Lungo la strada che collega Gerusalemme a Gerico, superato il villaggio palestinese di Anata, e all’altezza della colonia israeliana di Ma’ale Adumim, sulla sinistra un viottolo polveroso di pietrisco e sabbia s’inerpica su una collinetta.
“Gli israeliani non ci permettono di costruirci una strada”, spiega Abu Sulaiman guidando con mano esperta il suo fuoristrada che sobbalza a margine del precipizio. Dall’altro lato del viottolo si stende un campo ricoperto di tronchi di albero chiari e levigati, mozzati a dieci o venti centimetri da terra.
“Quindici anni fa ci hanno tagliato gli alberi e non abbiamo più potuto farli ricrescere”, continua Sulaiman. Il viottolo si srotola dall’altra parte della collinetta e conduce a uno slargo in una stretta vallata arsa dal sole. Intorno sorgono basse baracche di legno e lamiera, un paio di piccoli prefabbricati, un recinto per gli animali. È la comunità beduina di Khan al Ahmar, dove vive la tribù dei jahalin.
Accampamenti come questo punteggiano le vallate su entrambi i lati della strada tra Gerusalemme e Gerico. Sono piccoli centri abitati, dove vivono tra le cento e le mille persone. Sorgono su terreni aridi, tra pietre e sterpaglie, sovrastati dalle colonie israeliane, che negli ultimi decenni si sono moltiplicate tutto intorno. In lontananza svetta Ma’ale Adumim, la terza colonia più grande della Cisgiordania.
“L’ultima colonia l’hanno costruita un paio di mesi fa e non ha ancora un nome”, dice Abu Ra’id, il capo villaggio, indicando la sommità di una collina dove si scorgono un paio di case mobili. Ogni insediamento israeliano è raggiunto da una strada asfaltata. I tralicci dell’elettricità passano sopra le baracche dei beduini e convergono verso le colonie. “Noi non abbiamo diritto all’elettricità né all’acqua corrente, che sono riservate agli israeliani”, prosegue Abu Ra’id. “Possiamo fare affidamento solo su un generatore e una cisterna”.
“Siamo sotto ordine di demolizione e appena gli israeliani vedono arrivare da noi un veicolo con un pannello solare o del materiale da costruzione intervengono” dice Abu Ra’id. Dato che gli accampamenti si trovano nell’area C, la zona della Cisgiordania sotto il controllo civile e militare degli israeliani, i beduini non possono costruire nuove abitazioni né migliorare quelle esistenti né coltivare le terre.
A Khan al Ahmar, come negli altri accampamenti beduini, non ci sono costruzioni in muratura. Intorno allo spiazzo centrale si svolge la vita collettiva della comunità: qui c’è il recinto per gli animali e la tenda più grande, dove gli uomini si riuniscono. Più in là ci sono le baracche per le famiglie: vicine le une alle altre, con interni bui e stretti e patii comunicanti, dove le donne passano gran parte del loro tempo.
Radici strappate
I beduini della tribù araba jahalin si trasferirono in questa zona all’inizio degli anni cinquanta, dopo essere stati espulsi dalle loro terre nell’area di Tal Arad, nel deserto del Negev (conosciuto in arabo come Naqab) in seguito alla nascita dello stato di Israele nel 1948.
La popolazione indigena beduina abitava nel deserto fin dal settimo secolo, dedicandosi soprattutto alla pastorizia e all’agricoltura ed era organizzata in un sofisticato sistema tribale. Nel 1946 il loro numero era stimato tra 57mila e 95mila persone.
Dopo il 1948, l’88 per cento dei beduini fu espulso e in molti ricevettero lo status di rifugiati dall’agenzia delle Nazioni Unite per l’aiuto e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), ma invece di entrare nei campi profughi decisero di insediarsi in piccoli gruppi in zone isolate della Cisgiordania ricche di risorse naturali, dove poter mantenere il loro stile di vita seminomade e basato sulla pastorizia, che praticavano portando le greggi ad abbeverarsi alle sorgenti di acqua che costellano questo lembo della valle del Giordano.
Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i militari limitarono sempre più il loro accesso ai pascoli. Alcuni terreni furono dichiarati zone militari e altri riserve naturali. Molte famiglie persero la loro principale fonte di reddito. Pian piano furono spinti a ridosso della strada che collega Gerusalemme e Gerico. In seguito alla costruzione dell’insediamento di Ma’ale Adumim negli anni ottanta, circa mille beduini furono nuovamente espulsi in tre fasi, nel 1994, nel 1997 e nel 1998.
Un progetto contestato
Nelle loro terre ancestrali nel deserto del Negev sono rimasti circa 160mila beduini. In gran parte sono cittadini israeliani e hanno anche prestato il servizio militare, ma il governo israeliano li considera come “trasgressori” e ha cancellato i loro villaggi, definiti “abusivi”, da tutte le mappe ufficiali.
Secondo uno studio di B’Tselem, il centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati, oggi, nella zona di Ma’ale Adumim, vivono circa tremila beduini in una ventina di accampamenti. La metà sono bambini.
Oggi i jahalin rischiano una nuova espulsione come quella del 1948
Le loro comunità soffrono di una grave insicurezza alimentare e il 34 per cento della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari, contro il 24 per cento del resto dei palestinesi residenti nella stessa area. Molti sono costretti ad accettare lavori temporanei e non tutelati nelle vicine colonie israeliane. I beduini sono i cittadini più poveri di Israele: il 67 per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà.
“Noi cerchiamo comunque di portare avanti le nostre tradizioni”, insiste Abu Ra’id mostrando il buco nel terreno dove la comunità cuoce carne e verdure, il prefabbricato con la toilette donato dalla comunità europea e una stanza aperta su due lati dove i bambini più piccoli possono giocare e studiare.
Oggi i jahalin, insieme alle altre comunità beduine palestinesi, in tutto circa settemila persone, rischiano una nuova espulsione. Il piano E1 è un progetto di sviluppo urbanistico che nelle intenzioni di Israele dovrebbe creare una continuità territoriale tra la colonia di Ma’ale Adumim e Gerusalemme, restringendo ulteriormente il passaggio tra la parte settentrionale e quella meridionale della Cisgiordania.
Il piano prevede di dividere il territorio in tre parti: quella a nord di Gerusalemme, quella a sud (la zona che comprende Betlemme e Hebron) e quella intorno a Gerico, completamente isolata. La zona interessata dal piano riguarda 1.200 ettari di terra, che sono indicati come “terreni dello stato”, su cui Israele ha già avviato progetti infrastrutturali. Il piano E1 sarà realizzato dopo l’approvazione dei diversi progetti che lo compongono, tra i quali c’è la costruzione di quattromila unità abitative per i coloni israeliani in quest’area. I lavori nella zona hanno già costretto centinaia di beduini ad abbandonare le loro case.
È prevista anche la chiusura della strada tra Gerusalemme e Gerico: i trenta chilometri che dividono le due città diventerebbero molti di più, costringendo i palestinesi a un percorso attraverso le montagne. In questo modo Israele potrebbe espandere il suo controllo sulla valle del Giordano.
“Per Israele è fondamentale controllare la valle del Giordano, non solo per la ricchezza delle risorse naturali, ma anche perché il territorio rappresenta l’unica frontiera esterna di un ipotetico stato palestinese”, spiega Rashed Sawaffa, del Jordan valley solidarity movement, un gruppo che sostiene le comunità locali della zona. Le terre private dei palestinesi chiuse all’interno del piano E1 saranno circondate dalle colonie israeliane e saranno inaccessibili ai loro proprietari, che non potranno coltivarle.
Violazioni dei diritti umani
Per i beduini, il piano E1 prevede il trasferimento in tre zone edificate, Tal al Nueimeh, a nord di Gerico, Fasayil, nella parte centrale della valle del Giordano, e il villaggio di Al Jabal, che si trova su una collina tra la città palestinese di Azariya e la colonia di Ma’ale Adumim. Ad Al Jabal vivono già 1.500 persone, che fanno parte delle duecento famiglie insediate con la forza in tre ondate a partire dal 1997.
“Per noi che siamo abituati a vivere all’aria aperta con i nostri animali, andare ad abitare in quel villaggio equivale ad andare in prigione”, si lamenta Abu Ra’id. “Israele cerca di convincere noi e l’opinione pubblica che vogliono trasferirci per il nostro bene, perché qui viviamo male e ci vogliono mettere in appartamenti confortevoli con l’aria condizionata. Allora noi gli diciamo: ‘Rimandateci nella nostra terra da cui ci avete cacciato nel 1948’”.
Uno studio condotto dall’Unrwa e dall’organizzazione non governativa israeliana Bimkom ha definito Al Jabal non sostenibile dal punto di vista sociale ed economico. La porzione concessa a ogni famiglia non comprende lo spazio per gli animali e gli appartamenti non si adattano allo stile di vita dei beduini, che prevede migrazioni stagionali e pastorizia.
I trecento ettari di terra concessi agli abitanti si trovano lungo il confine con la colonia di Ma’ale Adumim e in parte sono zona militare, ad accesso vietato. Oggi solo il 30 per cento degli abitanti ha ancora animali, gli altri dipendono dall’aiuto di familiari che lavorano come operai negli insediamenti vicini.
I bambini curano il terreno insieme ai genitori, fiduciosi di veder crescere le piantine
Al Jabal inoltre è stato costruito vicino alla discarica di Abu Dis, la più grande della Cisgiordania, che dal 2011 riceve ogni giorno quintali di rifiuti da Gerusalemme. Nella discarica è stata segnalata la presenza di gas tossici, che rappresentano un pericolo per la salute dei residenti, ma possono anche causare incendi durante la stagione calda o disperdersi nel terreno quando piove, inquinando il terreno e avvelenando gli animali.
Lo scorso maggio il coordinatore delle operazioni umanitarie dell’Onu nei Territori palestinesi occupati, James W. Rawley, e il direttore delle operazioni dell’Unrwa in Cisgiordania, Felipe Sánchez, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta in cui chiedono a Israele di fermare il trasferimento forzato della popolazione beduina, che rappresenta “una grave violazione della quarta convenzione di Ginevra” sulla protezione dei civili in situazioni di guerra, e che in futuro potrebbe determinare “diverse violazioni dei diritti umani”.
Lo sguardo verso il futuro
Secondo Abu Ra’id, le denunce internazionali e i tentativi di organizzare un confronto con i rappresentanti del governo israeliano finora non sono serviti a niente. E le comunità beduine non ricevono nemmeno sostegno dall’Autorità palestinese, che comunque non ha potere nell’area C.
“Qui noi siamo gli unici a difendere ancora la terra in nome dei palestinesi. Se non fosse per noi gli israeliani avrebbero già costruito colonie dappertutto”, afferma Abu Ra’id. “Eppure l’Autorità palestinese non fa niente per noi, tutti i soldi vanno a Ramallah. Ci dicono di restare qui e di non arrenderci. Ma io resisto dal 1948, mentre loro se ne stanno nei loro comodi uffici”.
Per opporsi al trasferimento forzato, i giovani di Khan al Ahmar stanno cercando di realizzare nella loro comunità un progetto di turismo alternativo, sotto la guida di Abu Sulaiman e del suo Jerusalem bedouin cooperative committee.
Un ragazzo ha già ottenuto la tessera di guida turistica dal ministero del turismo palestinese, e altri tredici stanno seguendo il corso di formazione per averla. “L’idea è rimettere a posto la tenda principale del villaggio per farci dormire i turisti e poi portarli in visita nelle altre comunità e nel deserto”, spiega Abu Sulaiman. “Potrebbero arrivare scolaresche dai villaggi palestinesi e dai campi profughi e sarebbe anche un modo per far conoscere la nostra cultura e tramandare le nostre tradizioni artigianali, come la fabbricazione di tessuti, tappeti e gioielli”.
L’arsura del pomeriggio estivo si abbatte su Khan al Ahmar e solo qualche albero con poche foglie offre un riparo dai raggi del sole. Sotto la tenda che un giorno dovrebbe ospitare i turisti però l’aria si mantiene più fresca, grazie ai tappeti e ai tendaggi della tradizione beduina che ne adornano il pavimento e le pareti.
Anche nella zona del villaggio riservata alle donne e ai bambini gli abitanti cercano di combattere il caldo estivo usando edere e fiori per creare dei ripari. In una zolla di terra davanti a una baracca i bambini hanno piantato dei semi e messo delle pietre a indicare di non passarci sopra. Il terreno è crepato e secco, ma i bambini se ne prendono cura insieme ai loro genitori, fiduciosi di veder crescere le piantine.
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