I capannoni di via Salaria 981 sono ancora pieni di rifiuti. Eppure sono passati cinque mesi dall’incendio che ha devastato parte dell’impianto per il trattamento meccanico-biologico (tmb) dei rifiuti. Prima del rogo, qui arrivava un quarto dell’immondizia indifferenziata raccolta a Roma, in media 1.100 tonnellate al giorno, di cui 600 da trattare e 500 da trasferire.
L’11 dicembre 2018 dall’impianto in fiamme si è alzata una colonna di fumo nera e densa. Spinta dalla brezza ha piegato verso sud, ha avvolto la capitale in una foschia acre ed è arrivata fino a Fiumicino. Per una volta, l’incendio ha costretto tutta Roma a prestare attenzione a quell’impianto periferico, dove i rifiuti erano stati accumulati per anni tra le proteste degli abitanti. Ne riceveva di più di quelli che poteva trattare, tanto da diventare una specie di discarica, una montagna di immondizia a soli cento metri dalle prime case di Villa Spada, a 150 metri da un asilo, e a poche centinaia di metri dai quartieri Fidene e Serpentara. Nel raggio di pochi chilometri ci sono Castel Giubileo, Nuovo Salario, cioè il settore nord del terzo municipio di Roma. E per chi abita in quelle zone l’impianto è diventato sinonimo di una puzza costante e insopportabile.
L’incendio non ha chiuso il problema del tmb della Salaria. Al contrario: ne ha fatto il simbolo di un sistema dei rifiuti che proprio non funziona, in crisi perenne. Quel giorno, mentre ancora divampavano le fiamme, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha dichiarato che l’incidente “avrà solo anticipato la chiusura dell’impianto, già prevista per il 2019”. E ha aggiunto che “i cittadini non hanno avuto pazienza”, cosa che per gli abitanti è suonata davvero offensiva: quasi l’avessero appiccato loro, l’incendio.
Tuttavia, sulla sorte dell’impianto di via Salaria non c’è nulla di certo. Sono passati mesi durante i quali ci sono state assemblee pubbliche, manifestazioni, lettere aperte, audizioni parlamentari, incontri con le autorità cittadine. Finora però le risposte sono state evasive. “Nessuna notizia ufficiale è stata diffusa sulla gestione della fase post-incendio e nessun atto è stato emanato per la chiusura definitiva”, si legge nella lettera che l’Osservatorio permanente dei cittadini sul tmb ha consegnato il 18 marzo alla sindaca Raggi in visita al terzo municipio. La lettera è stata indirizzata anche al presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, al ministro dell’ambiente Sergio Costa, e a una lunga lista di autorità di Roma, della Città metropolitana e della regione.
La sola cosa certa per ora è che nel tmb di via Salaria restano circa cinquemila tonnellate di rifiuti organici, che vanno trattati prima di essere rimossi, oltre a quantità non precisate di rifiuti indifferenziati e di liquami. La giunta del terzo municipio di Roma l’ha potuto constatare durante un sopralluogo compiuto il 4 marzo scorso, insieme ad alcuni rappresentanti dell’Osservatorio dei cittadini e ai responsabili dell’azienda municipale ambiente (Ama), che si occupa della nettezza urbana ed è al cento per cento di proprietà del comune di Roma.
“Ci hanno garantito che le attività in corso servono alla ripulitura e alla bonifica del sito, non alla ripresa delle attività”, ha dichiarato il presidente del terzo municipio, Giovanni Caudo, al termine di quella visita (quando la delegazione è arrivata, al gabbiotto di guardia spiccava un foglio scritto a pennarello, “solo rifiuti organici”. Poco dopo è stato tolto). Da allora, l’unica novità è la chiusura dell’autorimessa per i mezzi dell’Ama, che aveva sede nell’impianto di via Salaria: l’ha deciso l’azienda sanitaria locale (Asl) per “insalubrità dei locali”.
Una discarica sotto casa
“Chi non abita qui non capisce. Per gli altri la crisi dei rifiuti a Roma sono i cassonetti che traboccano. Per noi è molto di più, è una discarica sotto casa”, mi dice un sabato di metà febbraio una giovane mamma con dei bambini, che preferisce rimanere anonima. Quel giorno gli abitanti della zona si erano dati appuntamento per protestare all’ingresso del tmb. Al di là del cancello c’è il piazzale su cui sostano i camion dell’Ama. Le strutture annerite dall’incendio si intravedono accanto ai grandi capannoni ancora in piedi.
Quel sabato di metà febbraio gli abitanti della zona raccontavano quanto sia stato difficile vivere per anni senza riuscire a respirare, ossessionati dal tanfo che penetra ovunque. “In nessun paese civile si mette un impianto di questo tipo a pochi metri dall’abitato”, ripetevano.
“Non riesumatelo”, diceva un cartello illustrato dal faccione rosso di un drago. “Chiudetelo”, “Mai più rifiuti”. Qualcuno ha appeso una mascherina antismog alla recinzione del tmb. “Siamo qui a manifestare perché non ci fidiamo”, diceva al megafono Giovanni Caudo, tra l’approvazione degli abitanti. “Chiediamo alla sindaca Virginia Raggi un atto ufficiale della giunta comunale, che impegni l’azienda Ama a chiudere in modo definitivo questo impianto”. Un documento ufficiale, chiedono qui: perché di promesse verbali ne hanno sentite troppe.
Parte del problema è che “nonostante le abitazioni a poche decine di metri, il sito è classificato area industriale”, fa notare Stefania Pandolfi, dell’Osservatorio permanente sul tmb Salario. Negli anni cinquanta in effetti questo era uno stabilimento dell’Autovox, marchio italiano dell’elettronica di consumo, che qui fabbricava autoradio. Poi negli anni ottanta la fabbrica è entrata in crisi, nei primi anni novanta ha chiuso e nel 1997 l’Ama ha acquistato l’ex stabilimento ormai vuoto, 28mila metri quadrati di capannoni, piazzali e uffici tra via Salaria e il fiume Tevere. In principio l’azienda della nettezza urbana doveva sistemare qui gli uffici, l’officina e un deposito di automezzi.
Poi l’ex stabilimento è stato usato anche per trasferire il pattume dai mezzi più piccoli – gli “squali”, quelli che fanno la raccolta per le strade – ai camion più grandi. Infine è diventato un centro di trattamento meccanico-biologico, ma doveva essere una soluzione transitoria. Era il 2010, ed è allora che sono cominciati i problemi.
Roma produce ogni giorno circa 4.600 tonnellate di rifiuti, di cui solo il 43 per cento – circa duemila tonnellate – è raccolto in modo differenziato. Tutto il resto va ai tmb. Qui la spazzatura viene smistata con un procedimento meccanico “a freddo” che separa la frazione umida (l’organico) da quella secca (carta, pezzi di plastica, vetro, inerti, metalli). La parte secca sarà ancora trattata per trarne materiali riciclabili (per esempio con grandi calamite che separano i metalli ferrosi). Quel che resta diventa combustibile derivato da rifiuti (cdr), destinato agli inceneritori. La parte organica invece va in un impianto dove viene smossa e fatta “maturare” per circa 28 giorni, con processi biologici come la digestione anaerobica, fino a diventare frazione organica stabilizzata (fos). Meno una città riesce a differenziare i rifiuti alla raccolta, più tmb servono: e uno dei problemi di Roma è che differenzia troppo poco.
Una mappa della puzza
Cosa vuol dire un tmb al collasso lo possono spiegare bene gli abitanti di Villa Spada, Fidene, Serpentara. “I primi problemi sono cominciati nel 2011, quando l’impianto è andato a pieno regime”, ricorda Adriano Travaglia, presidente del comitato di Villa Spada, dove abita. “Allora nessuno capiva da dove venissero quelle ondate di puzza. Giravamo in cerca di indizi, finché abbiamo capito che venivano dalla struttura dell’Ama”.
L’impianto era autorizzato a trattare 750 tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno “più 250 tonnellate di sforamento”, spiega Travaglia, un ingegnere in pensione, “ma era collaudato su 300 tonnellate quotidiane”. Parla di sistemi di lavaggio dell’aria con acido solforico e soda caustica per abbattere gli odori, dei biofiltri che andavano sostituiti ogni anno perché esauriti ben prima dei quattro o cinque anni previsti, delle fosse di rifiuti che non arrivavano mai a svuotarsi come avrebbero dovuto, di ripetuti incidenti in un impianto spinto oltre la sua capacità.
Il primo esposto dei cittadini risale al 2011, l’ultimo è del 2017, una denuncia per inquinamento ambientale e danno alla salute pubblica presentata alla procura di Roma e al nucleo operativo ecologico dei carabinieri. “Abbiamo fatto il giro di tutte le istituzioni, da quelle locali fino al comune e alla regione. Ne abbiamo ricavato solo montagne di chiacchiere”, dice Travaglia. “Nel 2015, dopo un primo incendio, l’impianto di via Salaria è stato fermato per qualche mese e la giunta comunale prometteva di chiuderlo. Poi però la giunta di Ignazio Marino è caduta, e con lui anche le promesse”. In quei pochi mesi si respirava meglio, ricorda.
Ho incontrato Travaglia sulla piazza di Fidene, che ricorda quella di un paese. Le prime case qui sono state costruite negli anni cinquanta, tirate su con le proprie mani da persone che compravano un pezzetto di terreno e ci lavoravano il sabato e la domenica. Erano operai, manovali. È la stessa storia della vicina Villa Spada, e di molte periferie romane. La borgata cresceva in modo spontaneo: i servizi essenziali, l’acquedotto e le fognature sono arrivati più tardi, allora c’era ancora il camion del comune che distribuiva l’acqua. “Poi, intorno agli anni settanta, il quartiere ha smesso di essere visto come una borgata e sono arrivati altri abitanti, giovani istruiti, medici, insegnanti”, spiega Travaglia. Ma è stata una trasformazione lenta: “Vent’anni fa la via che attraversa il quartiere a un certo punto si trasformava in una piccola strada sterrata che serviva come scorciatoia per arrivare al Salario tra terreni incolti”. Largo Labia, dove ora c’è il capolinea dell’autobus che arriva dalla stazione Termini, non esisteva. “Ma resta una periferia abbandonata”, osserva Travaglia.
Il tmb ha aggiunto nuovo disagio a una situazione di abbandono. Ora nell’agglomerato di Villa Spada resta un solo bar. A Fidene hanno chiuso molti ristoranti, pub, pizzerie: “Nessuno vuole stare a un tavolino all’aperto tra i miasmi”, continua Travaglia. Il valore delle case è crollato. Qui parlano di “desertificazione sociale”.
Per anni, denunce e petizioni dei cittadini sono rimaste inascoltate. “Le nostre richieste di aiuto sono state ignorate”, dice Sergio Caselli, il farmacista di Fidene. “Magari ci invitavano a ‘tavoli partecipativi’, che però non erano partecipativi affatto, ci informavano solo di decisioni già prese”.
Finché i cittadini hanno deciso di “mappare” la puzza. È stato quando Giovanni Caudo, appena eletto presidente del terzo municipio, nel luglio 2018, ha riunito i vari comitati nati nel frattempo intorno all’impianto dell’Ama. Così è nato l’Osservatorio permanente sul tmb Salario, presieduto da Caudo stesso in veste di garante. La prima iniziativa è stata distribuire ai cittadini dei moduli chiedendo loro di segnalare quando sentivano i miasmi, a che ora e dove. Sono state compilate quattromila schede, la prima “mappatura della puzza”. Sono seguite assemblee pubbliche, denunce, fino a una manifestazione con migliaia di persone davanti al tmb, il 6 ottobre 2018.
La reazione delle istituzioni “è stata avvilente”, ha ricordato Maria Teresa Maccarrone, rappresentante dell’Osservatorio, durante un’audizione alla commissione bicamerale sugli illeciti legati allo smaltimento dei rifiuti, il 22 gennaio scorso. Invitati a un’assemblea pubblica con l’allora assessora all’ambiente della città di Roma, Pinuccia Montanari, e l’allora direttore generale dell’Ama Lorenzo Bagnacani, i cittadini si sono sentiti accusare di allarmismo.
“Dicevano che forse era il depuratore dell’Acea”, dice Maccarrone. Ma qui, aggiunge, tutti sanno distinguere il tanfo della spazzatura da quello della fogna: “C’è la puzza di indifferenziato, che è quella del cassonetto ma molto più forte. C’è quella dell’organico in decomposizione, che è dolciastra e molto particolare, e quella del biofiltro, che quando arriva ti fa lacrimare gli occhi nel giro di un minuto, brucia la gola, viene mal di testa”.
Gli impianti che smaltiscono rifiuti producono molte sostanze tossiche per l’uomo
Il terzo municipio si è sentito perfino proporre i “nasi elettronici”. “Volevano vendere al municipio un dispositivo chiamato Odorprep per misurare gli odori”, ricorda Caselli con rabbia, “quanti soldi ed energie spesi in finte soluzioni, pur di negare l’evidenza”.
Intanto anche dall’interno dell’impianto trapelavano notizie allarmanti. Sono circolate foto e filmati con montagne di rifiuti. Durante un’assemblea pubblica al terzo municipio, un lavoratore dell’Ama ha parlato di condizioni di lavoro impossibili.
Alla fine, la relazione diffusa il 16 novembre 2018 dall’agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa) del Lazio ha confermato che l’impianto in via Salaria non era in grado di lavorare la massa di rifiuti che arrivava ogni giorno, e che l’accumulo nella fossa della frazione organica presentava “elevate caratteristiche di putrescibilità”. Spiegava inoltre che l’impianto produceva più scarto che rifiuto lavorato e che non etichettava i rifiuti in uscita in modo corretto. Un parere negativo su tutta la linea.
“Si chiama traffico illecito di rifiuti”, commenta Rossella Muroni, deputata di Leu, già presidente di Legambiente, esponente della commissione bicamerale di indagine sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti: “Se da un impianto di trattamento escono rifiuti che non corrispondono ai codici indicati, non c’è altro modo di chiamarlo: è un illecito”.
Non è facile invece dire quale sia l’effetto di un tmb sulla salute delle persone. “Gli impianti che smaltiscono rifiuti producono sostanze chimiche che possono contaminare l’ambiente e molte sono sostanze tossiche per l’uomo”, osserva Carla Ancona, dottoressa del dipartimento di epidemiologia (dep) del servizio sanitario della regione Lazio. Dunque sono un elemento di rischio, soprattutto se vicino a zone abitate. Spesso però discariche, tmb o inceneritori sono anche in prossimità di zone industriali, o comunque di altre fonti di contaminanti. Insomma: “Le prove scientifiche sugli effetti sulla salute degli impianti di trattamento dei rifiuti sono ancora inadeguate”, spiega Ancona, “mancano anche informazioni sulla qualità e quantità delle sostanze emesse, per tecnologia utilizzata e tipologia dei rifiuti trattati”.
Per questo, il dep nel 2008 aveva avviato un monitoraggio della popolazione residente nel raggio di cinque chilometri dagli impianti di trattamenti dei rifiuti di tutta la regione, e in particolare i circa 260mila residenti vicino ai tmb di via Salaria e di Rocca Cencia a Roma, e di Casale Bussi a Viterbo. Il programma si chiamava Eras, acronimo di “epidemiologia, rifiuti, ambiente e salute”.
Lo studio, pubblicato nel 2013, non ha evidenziato livelli di mortalità né ricorso alle cure ospedaliere diversi da quelli registrati in altre regioni, spiega Ancona. “Tuttavia sono stati riscontrati, per la mortalità e soprattutto per i ricoveri in ospedale, alcuni eccessi di rischio degni di nota, in particolare per malattie respiratorie, cardiovascolari e per alcune forme tumorali”, dice Ancona. I ricercatori hanno guardato dove è più alta la concentrazione di idrogeno solforato (H2S), scelto come “firma chimica” delle esalazioni delle discariche, e in quelle zone hanno osservato un aumento di ricoveri in ospedale per patologia legate a problemi respiratori e cardiologici. Il programma Eras però non è stato rifinanziato, spiega Carla Ancona, “nonostante molti sindaci, Asl e comitati di cittadini ci chiedano aggiornamenti”.
Oltre i livelli di guardia
Se in tempi normali lo smaltimento di rifiuti produce sostanze tossiche, figurarsi con un incendio come quello avvenuto al tmb di via Salaria. A caldo però “non abbiamo avuto nessuna informazione ufficiale su cosa stavamo respirando, cosa dovevamo fare, se bisognava lavare le strade, se i nostri figli potevano andare in giardino”, ricorda Maria Teresa Maccarrone.
Non che le informazioni mancassero: l’Arpa ha pubblicato ogni giorno le rilevazioni delle sue centraline installate vicino all’impianto, a villa Ada e in corso Francia, e una sintesi il 4 febbraio 2019. Così sappiamo che nei giorni successivi all’incendio i livelli di diossine, benzo(a)pirene e policlorobifenili (pcb, composti organici estremamente tossici e cancerogeni) respirati in diverse zone di Roma hanno superato di parecchie volte i livelli di guardia. Non solo, in quei giorni l’Asl Roma 1 ha istituito un’unità di crisi per monitorare la sicurezza alimentare nella zona di ricaduta della “nuvola” dell’incendio.
La raccolta differenziata è passata negli ultimi tre anni solo dal 38 al 43 per cento del totale
“In collaborazione con l’istituto zooprofilattico abbiamo analizzato campioni di erbe da pascolo, insalata e verdure in foglia”, spiega il professore Daniele Gamberale, direttore del dipartimento di prevenzione della Asl. Il timore era che le diossine entrassero nella catena alimentare attraverso l’erba: “Ma il risultato è stato negativo, nulla di rilevabile”. La stessa unità di crisi ha incontrato in due riprese il terzo municipio e poi il quindicesimo, altra zona investita dalla “nuvola”. È stato “il primo vero dialogo che abbiamo avuto con la Asl”, ricorda Adriano Travaglia.
Quanto ai cittadini, il giorno dell’incendio il comune di Roma si è limitato a un comunicato per raccomandare di chiudere le finestre. Lo stesso messaggio è arrivato alle scuole. “Nessuno è venuto a parlarci. Non dico a fare delle scuse, perché noi l’avevamo detto e ripetuto che quell’impianto era pericoloso: ma neppure a dirci come stavano le cose”, dice Travaglia. La comunicazione pubblica è stata disastrosa.
Promesse e fatti
E ora? L’indagine sulle cause dell’incendio è in corso, nulla trapela. La procura di Roma indaga contro ignoti per “disastro colposo”, cioè accidentale, ma nessuna ipotesi è esclusa. Ai primi sopralluoghi i vigili del fuoco non avevano trovato inneschi. Ma le fiamme si sono propagate a grande velocità, e il fatto che le telecamere fossero spente da alcuni giorni ha alimentato i sospetti. L’indagine è affidata al pubblico ministero Carlo Cattaneo, già titolare dell’inchiesta sul malfunzionamento del tmb di via Salaria, e ora anche di quella sul principio di incendio scoppiato la sera di domenica 24 marzo nel secondo impianto tmb di proprietà dell’Ama, quello di Rocca Cencia.
Resta confusa anche la vicenda dell’Ama. L’azienda è affidata a un amministratore unico temporaneo, Massimo Bagatti, dopo che nel febbraio scorso la giunta ha rifiutato di approvarne il bilancio del 2017 – cosa che ha provocato le dimissioni dell’assessora Pinuccia Montanari – e ha revocato il mandato al consiglio d’amministrazione. La storia ha molti lati oscuri, su cui la corte dei conti ha aperto un’indagine. Anche la procura di Roma indaga, dopo che l’ormai ex direttore Bagnacani ha denunciato pressioni del Campidoglio. C’è chi parla di una crisi provocata ad arte e chi sospetta manovre per arrivare alla privatizzazione.
Resta la questione dei rifiuti a Roma. Nella sua lettera, l’Osservatorio sul tmb dice che si tratta di una questione strutturale: l’Ama ha sovraccaricato l’impianto di via Salaria oltre ogni immaginazione “invece di programmare e mettere in atto un sistema impiantistico capace di superare il vuoto lasciato dalla chiusura di Malagrotta”, la discarica di proprietà dell’avvocato Manlio Cerroni, che fino al 2013 ha avuto il monopolio di fatto dello smaltimento dei rifiuti nella capitale.
Chiusa quella discarica si parlava di una rete di piccoli centri di raccolta e smistamento nei diversi municipi, di raccolta differenziata porta a porta. Invece la raccolta differenziata è passata negli ultimi tre anni solo dal 38 al 43 per cento del totale. Tutto il resto è stato convogliato ai due tmb dell’Ama e ai due dell’azienda Co.La.Ri. di proprietà dello stesso Cerroni, che pure sono sotto amministrazione giudiziaria. Fermo l’impianto in via Salaria, per il momento è solo aumentata la quota di rifiuti romani mandata ai tmb di Viterbo, Frosinone, Aprilia, dove però crescono i malumori: Roma è un vicino sempre più ingombrante.
Cittadini e attivisti chiedono che l’impianto di via Salaria non sia mai più adibito a ricevere rifiuti. “Abbiamo pagato per troppo tempo. Che ci facciano uffici, il centro direzionale Ama, quello che si vuole, ma basta spazzatura”, dice Maria Teresa Maccarrone. L’Osservatorio ha formulato tre richieste: la prima è che l’autorizzazione integrata ambientale concessa al tmb Salario, che spetta alla regione, sia revocata in modo definitivo; che i rifiuti siano finalmente rimossi e il terreno sia ripulito, bonificato, risanato; infine che cambi la “destinazione d’uso” dell’area.
“Chiediamo un percorso di riconversione trasparente e partecipato che coinvolga gli abitanti”, ha detto il 30 aprile Giovanni Caudo, rivolgendosi alla commissione bicamerale sugli illeciti legati allo smaltimento dei rifiuti. Dice che i cittadini vanno risarciti: “Non in moneta, ma aprendo quello spazio alla fruizione di tutti, che diventi uno spazio pubblico”.
“Il tmb di via Salaria è un caso clamoroso di ingiustizia ambientale”, sottolinea Christian Raimo, assessore alla cultura del terzo municipio, scrittore e giornalista, che ha indagato sullo scandalo dei rifiuti a Roma e sui tmb. La battaglia dei cittadini di Fidene o di Villa Spada non è un caso di sindrome “non nel mio giardino”, tutt’altro. “Autorizzare un impianto simile accanto alle abitazioni è stata una profonda ingiustizia, revocare l’autorizzazione vuol dire cominciare a ripararla”, dice Raimo.
Il 18 marzo, in visita al terzo municipio – dove ha incontrato il presidente Caudo, la giunta e alcuni rappresentanti dell’Osservatorio – Virginia Raggi aveva dichiarato che “l’idea è destinare (il sito di via Salaria, ndr) a centro direzionale. Non c’è alcuna volontà di tornare a usarlo per il trattamento o stoccaggio dei rifiuti, su questo posso dare ampie rassicurazioni”. La sindaca parlava di “costruire un percorso comune”, di un centro direzionale con spazi di verde e aperti al pubblico: “Anche come risarcimento morale ai cittadini, per aver sopportato tanto tempo un impianto ad alto impatto”.
Belle parole. Eppure, due mesi dopo continua a mancare qualunque atto formale che porti alla chiusura dell’impianto di via Salaria. Per gli abitanti di Fidene o Villa Spada, l’incubo sotto casa non è ancora finito.
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