“All’inizio del decennio la situazione della città era drammatica. La crisi globale si combinava con quella locale, culminata nello scandalo dei rifiuti. I cittadini erano avviliti, lo spirito pubblico mortificato… Umiliazione, ecco forse questa è la parola adatta. La crisi dei rifiuti aveva esposto la città al ludibrio mondiale. Eravamo irrisi da tutti. Gli stereotipi e i pregiudizi, già abbastanza spessi, si erano irrobustiti. Un’insegnante dell’istituto francese di cultura, che abitava qui da anni, mi raccontò di aver deciso di andarsene, non per la crisi e nemmeno per la qualità dei servizi che peggiorava, ma perché le relazioni umane erano cambiate, erano diventate aspre, violente…”.
Il racconto di Napoli è come imprigionato nella traiettoria di un pendolo, oscilla continuamente dalle tenebre alla luce, dall’abisso alla redenzione e viceversa. È un filtro che negli ultimi tempi vediamo applicato ben oltre i confini napoletani (da quanto dura e per quanto andrà avanti il racconto di un’Italia stretta tra declino annunciato e rinascita possibile?); ed è quindi inevitabile che se ne servano anche i politici, soprattutto quando si sentono ben saldi sulla sponda giusta, quella luminosa e rassicurante della ripresa economica, del risveglio delle coscienze e via discorrendo.
Gaetano Daniele, detto Nino, non fa eccezione e ricorre con naturalezza alla retorica del pendolo per descrivere i suoi tre anni di lavoro come assessore alla cultura e al turismo della città. Napoletano, 63 anni, una laurea in filosofia all’università Federico II, Daniele è stato consigliere comunale dal 1977 al 1993 con il Pci/Pds, poi consigliere regionale per dieci anni con il Pds; infine, dal 2005 al 2010, sindaco di Ercolano, la città degli scavi alle pendici del Vesuvio, dove tra l’altro ha inaugurato il Mav, il Museo archeologico virtuale. Lo intervisto nel suo ufficio al primo piano di palazzo San Giacomo.
Nella giunta di Luigi de Magistris è entrato per sostituire Antonella Di Nocera, battagliera animatrice di un’associazione culturale di periferia, poi caduta in disgrazia presso il sindaco, come quasi tutti gli esponenti di quella prima giunta, e sostituita dopo un paio d’anni di mandato.
L’orgoglio e la ricostruzione
“Dal momento del mio insediamento, nel giugno 2013”, continua Daniele, descrivendo idealmente lo spostamento del pendolo dal buio verso la luce, “i due cardini della mia attività sono stati l’orgoglio e la ricostruzione della comunità. Vede quella locandina?”, indica la parete alle mie spalle. “Era un’iniziativa che si chiamava ‘L’orgoglio è un pensiero pensato a Napoli’, in cui si discuteva di Giordano Bruno, Tommaso d’Aquino, Vico, Campanella, lo stesso Croce… Tra l’altro in quel periodo era appena stato completato il restauro del complesso conventuale di San Domenico Maggiore. Ci facemmo anche la prima edizione di Piano City, e il complesso si riempì di migliaia di giovani venuti ad ascoltare i concerti. Ma la vera svolta fu la mostra di Andy Warhol, con le file lunghissime davanti al Pan, il Palazzo delle arti di via dei Mille. I napoletani dovevano sapere che la città non era più un immondezzaio di cui vergognarsi ma un grande lascito di cui essere orgogliosi e su cui investire”.
Abbiamo raggiunto le percentuali di visitatori di Milano, ma loro avevano il traino dell’Expo
Ma il vero exploit, che anche un po’ inaspettatamente ha proiettato la città e i suoi amministratori nell’emisfero dell’ottimismo, è stato l’impennata recente dei flussi turistici. “Nel 2014”, elenca l’assessore, “abbiamo stabilito il record di presenze nella storia turistica di Napoli. Nel 2015 abbiamo superato il 2014. Nel 2016 supereremo il 2015. Eravamo seduti su un vulcano, se la crisi non è esplosa lo dobbiamo al turismo. C’è stato beneficio per molti. Sulla mappa cittadina la presenza dell’ospitalità diffusa è una macchia che negli ultimi anni si allarga a dismisura. Sono fioriti i locali, i ristoranti. È vero che alcuni processi ci sfuggono, ma in tanti casi ci adoperiamo per facilitare le cose con permessi e autorizzazioni, o per stabilire limiti e regolamenti. Ovviamente tutto questo accade in una città in cui le istituzioni arrancano, quindi anche il comune arranca. Ora però ci godiamo questo risultato. Abbiamo raggiunto le percentuali di visitatori di Milano, ma loro avevano il traino dell’Expo…”.
Quella del pendolo, in realtà, è un’arma a doppio taglio per chiunque amministri una grande città. Ogni euforico punto di vista su Napoli potrebbe facilmente essere ribaltato mettendo in evidenza la persistenza delle bande criminali, la precarietà dei servizi, la fatica della vita quotidiana e altro ancora. Senza un’opera di costante manutenzione e ampliamento del bene pubblico, l’oscillazione potrebbe rapidamente cambiare verso. Anche per questo sarebbe importante elaborare con chiarezza obiettivi e strategie a lungo termine.
Sul turismo, per esempio, è interessante l’approccio di Annunziata Berrino, docente del dipartimento di studi umanistici alla Federico II, in un libro collettivo su Napoli, Lo stato della città, che ho portato con me per donarlo all’assessore. Per Berrino il turismo è cultura del lavoro, coordinamento di servizi alla popolazione ospite ma anche e soprattutto alla popolazione residente. “Gli enti pubblici”, scrive Berrino, “scambiano per cultura turistica il colore della città, laddove essa è ben altro, ovvero il prodotto attentamente elaborato del lavoro nel turismo: dalle governanti alle guide, dagli autisti ai tipografi, dai fotografi ai traduttori, dai massaggiatori ai pizzaioli (…). Ancora troppo spesso si chiede alla cultura di attirare turisti, in una confusione di ruoli che danneggia sia il turismo che la cultura”. Consegno il libro raccomandando la lettura dell’articolo.
Gli spazi liberati
Il turismo è stato una manna dal cielo, sulla cui origine il dibattito è aperto. Ma ci sono altri aspetti che colpiscono l’osservatore esterno, e che – pur tenendo presente la posizione del tutto marginale della città nel panorama dell’industria culturale nazionale – si possono ricondurre alla vivacità del tessuto sociale piuttosto che all’iniziativa municipale. I cosiddetti spazi liberati ne sono un esempio. Un tempo si chiamavano centri sociali. I primi anni del 2000 avevano segnato un ripiegamento nella loro capacità di incidere e rinnovarsi, e non è un caso che proprio in quel periodo si comincino a stipulare in città diverse forme di convenzione con le istituzioni. Questa piccola svolta regolatrice, che in realtà sanciva l’esaurimento di uno slancio vitale, ha costituito un viatico per le esperienze che hanno riproposto in anni recenti quel genere di attivismo.
La novità più rilevante, oggi, è l’apertura esplicita nei confronti del sindaco, il cui corollario è stato il riconoscimento formale di alcuni spazi, sancito da una delibera di giunta approvata una settimana prima delle ultime elezioni comunali. “L’esperienza delle reti che hanno preso in carico spazi abbandonati è importante”, dice l’assessore. “In merito abbiamo fatto delibere innovative, mantenendo sempre un confine netto tra movimento e istituzione, in modo che l’istituzionalizzazione non diventasse una camicia di forza ma allo stesso tempo ci permettesse di codificare queste nuove pratiche”.
Il caso più noto è quello dell’ex Asilo Filangieri, una palazzina di proprietà comunale, designata dalla precedente amministrazione come sede del Forum delle culture ma in realtà inutilizzata. Un collettivo eterogeneo l’ha occupata nel marzo 2012 trasformandola un po’ alla volta in un centro culturale autogestito, che ha fatto da apripista alla regolazione degli altri spazi attraverso una delibera a parte, che definisce le norme di autogoverno del luogo richiamandosi all’istituto degli “usi civici”. L’Asilo è stato il vero centro culturale della città in questi anni, confermando che le energie sprigionate dal sottosuolo della metropoli sono storicamente le più pronte a diffondere le idee e rinnovare i linguaggi.
Al suo cospetto la programmazione dell’omologo municipale, il Pan – un palazzo del sedicesimo secolo che il comune ha acquistato, ristrutturato e inaugurato nel 2005 – non fa una grande figura. L’assessore però non è d’accordo. “Nel 2010 il Pan era vuoto, non c’era più un’anima dentro, adesso è un luogo di documentazione sui linguaggi del contemporaneo, a disposizione sia per le grandi mostre sia come spazio aperto agli artisti per incontrarsi, sperimentare e mostrarsi al pubblico. È questa la sua doppia identità”.
Luoghi del genere, palestre per la gioventù creativa e spazi d’incontro, dovrebbero esserci in ogni quartiere, magari più piccoli e meno sfarzosi del Pan, che di fatto è un centro civico di seimila metri quadrati nella strada più elegante della città. Non è così, anche se nei mesi scorsi due centri sono stati aperti a Soccavo e Pianura, nella periferia ovest.
Le biblioteche comunali, che oggi – salvo due o tre eccezioni – sono posti trascurati e obsoleti, potrebbero diventare quei luoghi. “Appena reinsediato dopo le elezioni”, sostiene Daniele, “ho detto che le biblioteche sono la nostra priorità per i prossimi cinque anni. Biblioteche vuol dire periferie. L’obiettivo è fornire alle tante associazioni che animano quei quartieri delle strutture dove le persone possano organizzarsi autonomamente senza passare per l’assessorato. Le nostre biblioteche hanno un patrimonio librario inadeguato, è vero, ma non sono più solo il luogo in cui si va per prendere in prestito un libro. Devono diventare un’altra cosa, per adesso ci sono le idee, le risorse dobbiamo trovarle”.
Se trovare i soldi per riconvertire le piccole biblioteche comunali costituisce un dilemma, si può immaginare la complessità dell’impresa quando l’obiettivo è il recupero dei grandi complessi e degli edifici monumentali vuoti e abbandonati. A Napoli sono tantissimi, basti pensare all’area di Bagnoli, in attesa di destinazione da vent’anni; alle strutture industriali dismesse o alle decine di chiese di cui la curia non riesce a occuparsi, spesso depredate di tutto e senza prospettive di riuso; e poi i grandi complessi, che testimoniano una stratificazione storica che ipoteca ancora oggi la forma della città, con una storia di progetti parziali e inconcludenti, annunci e promesse mai mantenute.
Fallimenti fragorosi
L’assessore ricorda l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, una città nella città, a pochi passi dall’aeroporto. E l’Albergo dei poveri, voluto da Carlo III di Borbone. “Abbiamo alcune idee per una ristrutturazione della rete museale della città. L’Albergo dei poveri potrebbe diventare il più grande museo archeologico d’Europa. Quello attuale, nell’ex palazzo degli Studi, bellissimo ma incredibilmente insufficiente, potrebbe diventare la sede del museo scientifico della città, convogliando il prezioso patrimonio dei musei universitari. Un altro museo che Napoli non ha è quello sull’emigrazione. Ne stiamo discutendo con la regione e il ministero, ma non possiamo affrontare l’impresa solo con le risorse pubbliche. C’è bisogno d’investimenti privati e di un progetto europeo. In questo senso il ministero ha un ruolo importante. Con i numeri che abbiamo sul turismo, abbiamo dimostrato che Napoli è un’opportunità per l’Italia. Prima eravamo senza titoli, ora ce li siamo guadagnati sul campo”.
È evidente che l’oscurità che ci lasciamo indietro, nelle parole di chi oggi governa la città, è il lungo periodo segnato da Antonio Bassolino, prima come sindaco e poi come governatore influente sui destini municipali. Come l’ex leader comunista, anche de Magistris ha inaugurato il suo mandato, cinque anni fa, vietando alle auto una strada famosa, il lungomare Caracciolo. E se Bassolino aveva riempito la piazza Plebiscito liberata dalle auto con installazioni dei più famosi artisti contemporanei, l’ex magistrato ha occupato la carreggiata del lungomare con le terrazze dei ristoranti, ma anche, tra l’altro, con decine di forni per pizze in occasione del Pizza Village, e prossimamente con un albero di Natale alto quaranta metri che suscita già polemiche in città.
Anche Bassolino fu per anni il sindaco della rinascita dopo le malefatte del pentapartito. Il compito che aveva assunto, lui con fama di operaista, era di accompagnare la città nell’era postindustriale provando a stabilire delle regole e dei caratteri adeguati al luogo e alla sua gente. Nonostante abbia governato a lungo, con ampio consenso e copiose risorse, il fallimento è stato fragoroso. Dopo quel crollo, a de Magistris nessuno chiedeva una missione così ambiziosa. Per paradosso, proprio negli ultimi anni la città sembra invece incamminarsi verso un qualche tipo di futuro; al di fuori di ogni programmazione, e fuori tempo massimo rispetto alle grandi città europee: come un bastimento che finalmente si decide a scendere in mare dopo un varo estenuante. Verso dove è ancora difficile dire. De Magistris, più che altro, pare assecondarne l’abbrivio.
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