senso di responsabilità etica”.
Un’esperienza dove la scelta, l’esercizio di una responsabilità da parte delle persone è al centro. “Il modello triestino non è una semplice risposta a una difficoltà ma è la creazione di un circuito che va a dare senso a un’esperienza, come quella della malattia mentale, che senso non ne ha. Se tu pensi che i problemi si risolvano con un farmaco, è una risposta molto riduttiva. Anche il discorso della pericolosità sociale si azzera se c’è un sistema che dà senso all’esperienza. La cosa importante è che le crisi, che possono capitare nella vita, siano trasformate in opportunità. Se togli lo stigma e il giudizio le crisi sono energie in movimento, e se riesci a canalizzarle bene possono portarti a una determinazione maggiore e renderti più forte”.
Modelli a confronto
Basterebbero le parole di Arturo a zittire molti discorsi che animano il conflitto tra la Società italiana di psichiatria e realtà basagliane. Basterebbe venire a san Giovanni dove le porte sono aperte, la gente si ritrova a discutere con responsabilità e tutti si raccontano volentieri in un’aria allegra e propositiva. Un’aria molto diversa da quella che si respira in questi mesi nel dipartimento di salute mentale, dove la direzione dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina del Friuli Venezia Giulia ha negato ai suoi dipendenti l’autorizzazione a raccontarci il loro lavoro.
Perché tanta paranoia tra la dirigenza dell’Azienda sanitaria? Perché tanto accanimento contro il modello triestino? “Perché è un modello difficile”, dice Rotelli. “Studi medicina per anni sognando di indossare un camice, poi diventi psichiatra e capisci che il camice non serve a niente, che la psichiatria ha uno statuto epistemologico debole e allora devi guardarti dalla tentazione di sostituirlo con il potere. La politica guarda alle persone fragili pensando ‘dove le metto?’, perché dove li metterai produrrai denaro. Invece qui ci si è sempre interrogati sul ‘cosa ci faccio insieme?’, che è una domanda che produce complicazioni. A Trieste è stato possibile dimettere le persone dai manicomi perché siamo andati fuori con loro, noi psichiatri e infermieri: non abbiamo scaricato il peso sulle famiglie ma non abbiamo nemmeno scaricato i malati. Abbiamo costruito servizi”.
Per capire quanto il modello triestino sia lontano da quello del resto d’Italia basta ascoltare le parole di Pierfranco Trincas, il vincitore del concorso: “Intendo lavorare moltissimo con i pazienti” dice il neodirettore del Csm, rispondendo alle mie domande sulle novità che vuole portare a Trieste. Colpisce l’uso disinvolto del termine “pazienti” che nelle realtà del Friuli Venezia Giulia non si sente pronunciare da almeno quarant’anni tra gli operatori della salute mentale. Una differenza minima che però sottintende una consapevolezza tutt’altro che secondaria. “Vorrei migliorare i servizi per le famiglie, come ho fatto a Cagliari, dove ho istituito dei consulenti legali perché i pazienti possono creare dei problemi. Voglio fornire alle famiglie assistenti con varie competenze, perché spesso i pazienti hanno bisogno di essere amministrati. E poi vorrei istituire un ricovero solo di volontari, perché spesso il paziente chiede di essere ricoverato, e spesso questo è un sollievo per lui e per la famiglia”. Per ricovero Trincas intende quello ospedaliero. “Noi cerchiamo di umanizzare il reparto, per esempio permettendo ai familiari di entrare, di passare del tempo in giardino dove i pazienti possono liberamente fumare, facciamo anche delle piccole feste per i compleanni”.
Un modello di salute psichiatrica che suona semplicistico rispetto a quello triestino. Ma allora perché quest’ultimo non si è diffuso in tutta Italia nei più di quarant’anni trascorsi dalla legge 180? Giovanna Del Giudice sorride: “L’esperienza triestina è nata sotto una buona stella. Basaglia e noi che lavoravamo con lui volevamo cambiare un pezzo di mondo. Lavoravamo perché non ci fosse distanza tra i cambiamenti nel nostro privato e quelli del nostro lavoro. Questo è un mestiere faticoso perché presuppone una grande responsabilità nei confronti della singola persona con un disturbo mentale, della sua famiglia, del gruppo di lavoro in cui è inserito, è una responsabilità che significa un impegno professionale, umano e etico che costa tanto e non finisce quando scadono le ore. E non parlo di volontariato o buoni spiriti, ma di responsabilità. Non a caso le persone che hanno lavorato a Trieste non hanno mai fatto professione privata”.
Quello che si capisce subito visitando la zona franca che è san Giovanni, ma anche i Csm dove l’Azienda sanitaria ha messo i bavagli alle persone anche se a parlare sono le pratiche e i numeri, è che a Trieste la salute mentale funziona perché c’è una continua chiamata a uscire dai ruoli per un servizio più ampio, più tarato sui bisogni del singolo. E come tutti i modelli che lavorano sulla complessità della vita è faticoso. Anche se gli operatori dei Csm non sono autorizzati a parlare, i luoghi dicono molto, raccontano che le terapie farmacologiche sono le stesse e note ovunque, mentre a fare la differenza è la capacità di mettere non solo la malattia mentale ma anche il proprio ruolo tra parentesi. Perché il farmaco può avere una potenza estrema nel silenziare la malattia, ma allora si apre un vuoto che va riempito di senso, altrimenti è un inferno. E la psichiatria, è opinione condivisa da queste parti, non può essere ridotta al sapere medico, che oggi appare sempre di più basato su farmacologia e ricerche genetiche.
Il prevalere di una cultura tecnica e del profitto sta portando a un cambio di paradigma, ma stare male non è semplicemente uno squilibrio biochimico, è una situazione che riguarda l’individuo nella sua interezza e complessità, e proprio per questo richiede che non ci siano deleghe alla psichiatria ma che i problemi vadano affrontati attraverso la costruzione di un sapere e di pratiche condivise. Come accade a Trieste. Ed è per questo che nel lasciare il parco di san Giovanni, attraversando il roseto che fiorisce nella pietra carsica, penso alle cinquemila rose che ancora mancano e che, come scrive Rotelli, chiamano “un tempo altro, una generazione altra, una nuova fatica, una nuova energia, un nuovo amore: uomini e donne capaci di ascoltare i rumori delle vite (e toccare la terra e bagnare le rose e cambiare le cose)”.
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