La palestra è uno stanzone con dentro il ring, i sacchi appesi, pochi attrezzi. L’odore, l’aria che si respira, è quella tipica delle palestre popolari: sudore e adrenalina, fatica e spazi da pulire a turno.
Quando Italo Mattioli e Gigi Ascani ci sono entrati, dodici anni fa, il 5 ottobre del 2004, per occuparla, era tutto per aria: sporco, abbandonato, pieno di spazzatura. Era la palestra di una scuola, l’edificio che la sovrasta, ora affidata a diverse associazioni. L’hanno rimessa a posto con il lavoro e l’impegno personale e di amici e parenti, il cugino muratore e il cognato elettricista, l’hanno trasformata in un posto accogliente, dove da anni tirano su campioni. Oggi conta sull’appoggio del quartiere, sia dei cittadini sia delle istituzioni, e su una serie di straordinari risultati agonistici. Diversi campioni laziali e italiani, due ragazze campionesse dei campionati youth, e un campione del mondo: Giovanni De Carolis.
È la Team Boxe della Montagnola, nel quartiere di Tor Marancia, che, fra le palestre popolari romani, ha un percorso politico meno definito ma appoggia ed è appoggiata dalle altre.
Le palestre popolari, molto diffuse a Roma ma non solo, nascono dalla volontà di sottrarre spazi pubblici in disuso, sottraendoli alla speculazione edilizia, e da quella di permettere agli abitanti dei quartieri più popolari di praticare lo sport in modo economicamente sostenibile e all’interno di una struttura che spesso diventa una famiglia. Sono, per definizione, antifasciste, multiculturali, impegnate in progetti di recupero di adolescenti con problemi. Da San Lorenzo al Quadraro, dal Lamaro a viale Marconi, dal Tufello alla Montagnola. Si insegnano e si praticano molte discipline ma la più diffusa è senz’altro la boxe.
Tanto che è appena uscito, per la Red Press, un manuale di box che si intitola proprio Il pugilato per tutti e tutte. Storia, filosofia e istruzioni pratiche per la boxe nelle palestre popolari, scritto da Giuni Ligabue, autore e regista, istruttore di pugilato in una palestra popolare bolognese.
Noi italiani, sul mercato della boxe, siamo come i prodotti cinesi: si vendono bene perché sono a basso costo
Alla Team Boxe si fa soltanto boxe. Sotto la guida di Italo e Gigi, entrambi con alle spalle una carriera agonistica, si allenano una trentina di persone, uomini e donne, che arrivano da tutta Roma. Fra loro, Giovanni De Carolis, campione del mondo di Wba, pesi supermedi di pugilato. Il titolo l’ha conquistato lo scorso gennaio, vincendo a Offenburg contro il talentuoso Vincent Feigenbutz, ventunenne pupillo della potente federazione di pugilato tedesca. Per mantenerlo deve battere di nuovo un tedesco, Tyron Zeuge, a Berlino, sabato 16 luglio.
La vittoria era stata resa amara dalla mancata consegna, da parte della stessa federazione tedesca, della cintura simbolo del titolo mondiale. Faccenda complicata, spiegata bene qui, che De Carolis mi racconta quando lo incontro, un lunedì mattina, in una delle palestre in cui si allena: “Noi italiani, sul mercato della boxe, siamo come i prodotti cinesi: si vendono bene perché sono a basso costo”. Costano poco, guadagnano poco.
La cintura nel frattempo è arrivata e De Carolis, che a 31 anni condivide con la maggior parte dei suoi coetani l’instabilità economica e la fatica di far quadrare i conti a fine mese, si prepara all’incontro mentre fa la sua vita di sempre.
Si alza la mattina nel paese a sessanta chilometri da Roma in cui vive con sua moglie e i loro due figli, accompagna i bambini a scuola e poi parte per Roma, dove la mattina si allena con il preparatore atletico Antonello Regina e il pomeriggio, alla Team Boxe, con il suo allenatore di sempre, Italo Mattioli. Tornato in paese, va a prendere i figli e poi va nella palestra che ha aperto, qualche anno fa, assieme a sua moglie e tiene lui corsi di pugilato, per adulti e per bambini.
Non è la vita di una star, di uno sportivo che guadagna milioni, come altri suoi colleghi di altre nazionalità. Il contratto che ha firmato con i tedeschi è blindato, l’unico modo per liberarsene è vincere ancora, nel match di luglio e poi in un altro ancora. O perdere, ovviamente, ma sarebbe in quel caso libero ma perdente.
Non è nemmeno la vita, da romanzo, del pugile maledetto, del ragazzo disperato che si riscatta attraverso la boxe.
“Non mi piace l’idea di dover associare per forza una storia triste al raggiungimento di un obiettivo, perché penso che il pugilato sia anche altro, la passione che ci metto io. Non è stato semplice, lavoravo, ma lo facevo per passione e per scelta, non per liberarmi da non so quale rabbia”.
C’è bisogno di prontezza, precisione, capacità di capire e prevedere l’avversario, agilità e velocità
Giovanni, che ha un’aria seria e come saggia, pacato e sorridente nella sua polo azzurra, è entrato in questo mondo un po’ per caso. Negli anni in cui studiava (al liceo scientifico prima, grafica e progettazione multimediale, facoltà di architettura dopo), giocava a calcio. Era troppo magrolino però, mingherlino, così ha iniziato ad andare in palestra per farsi un po’ di muscoli. In questa palestra, accanto alla sala fitness dove lui faceva esercizi, c’era una saletta dove si faceva pugilato. Un giorno “vedo un ragazzo longilineo avere la meglio su uno più grosso, allora ho pensato: che ci divento a fare così grosso se poi non ballo? Così ho cominciato ad allenarmi con loro, mi piacevano gli allenamenti, erano stimolanti, divertenti, mi piaceva la figura dell’atleta a 360 gradi”.
Nel frattempo lavorava, come cameriere nei ristoranti del centro e poi in una rivendita di materiali edili e guadagnava qualcosa dalla squadra di calcio. Un amico l’ha poi portato alla Team Box, dove ha conosciuto Italo e gli altri. “Era una palestra solo di ring e sacchi, lì dentro ho conosciuto delle persone rare, anche se io allora non avevo un grande richiamo per il pugilato sono rimasto perché incontrare loro mi ha fatto stare bene, andavo lì e stavo bene”. Una palestra di questo tipo, con le persone con cui fai allenamenti di questo tipo, diventa una specie di famiglia. Persone con cui cresci, su cui sai di poter contare, persone che non hai scelto per altre affinità e che accetti così come sono, nel bene e nel male.
E così ha imparato a ballare. Persino a me, che prima di cominciare questa storia non avevo mai visto un incontro in vita mia, a guardare i suoi match su YouTube sembra evidente quanto balli bene. L’eleganza, la precisione, la destrezza nello schivare i colpi e nel darli. Aperto ed efficace, sorridente.
L’immagine dell’aggressività collettiva
A me, che di pugilato so molto poco, vengono in mente libri e film, mi viene in mente anche, seppure impropriamente, la fossa da combattimento degli schiavi a Meereen, che Daenerys Targaryen, la regina dei draghi di Game of thrones, vuole impedire. È Daario Naharis, che proprio grazie a quei combattimenti ha potuto affrancarsi dalla schiavitù, a spiegarle l’importanza della lotta. Ed è pur vero che gli sport di combattimento sono fra i più completi, sia dal punto di vista atletico sia da quello mentale: c’è bisogno di prontezza, precisione, capacità di capire e prevedere l’avversario, agilità e velocità. Sono allenamenti, prove, che ti fanno crescere in un modo che gli altri sport non possono fare, perché qui c’è il confronto diretto con un’altra persona, oltre che quello con se stessi.
Ne parlo a lungo, in questi giorni, con il mio amico Giovanni, che invece di pugilato è appassionato ed esperto. Lui, quando era piccolo, guardava gli incontri assieme a suo padre, ma il padre non gli ha mai permesso di farlo, il pugilato.
Come la madre di De Carolis, che era assolutamente contraria a questa passione del figlio e gli ha impedito di combattere fino ai 18 anni.
“L’incontro di boxe è l’immagine stessa, ancora più spaventosa nel suo essere così formalizzata, dell’aggressività collettiva del genere umano, della sua storica e perdurante follia”, scrive Joyce Carol Oates in uno dei suoi articoli (raccolti in Sulla boxe), pur amando e conoscendo a fondo il pugilato.
Mi dice, Giovanni De Carolis, che questo “è uno sport di cui la maggior parte della gente conosce solo queste storie romanzate dove si spaccano il muso, i pugni li prendi, certo, ma io penso, anche da quando sono diventato papà, che se un figlio o una figlia ha una passione per qualche cosa ci sarà un motivo, e uno cerca il più possibile di capire quello che ci ha visto il figlio. Se io avessi dato retta a mia madre, per farla stare tranquilla non avrei costruito la mia vita su questa cosa qui, a parte il titolo mondiale il pugilato mi ha fatto conoscere persone, amici, avrei fatto comunque questo sport. La parte positiva e bella non viene raccontata”.
Ora sua madre ha capito, lo accetta, lo aiuta. Sua moglie è presente a tutti gli incontri e spesso anche la figlia più grande, che ha otto anni. Andranno con lui anche a Berlino, sabato 16 luglio, a trattenere il fiato per il tempo dell’incontro, a sperare che vinca di nuovo, che si confermi il migliore del mondo, che continui a danzare. Ci andrà anche l’altra parte della famiglia: Italo e Gigi, con l’orgoglio di chi ha saputo crescere un campione sportivo.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it