È difficile immaginarsi la vita in questo piccolo villaggio di frontiera prima che i terribili effetti della guerra arrivassero a Záhony, paesino del nordest dell’Ungheria. Siamo a soli due chilometri dal territorio ucraino e a sette chilometri da Čop, il primo centro abitato oltre la frontiera con l’Ucraina.

Le strade sono vuote e solo qualche manifesto elettorale, promemoria del voto del 3 aprile, richiama la realtà ungherese che, lontano dalla capitale, Budapest, sembra così remota. Un pub dallo stile un po’ datato riunisce un gruppetto di persone del luogo intorno a una birra, rigorosamente accompagnata dal bicchierino di pálinka, già al mattino, mentre sul vecchio televisore scorrono le immagini di una guerra che non potrebbe essere più vicina. La paura che possa arrivare c’è, ma resta non detta. La resistenza (anche all’alcol) di questa gente, così come dei vicini ucraini, è qualcosa che si incontra a ogni angolo.

Se tutto intorno è silenzio, la minuscola stazione di Záhony è diventata un crocevia degli ucraini in fuga. Un sottile fazzoletto di terra in cui regna l’incertezza. Qui cominciano viaggi verso l’ignoto, con alle spalle città distrutte e famiglie separate. L’angoscia di non ritrovare più nulla al ritorno, se e quando si potrà tornare.

In questo non-lieu, come lo avrebbe definito Marc Augé, transitano le incognite e le sofferenze dei profughi, non esibite ma come congelate. Le raccontano i volti, le emozioni contenute in dignitosissimi silenzi. I bambini siedono composti accanto ai loro genitori. Perfino i cani e i gatti, silenziosi, si nascondono tra le gambe dei loro padroni. Una donna si pulisce le scarpe sporche dopo il lungo viaggio con delle salviettine umidificate che aveva in borsa, per poi mettersi il rossetto e spazzolare i capelli della figlia. Un modo di ingannare le infinite ore di attesa. Si aspetta qualcuno che ti venga a prendere. Si aspetta un letto. Si aspetta di capire dove andare e come continuare il viaggio.

Una donna copre dal freddo l’anziana madre, aggiustandole il foulard in testa e abbottonandole per bene il cappotto. Delle giovanissime mamme dal volto esausto continuano a giocare con i loro bambini su delle coperte stese sul pavimento freddo della stazione, come se il caos intorno non esistesse. Alcuni adolescenti aiutano come possono, a cominciare dall’inglese. La maggior parte di quella generazione lo conosce, diventando una risorsa preziosa in questi viaggi verso l’ignoto. La generazione di adulti continua a ripetere che parla ucraino e russo. E in russo continuano a dire: “Noi siamo fratelli, è per questo che nessuno si aspettava la guerra”.

Sono soprattutto donne in viaggio con i loro bambini e gli anziani genitori: intere generazioni scappate senza i fratelli, i figli, i compagni, padri e mariti rimasti in Ucraina perché abili per la guerra. Come Julia, un’insegnante arrivata da Kiev, o Katarina, di 35 anni, in viaggio con la nonna di 80 anni sulla sedia a rotelle, la mamma e la figlia: “Non abbiamo soldi, non sappiamo dove andare”.

E poi ci sono tante figlie in viaggio sole, senza quei genitori che non hanno voluto lasciare le loro case, rimasti insieme a qualche vicino di casa, negli scantinati adibiti a bunker, senza energia elettrica, senza acqua e, spesso, senza cibo. Sfuggire all’avanzata russa ha fatto loro cominciare il viaggio, spesso, senza una meta. Una vera e propria fuga, come si capisce guardando trolley e bagagli dall’aspetto improvvisato.

Záhony, Ungheria, 8 marzo 2022. Una signora con la figlia, la nipote e la pronipote, dopo vari giorni di un viaggio cominciato a Kiev. (Guido Canalella)

Záhony è solo uno dei punti sul confine tra Ucraina e Ungheria, ma è quello dove si può arrivare anche in treno. In questa “fortezza” d’Europa, dove le politiche anti-immigrazione del primo ministro Viktor Orbán sono durissime, dall’inizio della guerra è arrivato, dopo la Polonia, il più alto numero di ucraini. “Nei primi giorni erano soprattutto persone di etnia ungherese che arrivavano dalla zona dei Carpazi. Adesso stiamo vedendo più gruppi etnici, persone dalla zona di Kiev e dalle parti interne dell’Ucraina raggiungere i confini ungheresi”, spiega Zsolt Balla, responsabile regionale per la comunicazione dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). “C’è una consistente etnia ungherese in Ucraina, naturalmente quindi le minoranze che parlano ungherese preferiscono fuggire verso l’Ungheria”.

Ad affollare la stazione di Záhony ci sono tantissimi rom ucraini – secondo le ultime stime in Ucraina erano circa 400mila – che la polizia ungherese caccia via mentre riempiono le loro buste con i vestiti messi a disposizione per tutti, in una delle sale della stazione adibite all’accoglienza.

Un’umanità eterogenea proprio nel territorio governato, più o meno da sempre, da un primo ministro che ha fatto della retorica della “non diversità” il suo vanto, del nazionalismo e del razzismo i suoi vessilli: “Non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelli degli altri”, diceva.

Secondo l’Unhcr si tratta della più grande crisi umanitaria che l’Europa abbia mai conosciuto

Quanto fossero belle le città, lo stiamo vedendo ora che vengono distrutte. Quanto fosse multietnica l’Ucraina lo si vede adesso dai colori della pelle delle persone in fuga che anche qui a Záhony affollano la stazione.

Anche grazie ai piani di evacuazione dell’ambasciata nigeriana a Kiev, a Záhony arrivano tantissimi studenti di origine africana che frequentavano le università ucraine e che abbandonano per sempre il sogno di un’Europa di pace: nei loro racconti non ce n’è più traccia. Raccontano di aver visto studenti morire mentre andavano a cercare cibo fuori dai bunker. Raccontano delle zone universitarie bombardate e di come continuino a vedere nella loro mente le immagini di soldati armati e a sentire il rumore delle bombe anche ora che sono in territorio ungherese.

Come altri luoghi lungo i confini, anche qui si sono messe in moto, spesso in modo spontaneo, iniziative di aiuto. Così, questa piccola stazione è diventata punto di snodo per chi arriva dalla guerra con tutti i mezzi, anche a piedi, e per chi riparte con il treno per Budapest. La Máv, linea dei treni statale, offre il “solidarity ticket”, dando la possibilità di viaggiare gratuitamente. Molti si fermano nella capitale ungherese, ma tanti da lì ripartono verso altri paesi europei. Non solo treni, ci sono auto di familiari e volontari, pullman verso posti sicuri che affollano il piazzale intorno alla stazione di Záhony. Qui grazie all’associazione della chiesa riformata, alla Croce rossa ungherese e ora anche al Cesvi, che in coordinamento con la municipalità di Záhony e World Central Kitchen ha allestito un centro di accoglienza, si offre una risposta immediata ai bisogni più urgenti.

Ma siamo solo all’inizio. Se è vero, infatti, che grazie ai volontari e alle associazioni a Záhony, come in altri posti, si sta dando una prima risposta ai bisogni urgenti – cibo, pasti caldi, un letto, l’aiuto degli interpreti per organizzare il viaggio – la posta in gioco risiede nella capacità di dare risposte a lungo termine. “Queste persone”, spiega Zsolt Balla, “avranno bisogno di un’istruzione per i loro figli, di accesso all’assistenza sanitaria e al mondo del lavoro, perché sono persone che hanno perso tutto”.

Secondo l’Unhcr si tratta della più grande crisi umanitaria che l’Europa abbia mai conosciuto. Numeri già vertiginosi, in meno di un mese. Sono più di tre milioni gli ucraini che hanno lasciato il loro paese, cinque milioni quelli senza casa, cifre destinate a salire, anche in Ungheria, dove il numero di persone entrate nel paese ha abbondantemente superato i 200mila.

Oltre la disponibilità dei paesi confinanti, come l’Ungheria, ad aprire le loro porte, oltre la mobilitazione di tante famiglie europee, anche in Italia, che stanno aprendo le loro case, la reale sfida sarà nel rendere sostenibile l’accoglienza e l’integrazione nel lungo termine: quanto l’Europa sarà in grado di coglierla?

Dopo il pugno di ferro di Orbán in tema di politiche migratorie, ora le porte per gli ucraini sono aperte: un cambiamento drastico nella politica di asilo del primo ministro in carica dal 2010. Ma qui ci si trova faccia a faccia con gli effetti, gli orrori e la paura di una guerra scoppiata nel bel mezzo della corsa al voto per le prossime elezioni del 3 aprile. La reazione al caos oltre il confine ha ribaltato i temi della campagna elettorale, soprattutto dopo le politiche ambigue, quasi un corteggiamento, nei confronti di Putin da parte di Orbán, in lizza per la quarta legislatura consecutiva, il quinto mandato in totale. Dopo il primo governo, dal 1998 al 2002, Orbán è, infatti, primo ministro ininterrottamente dal 2010.

In Ungheria – che da pochi giorni ha cementato la sua identità nazionalista e la sua agenda conservatrice con l’elezione di Katalin Novák, prima donna presidente della repubblica, fedelissima di Orbán e deputata del suo partito, Fidesz – è arrivata la generosità di tanti volontari e gente comune da tutta Europa per dare aiuto insieme agli ungheresi che preparano il goulash per i profughi, al fianco delle associazioni e organizzazioni umanitarie, impegnate a rendere dignitosa la loro permanenza. Dopo la corsa alla solidarietà, quando i riflettori caleranno, per questa gente ci sarà anche un futuro di normalità da dover scrivere e rendere possibile. Dalla minuscola Záhony il messaggio al continente è potente e chiaro, e parte proprio dal paese simbolo della politica europea meno solidale.

Questa è la vera sfida politica, sociale e culturale.

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