Scala di cuori servita dal quattro al nove, senza pinelle né jolly. Non si lascia a terra una mano del genere, per nessun motivo. Così, mentre gli altri giocatori si avvicinano al furgone che ha portato gli aiuti alimentari, Damir si alza sbuffando. “Non guardarmi i punti, eh?”, dice sorridendo. Poi appoggia sul tavolo le carte che hanno sul dorso il logo di una catena di supermercati e si mette al lavoro con gli altri per scaricare i pacchi con la pasta e il latte.
Sono in viale della Resistenza a Scampia. Il Comparto 12 è un lotto costituito da tre aree, all’interno ci sono la stazione dei carabinieri, la sede della municipalità e l’auditorium del quartiere. È in quest’ultimo spazio che vivono da circa un mese sessanta rom, dopo che le baracche del campo di via Cupa Perillo in cui abitavano sono state distrutte da un incendio divampato in un pomeriggio arido di fine agosto. È una soluzione d’emergenza, il comune di Napoli ha annunciato l’allestimento di una tendopoli nella caserma Boscariello, nel vicino quartiere di Miano, dove dovrebbero trasferirsi insieme ad altre duecentocinquanta persone che sono rimaste nel campo dopo l’incendio. Ma anche questo spostamento è temporaneo, visto che i rom nella caserma dovrebbero rimanere solo per tre mesi.
L’intero insediamento di Cupa Perillo è stato nel frattempo dichiarato inabitabile dall’Arpac e dall’Asl, che ha segnalato la “grave situazione igienico sanitaria” e “le precarie condizioni di vita dei suoi abitanti, che tendono ad aumentare ulteriormente il grado di pregiudizio verso la popolazione rom da parte dei cittadini”. Per Arpac e Asl c’è bisogno di una bonifica dell’area, specie dopo il rogo che ha aumentato la presenza di gas inquinanti come benzene e ossidi di azoto.
Una domenica tra le fiamme
Per capire come siamo arrivati fino a qui, bisogna però fare un passo indietro. Sono le due del pomeriggio di domenica 27 agosto quando Damir e i suoi familiari si accorgono dell’avanzare delle fiamme. Secondo loro, l’incendio divampa in un terreno vicino al campo di Cupa Perillo, appiccato da un contadino che vuole bruciare rovi ed erbacce. A causa del vento, però, le fiamme si propagano a gran velocità. Le baracche cominciano a bruciare, seguite da alcune auto. La gente urla e scappa, Damir si precipita per tirar fuori le bombole del gas dalle abitazioni. Ci riesce, ma nel frattempo il fuoco raggiunge un’area di rifiuti e sterpaglie dove sono state buttate altre bombole, usate e mai smaltite.
Cominciano le esplosioni, saltano in aria anche le automobili. La cenere che cade dal cielo accende nuovi focolai a decine di metri l’uno dall’altro. A Damir e agli altri abitanti del campo non resta che mettersi in salvo sugli stradoni di Scampia. “Al telefono i vigili urbani ci dicevano che l’incendio l’avevamo causato noi e perciò non li riguardava”, racconta S., così spaventato da chiedere di non scrivere il suo nome per intero. Pompieri e carabinieri invece rispondono, ma c’è da aspettare: e così il tempo passa e le fiamme avanzano.
Dopo più di un’ora arrivano i mezzi di soccorso. “Anche mentre spegnevano l’incendio ci hanno trattato come bestie”, ricorda Damir. “Il campo andava a fuoco, ma i primi cinque o sei camion li hanno mandati dal lato di Mugnano, dov’era divampato l’incendio, mentre uno solo saliva da noi, dove intanto bruciavano le case”.
Per molte ore, dopo l’incendio, quella domenica pomeriggio i rom rimangono in strada. Nessuno si preoccupa di dirgli dove trascorrere la notte, fino a che, spente le fiamme, la polizia gli permettere di rientrare nelle baracche: quelli che hanno ancora un tetto possono andare a dormire tra quattro mura bruciacchiate, ma decine di altre persone non sanno che fare perché il fuoco ha distrutto le loro abitazioni. Solo dopo mezzanotte il comune dà il via libera per una sistemazione temporanea nell’auditorium del Comparto 12.
Per molti giorni, prima che comincino le operazioni di rimozione dei detriti, buona parte del campo rimane ricoperta di cenere. Arrivando da Scampia lo scenario è quello di una distesa di terra arsa, con alberi rinsecchiti, carcasse di automobili bruciate, quel che resta di un muro distrutto. Solo il caso e l’aver portato via all’ultimo minuto le bombole di gas dalle abitazioni hanno evitato conseguenze più gravi.
“Ma l’ipotesi del dolo è tutt’altro che esclusa”, dice Emma Ferulano, attivista dell’associazione Chi rom e chi no, che da anni lavora all’interno del campo al fianco dei suoi abitanti. “La polizia ha aperto le indagini per provare a individuare i responsabili. Purtroppo non sarebbe la prima volta che in città, soprattutto in prossimità di uno sgombero, qualcuno cerchi di accelerare le operazioni o mettere in fuga i rom lanciando molotov e bruciando le baracche”, spiega.
Rom, italiani, napoletani
Nell’auditorium l’amministrazione ha messo delle brande e poco altro. Nel teatro c’è una doccia per sessanta persone; gli assistenti sociali si sono visti solo il giorno in cui le persone si sono trasferite qui; gli impiegati della Napoli servizi, l’azienda comunale che si occupa della pulizia e della manutenzione ordinaria della struttura, si rifiutano fin dal giorno dell’arrivo dei rom di fare le pulizie, passando gran parte del turno di lavoro a fumare sulle panchine del Comparto 12.
La gestione è stata affidata ai mediatori della cooperativa L’uomo e il legno, aiutati dagli attivisti di un comitato nato qualche mese fa per promuovere il superamento del campo e il trasferimento dei rom in case degne di questo nome. Davanti all’auditorium stazionano a turno anche un paio di vigili urbani, che allontanano i giornalisti e vietano a chiunque di entrare nell’area dove si trovano le brande, separate l’una dall’altra da teloni di plastica blu. “È pesante stare qui”, spiega Radosajevic, seduto su una panchina di pietra del comparto, “siamo sospesi, non sappiamo che fine faremo. La sera ci corichiamo sui materassi, uno addosso all’altro. I bambini all’inizio erano elettrizzati perché è una situazione nuova, ma non sono sereni. Non hanno i loro giochi, non hanno la televisione, finiscono per rincorrersi tutto il tempo e una volta che si sono svegliati non li fermi più”.
I figli e i nipoti di Radosajevic, Damir, Goran, sono tutti nati e cresciuti nel campo di Scampia, quartiere dove i rom sono arrivati negli anni settanta, prima che molti napoletani vi si insediassero. Tra loro le persone con documenti italiani sono tante, come mostra un autocensimento promosso dal comitato Abitare Cupa Perillo, e ancor di più sono i bambini nati a Napoli che frequentano le scuole della zona. “I numeri parlano di una realtà diversa rispetto a quella descritta dall’amministrazione di Luigi de Magistris”, dicono gli attivisti dell’associazione Chi rom e chi no. “Gli abitanti del campo sono più di seicento, numero che rispecchia l’ultimo censimento comunale del 2015, ma ora le istituzioni cercano una sistemazione per poco più della metà, il che significherebbe l’esclusione di quasi duecento rom”.
A cosa serve l’emergenza
In pratica, si ripeterebbe quello che è successo prima dell’estate nella periferia industriale di Gianturco, quando sono stati sgomberati più di mille rom da un altro enorme insediamento, e solo per duecento di loro è stata trovata un’alternativa. Gli altri – con una metodologia che padre Alex Zanotelli ha definito “mobbing comunale” – hanno dovuto lasciare il campo prima dello sgombero, ricevendo pressioni e subendo ripetuti blitz della polizia municipale.
Le emergenze forniscono pretesti per forzature del genere. Ma se si guarda a quello che hanno fatto tutte le ultime amministrazioni comunali per i rom di Cupa Perillo, emergono solo soluzioni approssimative. Oltre all’indifferenza nei confronti di una comunità che abita nel quartiere da più di trent’anni. Nonostante i rom abbiano chiesto soluzioni per una vita migliore e i napoletani che abitano in quelle zone abbiano auspicato il superamento dei campi, negli ultimi vent’anni il comune non ha mai fatto niente per rispondere a queste richieste. Salvo aver pensato alla costruzione di un “villaggio” temporaneo fatto di strutture “socioassistenziali monoetniche”, in cui i rom avrebbero dovuto rimanere in attesa di non si sa bene cosa.
Il progetto ha attirato l’attenzione della Commissione europea, ma comunque non se ne è fatto nulla e l’amministrazione ha perso un finanziamento europeo di sette milioni di euro. Le cose sono andate avanti come sempre fino a che nel mese di luglio, all’incirca quaranta giorni prima dell’incendio, la procura di Napoli ha notificato a buona parte degli abitanti del campo un provvedimento di sgombero con scadenza l’11 settembre.
Mentre i rom restano in attesa, nel quartiere Miano un gruppo di persone ha cominciato a protestare contro la possibilità che alcuni di loro possano trasferirsi nella caserma Boscariello. Il comitato si è dato il nome di Miano protagonista e la sua portavoce – vicina al consigliere di Forza Italia Giuseppe Errichelli – è Lella Apredda, 50 anni, che rilascia interviste, arringa la folla e fomenta gli animi. In pochi giorni il gruppetto ha tappezzato il quartiere di manifesti contro i rom e organizzato volantinaggi. Durante i presìdi fuori della caserma si chiedeva a gran voce che i rom di Cupa Perillo fossero “divisi tra le diverse municipalità”, ma c’era anche chi urlava di non volerli “nemmeno per tre giorni”.
Gli animatori di Miano protagonista hanno fatto irruzione nei consigli di municipalità, parlando a nome della “cittadinanza”, ma finendo per litigare perfino tra loro. Nel corso dell’assemblea municipale di Miano, hanno fatto a botte con alcuni consiglieri di destra, accusati di essere troppo morbidi. In quella di Scampia, lo scontro più acceso è stato tra Apredda e Franchetiello “Capa ’e morto”, che nei suoi discorsi unisce la richiesta di diritti per gli ex detenuti alle solite accuse contro i rom – “ladri e stupratori”–, contro le associazioni che li sostengono –“pagate coi soldi nostri”– e contro i consiglieri che “con i rom fanno gli affari, e piantano la marijuana dietro le baracche”.
Negli stessi momenti in cui i consiglieri incassavano le offese di Capa ’e morto, l’assessora comunale al welfare Roberta Gaeta e il capo gabinetto Attilio Auricchio convocavano due riunioni in contemporanea per spiegare le scelte dell’amministrazione. Vale la pena raccontarle entrambe.
Sconforto e soddisfazione
Giovedì 7 settembre è il giorno che segna la fine dell’estate. Fin dalle prime ore della mattina un violento temporale si abbatte su Napoli – e in serata ci sarà il solito bilancio di tombini saltati, quartieri allagati, fogne otturate, voragini aperte nell’asfalto. Nell’atrio dell’auditorium le famiglie aspettano l’esito dell’incontro a cui hanno partecipato alcuni di loro, scelti dall’amministrazione. Verso pranzo arrivano le prime notizie, ma si capisce subito che non sono delle migliori.
Chi ha partecipato all’incontro racconta che bisognerà rimanere in teatro per almeno altri quindici giorni, visto che il comune non si è preoccupato ancora di delimitare le aree da sgomberare, né di formalizzare i risultati del censimento fatto dal comitato; anzi, negli incontri dei giorni precedenti, l’unica volta in cui il capo gabinetto Auricchio si è sbilanciato sul numero di persone da trasferire, ha lasciato trapelare la volontà, da parte del comune, di occuparsi di circa trecento persone, un numero parecchio inferiore a quello degli abitanti del campo.
Tra i rom qualcuno è rassegnato, qualcuno ha paura delle voci sulle possibili reazioni violente degli abitanti di Miano, qualcun altro sbotta: “È la solita storia! Ci mettono lì dentro, e poi si vede! Ma perché le soluzioni non le hanno trovate prima!”.
All’altro incontro, l’assessora Gaeta si è prodigata per rassicurare gli abitanti di Miano, che lasciano trapelare una certa soddisfazione: “Scenderemo in piazza affinché ciò che ci è stato promesso venga mantenuto, cioè che i rom ospitati nella caserma rimarranno lì solo per tre mesi, che saranno aiutati dalla protezione civile e per dire che noi, come associazione, continueremo a monitorare su tutto”, spiegano dal coordinamento Miano protagonista.
Oltre al trasferimento, l’assessora ha detto che presto comincerà la bonifica del campo di via Cupa Perillo, ma non si capisce come si possa fare dal momento che alcune baracche non sono sotto sequestro della procura di Napoli. Gaeta ha anche annunciato che saranno discusse possibili modifiche al “Progetto Cupa Perillo”, quello dei sette milioni persi, su cui pende sempre il giudizio della Commissione europea.
“Al netto delle eventuali modifiche”, spiega Nando Sigona, sociologo che lavora alll’università di Birmingham e che da anni si occupa della questione rom, “alla base di ogni discussione c’è un progetto che aveva sollevato polemiche al livello internazionale. Una soluzione temporanea, in fase di emergenza, può anche essere accettata. Ma mancano atti concreti per inserire i rom nei percorsi per l’assegnazione di una casa popolare. L’impressione è che, nonostante la legislazione internazionale vada in tutt’altra direzione, da queste parti le amministrazioni facciano una fatica enorme a immaginare soluzioni abitative stabili, che superino una logica segregativa e ghettizzante”.
È questo, al momento, tutto quello che ha da proporre la “città dell’accoglienza” a centinaia di persone che ci vivono da decenni.
Da sapere
I numeri. Secondo la prefettura nella provincia di Napoli vivono 2.754 rom. Oltre a chi è nato e cresciuto a Napoli, la maggior parte di loro è arrivata dall’ex Jugoslavia negli anni ottanta e dalla Romania dopo l’ingresso del paese nell’Unione europea. Tuttavia, il loro numero è sottostimato, visto che al censimento della prefettura non hanno partecipato molte persone. I rom a Napoli sono circa lo 0,22 per cento degli abitanti, una percentuale in linea con quella delle principali città italiane.
I campi. Gli insediamenti informali più numerosi sono nei quartieri di Scampia, Gianturco e Barra. Le strutture predisposte dal comune sono a Secondigliano, dove nel 2000 è stato costruito un “villaggio della solidarietà” che ospita settecento persone in novantadue container; e a Soccavo, dove dal 2005 più di cento persone vivono in un’ex scuola, con una media di due nuclei familiari per ogni aula.
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