Una sera piovosa di maggio a Macao c’è un poetry slam, ma quando arrivo è ancora presto e la sala principale è quasi vuota. Ha appena smesso di piovere. La luce delle lampade appese alle colonne decorate, in corrispondenza con il ballatoio del secondo piano, si mescola al chiarore che ancora filtra dal lucernario. Dietro al bancone del bar un ragazzo sta cambiando un fusto di birra; dall’altro lato della sala, un uomo comincia ad allestire il palco.
È straniante vedere questo spazio occupato, sempre così pieno di vita, immobile e silenzioso. Ed è doloroso pensare che potrebbe rimanere così per molto tempo – sgomberato. Ma è una possibilità contro la quale Macao sta lottando, provando a coinvolgere l’intera città con un’idea innovativa.
Per capire cosa sta succedendo, e perché questa vicenda non riguarda solo Milano, bisogna fare un passo indietro.
Come siamo arrivati fin qui?
Il 5 maggio 2012, centinaia di persone occuparono un grattacielo vuoto a due passi dalla stazione centrale di Milano, la Torre Galfa. Era l’atto di nascita e la prima incarnazione di Macao – nuovo centro per le arti, la cultura e la ricerca: e il gesto ebbe una fortissima rilevanza simbolica. Era un guanto di sfida non solo ai proprietari (il gruppo Ligresti) ma a un intero modo di pensare lo spazio urbano.
Per citare il collettivo stesso: “Un grattacielo vuoto, inerte, inutile al tessuto sociale, simbolo prepotente delle logiche insensibili della speculazione edilizia viene restituito alla città, riscattato da una moltitudine di cittadini che vogliono dimostrare come si possa immaginare e costruire una capacità cooperante di fare arte, cultura e ricerca”.
Torre Galfa fu sgomberata nel giro di dieci giorni; Macao occupò palazzo Citterio, un altro stabile abbandonato, stavolta a Brera, in pieno centro; anche palazzo Citterio fu sgomberato. Ma il collettivo resisteva, sostenuto da un certo entusiasmo diffuso e da una curiosità più generale.
La qualità dell’offerta culturale di Macao è innegabile. Ma il suo destino è sempre in bilico
Il 16 giugno 2012 Macao trovò casa occupando l’ex Borsa del macello di viale Molise, dove mi trovo ora: una magnifica palazzina liberty, lungo la parte est della circonvallazione esterna.
Da un lato questo ha segnato un arresto al processo di occupazioni-blitz che metteva in evidenza i luoghi abbandonati di Milano. Dall’altro, ha concentrato l’attenzione del collettivo su uno solo di essi: in questi anni lo spazio è stato rimesso in ordine (e in sicurezza, basti pensare all’immediata sostituzione del lucernario in vetro con del plexiglas), ed è stato gestito in modo partecipato e aperto.
Un edificio di notevole valore architettonico ma lasciato in stato d’abbandono è stato riportato in vita, anche esteticamente. Macao è bello, di una bellezza sospesa, con un tocco labirintico: i corridoi si aprono in nuove stanze, al pianterreno come al primo piano, allestite come sala prove, caffè letterario o come officina. Al livello più alto si trovano due hangar impressionanti, sotto il tetto sostenuto da archi di cemento.
Nei suoi cinque anni di attività, Macao ha ospitato concerti, laboratori, un festival “dentro l’editoria”, eventi di ogni genere legati al teatro, al cinema e alla letteratura, ha condotto un’inchiesta su chi ha lavorato durante l’Expo 2015, ha fondato una rivista, promosso seminari, collaborato con università. La qualità e la continuità dell’offerta culturale sono innegabili. Lo stesso comune aveva lasciato cadere qualunque progetto di sgombero. Ma il destino di uno spazio occupato, purtroppo, è sempre in bilico.
Per Macao le cose si sono complicate nel febbraio scorso. L’azienda partecipata dal comune di Milano che gestisce i mercati agroalimentari e possiede lo spazio, la Sogemi, ha sollecitato uno sgombero al fine di vendere la palazzina. Alle spalle della decisione non c’è però un progetto preciso, bensì una semplice questione finanziaria: Sogemi deve fare cassa per ristrutturare l’azienda.
Del resto, esisteva un precedente. Oltre a possedere altre palazzine di viale Molise in stato d’abbandono, la cattiva amministrazione di Sogemi ha messo nei guai anche il festival Market Sound (sempre a Brera). Come ha notato Andrea Cegna sul manifesto, “dopo due estati di grandi concerti in un’area dell’Ortomercato milanese, la corsa all’incasso ha spinto Sogemi a chiedere a Punk For Business (la società che ha organizzato Market Sound) un affitto circa sei volte più alto rispetto al 2016. Un costo insostenibile per gli organizzatori”.
Il 10 maggio 2017, il presidente di Sogemi Cesaro Ferrero ha presentato un piano di rifacimento per l’intera area dell’ortomercato, chiedendo una delibera entro la pausa estiva.
Due settimane prima, intervistato da Radio Onda d’Urto, aveva ribadito peraltro che la responsabilità della decisione finale sulla palazzina di viale Molise è del comune di Milano. La giunta stessa si era detta disposta al dialogo; e di questa apertura aveva subito approfittato Macao, giocando al rilancio e suggerendo di acquistare l’edificio.
Una proposta scandalosa
Lo stesso collettivo definisce “scandalosa” l’iniziativa: perché rompe la dialettica occupazione-sgombero, blocca la speculazione su un valore creato dal basso e supera soluzioni intermedie in cui il comune si riprende lo spazio occupato in cambio di un altro.
Con questo obiettivo, Macao vuole adottare il modello creato dal Mietshäuser Syndikat di Berlino. “Si tratta di una realtà cooperativa che organizza l’acquisto collettivo delle proprietà occupate”, mi spiega Alessandro Lariccia. Siamo seduti al tavolo di una stanza nel retro della sala principale, e ci sono anche altri due attivisti, Emanuele Braga e Diego Weisz. Le sigarette bruciano nel posacenere. Dalla porta chiusa filtrano le prove vocali del poetry slam; fuori ha ripreso a piovere.
“Dopo quasi trent’anni di attività, ora il Syndikat possiede 124 immobili”, prosegue Alessandro. “Il che garantisce anche una forza contrattuale e un’autorevolezza. Quando si è profilata l’ipotesi della vendita della palazzina, abbiamo pensato di portare in Italia una modalità che, attraverso il diritto privato, rende un bene realmente comune”.
Nel dettaglio, succede che per ogni acquisto Syndikat e l’associazione di occupanti creano una società a responsabilità limitata che compra l’immobile con un vincolo chiave: la proprietà non sarà più vendibile, l’immobile viene di fatto strappato alle logiche del profitto e della speculazione commerciale.
“In generale”, puntualizza Emanuele, “la vocazione del Mietshäuser Syndikat è di togliere per sempre uno spazio dal mercato. Dal punto di vista finanziario, il 30-40 per cento del capitale necessario è raccolto con i prestiti diretti delle persone interessate al progetto. Il resto viene chiesto a una banca tedesca. E funziona: dei 124 progetti lanciati finora, solo uno ha fallito”.
Peraltro, già nel 2014 Macao aveva avviato un tentativo di dialogo con il comune, presentando un’interessante bozza di delibera per “la cura, la rigenerazione e la riattivazione degli spazi urbani”, coinvolgendo i cittadini interessati. A Napoli è avvenuto qualcosa di simile con la delibera 446 del 1 giugno 2016, che ha regolarizzato sette spazi riconoscendoli “beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e come tali strategici”. A Milano, invece, le istituzioni sono rimaste sorde davanti alla proposta di Macao.
(Una parentesi storica: un primo approccio in questa direzione era stato promosso dalla Carta di Milano del Leoncavallo, quasi vent’anni fa. Il centro sociale occupato più famoso della città proponeva di “uscire dalla dinamica perdente conflitto–repressione–lotta alla repressione” ed “entrare in un panorama diverso, in cui il conflitto sociale sia portatore di progettualità”. L’intero testo merita una rilettura, con un’ombra di tristezza: al Leoncavallo si aspetta ancora che tutto ciò si concretizzi. La giunta precedente aveva cercato di regolarizzarlo, ma senza riuscirci. Al momento il centro continua a ricevere proroghe di sfratto e null’altro).
“Rivoltare il diritto”
La notizia più recente è che il comune di Milano ha convocato Macao a un primo tavolo di confronto, lo scorso 23 maggio. “Considereremmo questo incontro positivamente”, dice il collettivo in una nota, “se non sapessimo che il progetto di vendita da parte di Sogemi è in atto e non ha ancora subìto nessuna battuta d’arresto da parte del comune”. E aggiunge: “Questo processo, se portato fino in fondo, vanificherebbe l’apertura stessa del dialogo. Riteniamo quindi che Macao sia ancora in una situazione di pericolo”.
Il gruppo vuole proseguire per la sua strada. Il passo successivo sarà dunque la costituzione formale dell’associazione che proporrà l’acquisto dell’immobile con Mietshäuser Syndikat. Poi si tratterà di costruire i modi di interazione fra la società a responsabilità limitata e la gestione effettiva di Macao.
“Uno dei nostri princìpi è che il bene comune vada gestito in modo libero e fluido”, sottolinea Alessandro, “tramite il metodo del consenso collettivo. E questo deve restare. Anzi: l’idea è che una persona entri nell’associazione non solo per dare sostegno economico, ma con la finalità politica di partecipare direttamente al suo sviluppo. Per quanto riguarda le forme in cui ciò avverrà, il terreno appunto è ancora aperto”.
Al momento, più di 1.800 persone hanno aderito all’iniziativa. Il consenso potrebbe e dovrebbe essere ulteriormente allargato: e al momento, visti i tempi stretti imposti dalla Sogemi, questa sembra la priorità. Parlando – dalla porta il volume delle voci aumenta progressivamente, la serata è iniziata – non posso evitare una domanda.
Se le trattative affondassero e il comune offrisse un altro spazio da gestire, come si comporterà Macao? Risponde Diego: “La possibilità va contemplata. Il nostro principio è che deve essere l’assemblea a decidere tramite consenso, quindi la scelta sarà rimandata a quel momento. Ciò detto: ci sono molte realtà che quando vengono sgomberate gestiscono la situazione e magari occupano un altro spazio. Qui il tentativo è diverso: oltre che sulla gestione dello spazio, vogliamo prenderci la possibilità di intervenire sulle norme”.
Ecco il nodo cruciale. La mossa di Macao è importante perché ha una precisa valenza politica: si tratta di “rivoltare il diritto”, come viene detto nel comunicato. Pensare che si tratti solo di un sotterfugio per salvare uno spazio indipendente è peccare di miopia.
Commenta ancora Diego: “Negli anni abbiamo fatto un lungo lavoro teorico su diritto e beni comuni; questo gesto è la sua naturale prosecuzione. E ora dobbiamo mostrare a realtà anche lontane dai movimenti che le nostre pratiche funzionano. Così andò nel 2012 con l’occupazione di Torre Galfa: attorno a sé richiamò una quantità di persone diversissime, che non c’entravano nulla con il movimento storico delle occupazioni. Ma per gestire direttamente uno spazio occupato bisogna rompere il sistema di leggi vigenti: proprio perché stai cercando di affermare qualcosa che sta al di là di tale sistema”.
Dunque alla dialettica legalità-illegalità andrebbe sostituito un concetto diverso, quello di legittimità. “Perché se c’è qualcosa di legittimo che si manifesta e ha senso, ma è illegale”, dice Diego, “allora il difetto probabilmente sta dalla parte della legalità”. Di certo il discorso non è riducibile alla mera questione poliziesca, come ha cercato di fare il consigliere di Forza Italia Fabrizio De Pasquale: parlare solo di “abusivismo” è un triste paradosso, nel paese degli abusi edilizi.
Non si tratta di scappatoie benaltriste: si può essere critici finché si vuole, ma bisogna avere onestà intellettuale e riconoscere quanto fatto da Macao nella sua storia; quanto spazi del genere abbiano un ruolo nella produzione di cultura e socialità.
La sfida di Macao aiuta anche a ribaltare il discorso che molti fanno sul degrado e il decoro pubblico
C’è dell’altro. A Milano, almeno negli ultimi vent’anni, è emersa una dinamica più sottile fra creatività autogestita e processi di gentrificazione. Invece di andare a “muso duro” contro la scena underground e squat, la si può blandire come fattore di rivalutazione economica: si lascia che ridia vita a un quartiere, e poi ce se ne appropria. Quello che è successo nel quartiere Isola è un caso da manuale di questa dinamica.
“Occupare non può essere un gesto assimilabile alla retorica degli speculatori e delle istituzioni”, spiega Emanuele accendendosi l’ultima sigaretta. “Non può essere usato per far lievitare il valore economico di un luogo e magari di un intero quartiere, come vorrebbero i primi. Né può essere ridotto a illuminare un problema per poi lasciarlo nelle mani dei secondi, perché le amministrazioni proveranno a riprodurre i nostri metodi, con tutta la retorica che ne consegue (la cittadinanza attiva, i tavoli d’incontro collettivi, l’associazionismo), ma faranno finire tutto nel nulla. Il nostro metodo e i nostri processi non sono replicabili così facilmente, sulla base di due o tre coordinate”.
Saluto ed esco. Nella sala principale di Macao, ora immersa nel buio e illuminata solo da grandi fasci di luce bianca, un centinaio di persone assistono silenziose a una lettura di poesia.
Quale modello per il futuro?
Per comprendere meglio la posta simbolica e materiale in gioco, è bene ricordare che a Milano ci sono più di 250 immobili abbandonati. Senza nemmeno entrare nel doloroso tema degli alloggi popolari sfitti – e delle molte famiglie senza casa – credo che il gesto di Macao aiuti anche a ribaltare il discorso che molti fanno sul degrado.
Da tempo si è sviluppata un’ossessione dei mezzi di informazione nei confronti del decoro pubblico, di cui è espressione anche la cosmesi decisamente classista contenuta nel decreto Minniti sulla sicurezza. Una cosmesi che si concretizza sia nei controlli mirati della polizia nei confronti di certe fasce di popolazione (come quello avvenuto il 2 maggio alla stazione centrale), sia nella ridefinizione delle priorità di gestione urbana.
In sostanza, c’è molto più “degrado” in un mendicante per strada che in decine e decine di spazi inutilizzati. Un paradosso in realtà solo apparente, perché tali “buchi” sono figli di un modello di sviluppo urbanistico – tutto giocato sul terreno finanziario – che li trova poco rilevanti per i suoi interessi.
La sfida storica delle occupazioni è di reagire a tutto questo, riappropriandosi degli spazi abbandonati senza attendere una risposta istituzionale. La sfida attuale di Macao è quella di correggere il tiro di questa impostazione producendo un nuovo campo normativo. Cos’è realmente un bene pubblico? Può un autogoverno informale ricreare le regole comunali? Sono domande che Macao ha avuto il merito di porre di nuovo, non su libri di testo ma con tutta l’urgenza di uno spazio fisico da preservare – e di tutti i corpi che l’hanno abitato e frequentato.
Sulle difficoltà di porre questo tipo di questioni, Emanuele ha un punto di vista molto interessante. Il problema non è tanto di ordine legale quanto culturale; una sorta di blocco dell’immaginario: “C’è qualcosa nella forma mentis delle persone, per cui determinate soluzioni sembrano quasi impensabili. Se non hai i soldi o non fai la domanda giusta al bando giusto, allora la città non è tua; e se fai qualcosa di illegale, come occupare, allora rientri in un regime simbolico di senso di colpa. Uscire da questi vincoli è importantissimo. Se ci fosse una massa critica in grado di esprimere questo cambiamento, allora potrebbe anche trasformare il diritto. Ma il problema, ripeto, è culturale”.
Tutto si gioca su due concezioni opposte di città: una conservatrice, l’altra più inclusiva e flessibile
Da qui passa la linea di resistenza non solo di Macao, ma di tante altre iniziative che vogliono opporsi a una gestione della città fondata sulla mera massimizzazione del profitto, o comunque su logiche di carattere commerciale. Fra le più recenti penso a Trotto bene comune, che vuole progettare il futuro di una vasta area dismessa di Milano a partire dal basso: anche in questo caso si tratta di “ribaltare il diritto”.
In attesa di trovare delle risposte efficaci e che non disperdano il patrimonio di lotte acquisito, tutto si gioca su due concezioni opposte di comunità: una più rigida e conservatrice, l’altra più inclusiva e flessibile; una seduta su un modello preconcetto di legalità (che ignora ben altre e più tragiche illegalità), l’altra interessata alla produzione di norme diverse e sostenibili.
Macao è uno degli snodi in cui tale processo di rinnovamento politico, urbanistico e sociale sta cercando di passare; non guarda solo al presente, ma soprattutto al futuro. Il fatto che tutto questo succeda a Milano – città dove la risposta istituzionale è sempre stata quella dello sgombero – lo rende ancora più significativo.
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