Questa storia comincia qualche mese fa con delle lettere infilate nelle cassette della posta di alcuni edifici a Milano. Era il 29 maggio scorso e i palazzi erano quelli di via Tolstoi. I civici erano il 64, il 66, il 68, il 70, il 72 e il 74. Tutti nel quartiere Lorenteggio, vicino al Giambellino. Quando gli inquilini le hanno aperte si sono trovati davanti poche righe della Reale immobili che gli dicevano di andarsene una volta scaduti i loro contratti di affitto. Era in programma un intervento straordinario di “riqualificazione edilizia”. Per più di duecento famiglie che abitavano in quei palazzi non c’era più posto.
La Reale immobili è una controllata della Reale group, a cui fa capo anche la Reale mutua assicurazioni. A metà luglio l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran ne aveva incontrato i vertici e aveva spiegato che secondo il progetto della compagnia assicurativa la “riqualificazione prevede la demolizione e la ricostruzione del complesso”. A pochi passi dai palazzi ci sono i cantieri della nuova linea blu della metropolitana che aprirà nel 2023, e tutta la zona, a poche centinaia di metri dal Museo delle culture (Mudec), è da anni interessata da un processo di gentrificazione.
Nella lettera agli inquilini la compagnia assicurativa spiegava di voler “migliorare la qualità dell’abitare del comparto e dell’intero quartiere” e che pensava “alla realizzazione di soluzioni all’avanguardia” per “contribuire alla radicale trasformazione della città”. Messi alla porta da questa idea di futuro per Milano, molti degli inquilini si sono fatti sentire. Altri, che in via Tolstoi vivono da cinquant’anni, si sono fatti prendere dalla paura. Tutti hanno vissuto appesi a un filo per settimane. Il fantasma dello sfratto ha cominciato ad aggirarsi per i palazzi di via Tolstoi.
Solo a fine luglio hanno potuto tirare un sospiro di sollievo e solo dopo l’intervento del comune. Con una seconda lettera la proprietà si diceva “dispiaciuta per le preoccupazioni generate”. I contratti in scadenza sono stati rinnovati per quattro anni e la “realizzazione di soluzioni all’avanguardia” per il momento è stata fermata. Almeno fino a settembre, quando si aprirà un tavolo di confronto tra la proprietà e l’amministrazione comunale per cercare “soluzioni condivise e praticabili per tutti”.
Gli inquilini guardano a quegli incontri con un misto di speranza e angoscia. A una domanda specifica Reale mutua assicurazioni risponde che “non esiste e non è mai esistito un progetto definito per il complesso, né tantomeno una previsione di demolizione”. Ma le parole di Maran del luglio scorso testimoniano un’intenzione diversa.
Molte delle persone che vivono in via Tolstoi si chiedono per quanto tempo ancora resteranno in piedi i sei palazzi da nove piani costruiti nel 1965. Nel romanzo La vita, istruzioni per l’uso, Georges Perec scrive che “agli occhi di un individuo, di una famiglia, di una dinastia perfino, una città, una via, una casa, sembrano inalterabili, inaccessibili al tempo”, eppure “un giorno soprattutto, sarà la casa intera a scomparire, saranno la via e il quartiere che moriranno”. Nei sei palazzi di via Tolstoi ci sono 270 appartamenti in cui abitano circa 600-700 persone. Questa è la storia di sei di questi appartamenti. Delle persone che ci vivono. E di cosa significa passare le giornate senza sapere cosa ne sarà del tetto sopra la propria testa fra qualche anno.
Un inquilino di vecchia data
La famiglia Selmi abita al primo piano di uno dei palazzi di via Tolstoi. Sono in tre: Elio, 68 anni; la moglie Patrizia Lenti, 66 anni; il figlio Jacopo, 28 anni. Prima che i due figli più grandi andassero a vivere da un’altra parte vivevano in cinque in 84 metri quadri. In camera dei ragazzi c’è ancora il poster di Michel Platini e i loghi delle squadre di baseball americano.
Elio Selmi, che ha sempre abituato qui vicino, si ricorda di quando tra la circonvallazione e piazza Frattini c’erano i campi e i cortili, prima che negli anni sessanta le compagnie assicurative – qui la Reale, più in là la Generali – cominciassero a tirare su i palazzi per far posto ai nuovi cittadini di Milano. “Questo è sempre stato un quartiere della borghesia media”, spiega. Il padre di Selmi faceva l’operaio, voleva che suo figlio si diplomasse in ragioneria e andasse a lavorare in banca “per sistemarsi”, e lui lo fece. Con il suo stipendio da impiegato di banca riuscì a far laureare i tre figli, mentre la moglie faceva la casalinga. Adesso ha una buona pensione, non vuole dire quanto prende. L’affitto mensile è di 1.150 euro al mese, riscaldamento e spese comunali comprese.
In via Tolstoi arrivò nel 1987, prima era in affitto in via Caravaggio, poco lontano da qui, ma dentro la circonvallazione attraversata dalla linea 90, che per i milanesi delimita il centro, “dove vive una borghesia più agiata”, dice lui. “Spostandosi su via Lorenteggio verso l’esterno della città, oltre piazza Frattini”, continua Elio, “c’è invece una periferia più povera, di persone più sfortunate di noi. E io, adesso, non vorrei essere costretto ad andarci a vivere”. Parla delle case popolari a Lorenteggio e a Giambellino, dove parte dei vecchi edifici fatiscenti sono stati recentemente abbattuti.
Quando vennero ad abitare qui, dopo essere stati costretti a lasciare via Caravaggio per uno sfratto, i Selmi erano sollevati di avere come padrone di casa una compagnia assicurativa, pensavano che mai avrebbero dovuto lasciare casa. Elio, d’altronde, è consapevole che “le cose qui sono cambiate: a pochi passi c’è il Mudec (inaugurato nel 2014, ndr) e durante il Salone del mobile la zona di via Savona è uno dei centri degli eventi del Fuorisalone. Ma non pensavo che la questione abitativa e la gentrificazione potessero riguardarci da vicino”.
Un equilibrio delicato
A Massimo Marotta – Max per gli amici – il bilocale da 72 metri quadrati all’ottavo piano l’aveva trovato il padre tre anni fa, prima di morire, e a ricordarlo adesso un po’ si commuove. Serviva un appartamento senza corridoi stretti per far passare la carrozzina, niente scalini in casa o per entrare nel palazzo e un ascensore sufficientemente grande.
Una volta preso l’appartamento in affitto, è stato necessario rifare il bagno, montare porte scorrevoli per evitare intralci, comprare la cucina con lo spazio vuoto per le ginocchia sotto il lavandino e molto altro ancora. Marotta, 52 anni, è costretto in carrozzina da una malattia degenerativa diagnosticata nel 2002, ha dovuto smettere di lavorare nel 2011. Faceva il rappresentante di occhiali. Milanista – “Ai tempi di Gullit girai l’Europa per vederli giocare” – ha una pensione Enasarco di 300 euro. È aiutato dalla madre, Lidia Meli, 75 anni, che a sua volta prende duemila euro di pensione.
Se non avessero dei soldi da parte, non potrebbero permettersi la persona che aiuta Marotta 24 ore ore su 24, pagare l’affitto da 900 euro al mese e quella parte di cure mediche non coperte dalla mutua. In camera da letto appesa al muro c’è la foto di Massimo in mezzo agli amici d’infanzia, scattata anni prima. “Ci sono sempre, sono fantastici, lo aiutano in tutto”, racconta la madre.
L’equilibrio di tutti i giorni per Massimo non è facile. Conta molto sulla madre, ma è consapevole che anche lei, pur molto energica, è anziana, “e non posso chiamarla per tutto”. “Adesso se mi mandano via io cosa faccio? Stare qui per me era una tranquillità, è il quartiere dove ho sempre vissuto, qui mi conoscono e mi possono aiutare per strada. Non posso cercarmi un’altra casa, ricominciare da capo con le spese”.
I coinquilini
Maddalena Oppici, 34 anni, e Oscar Cini, 35, vivono da un anno e mezzo come coinquilini in un appartamento di 84 metri quadri: due stanze da letto, un salottino, la cucina con il balconcino che dà sul giardino, circa mille euro di affitto al mese, spese comprese (riscaldamento e condominio). A entrambi piace il quartiere, che è tranquillo. A poche centinaia di metri c’è la libreria Gogol, con un bel giardinetto subito dietro. Volendo la sera si arriva ai Navigli a piedi.
“Non mi pesa a 34 anni dover vivere insieme ad altri per dividere le spese d’affitto. Fosse per me vivrei anche in una comune. Semmai vorrei avere una casa più comoda, dover fare meno conti per arrivare a fine mese”, dice Oppici. Animatrice (di cartoni animati), illustratrice e designer a partita iva, ricava dalla sua attività principale circa diecimila euro lordi all’anno. Poi fa altri lavoretti che le permettono di sbarcare il lunario.
A Cini, invece, la convivenza pesa un po’: ha chiesto un aumento all’agenzia di comunicazione dove lavora, se glielo daranno pensa di cercarsi un monolocale da solo. In quattro anni a Milano ha cambiato sette-otto case, dormendo su brandine di ferro coperte malamente da materassi sottili, o in abitazioni dove semplici sgabuzzini venivano spacciati per camere singole. Prima di quest’ultimo lavoro, che gli piace e gli garantisce uno stipendio più alto di quelli avuti finora e con cui riesce a vivere meglio, aveva deciso di lasciare Milano e di tornare ad Avellino, dov’è nato: “Questa è una città con molte opportunità professionali per chi come fa comunicazione. I posti visti da fuori sono fighissimi, ma gli stipendi spesso non sono adeguati. Se con il telelavoro potessi trasferirmi ad Avellino e lasciare Milano, sarei la persona più felice del mondo”.
Una donna sola
Maria Rosa Maggioni, 76 anni, abita in via Tolstoi da cinquant’anni. Vive in un trilocale di 88 metri quadrati da 1.100 euro al mese, 1.330 con spese condominiali e riscaldamento. Lei e il marito Carlo Cova, perito esterno per la Reale, arrivarono nel 1970 in maniera un po’ rocambolesca: non erano ancora sposati perché il signor Cova era separato, ma la legge sul divorzio sarebbe arrivata solo nel dicembre di quell’anno. Cercavano un trilocale, ma erano disponibili solo bilocali. Un giorno, però, arrivò una telefonata dalla Reale: si era liberato un appartamento più grande.
Adesso Maggioni, che ha una pensione di 1.800 euro dopo aver lavorato tutta la vita, sta qui da sola con la cagnetta Angelina, che spesso porta a spasso la vicina Marzia. Maggioni non riesce a uscire molto a causa di una malattia ai polmoni. Soffre anche di connettivite e artrite reumatoide. La casa è piena di mobili antichi di legno massiccio, una collezione di sveglie, molti quadri, in parte ex proprietà della Banca del Monte di Lombardia, dove lavorava Carlo Cova. “Ma lo facevano impazzire perché loro erano molto religiosi e lui era divorziato: alla fine se ne andò”, racconta.
Su un piccolo foglio, con una grafia minuta, si è segnata tutte le cose che ha da dire sulla Reale mutua assicurazioni: “Non è più l’azienda di una volta, pensano solo a fare i soldi. Sono mesi che gli chiedo di rifare il bagno, in vasca da sola non riesco a entrare. Mi hanno detto: signora deve avere pazienza, c’è stato il covid-19. Io cosa devo fare? Aspetto sei mesi per lavarmi? Gli faccio scrivere da un avvocato”.
Vicino al letto c’è la bombola d’ossigeno, che le serve per dormire. Ogni due passi deve fermarsi a respirare. Ci sono foto del signor Cova e della sorella di Maggioni, morta giovane, su ogni tavolino. “A volte sono arrabbiata con loro, perché si sono arresi, e invece bisogna combattere. Sempre. Basta, bon, adesso sono sola. Questa casa è tutto quello che ho. La Reale lo deve sapere che io di qui me ne vado via solo da morta”.
Un momento difficile
La famiglia Zangari è arrivata in Via Tolstoi nel marzo del 2013 e secondo una raccomandata speditagli a giugno da Reale immobili avrebbe dovuto andarsene a marzo 2021, alla scadenza del contratto. A luglio una seconda raccomandata ha cancellato la prima: per quattro anni ancora potranno restare nel loro appartamento. Quando Vincenzo Zangari, 48 anni, e sua moglie Thidarat Sridaeng sono arrivati in questa casa di novanta metri quadri – due stanze da letto, un bagno, sala e cucina – Martina aveva quattro anni e Giovanni era appena nato. Da poco la coppia era tornata a Milano dalla Thailandia, dove la signora Sridaeng è nata e dove i due possiedono un ristorante sull’isola di Koh Samui. Dopo che si sono trasferiti, la madre di Vincenzo ha comprato casa poco lontano da qui, per seguire i nipoti. Giovanni, il più piccolo, gioca a calcio nell’Alcione, a dieci minuti di macchina da via Tolstoi. “Io qui pago 1.100 euro d’affitto più le spese, dove lo trovo nel quartiere un trilocale dove spostarmi? Si viaggia sui 1.700-1.800 euro al mese, non posso permettermeli”.
La notizia del progetto di riqualificazione dei palazzi di via Tolstoi è arrivata per la famiglia nel momento economicamente più difficile, con il ristorante in Thailandia che lavora a un decimo dei coperti perché a causa della pandemia turisti non se ne vedono più. Zangari dice che sta perdendo “un sacco di soldi”, non può comprare casa nel quartiere e la moglie, che non ha la patente e non lavora, vorrebbe che i figli continuassero a frequentare l’istituto Tolstoi, appena dietro le palizzate che delimitano il giardino condominiale. “Ho rifatto gli infissi, messo l’aria condizionata, comprato la cucina su misura”. In sala c’è ancora il vecchio parquet degli anni sessanta. “Volevo tornare a vivere nel mio quartiere di quando ero ragazzo, volevo che i miei figli crescessero dove sono cresciuto io. Quando siamo arrivati eravamo felicissimi”. Il rinnovo del contratto per altri quattro anni gli ha fatto tirare un sospiro, ma Zangari non smette di pensare a quello che succederà una volta scaduto quel termine.
Il pranzo della domenica
La domenica Eliseo Fico, 68 anni, prende una bottiglia di vino, scende dal quarto piano dove si trova il suo appartamento, attraversa il giardino condominiale e suona il campanello di Carlo e Wilma per il solito pranzo insieme. Il più delle volte c’è anche una zia della coppia, la signora Romana. “Se me ne dovrò andare tutto questo mi mancherà, mi mancheranno i vicini. A una certa età ti tolgono tutto, ti distruggono la vita dicendoti che qui ci devono fare delle case di lusso che tu non ti puoi permettere”.
Fico arrivò in via Tolstoi nel 1981 da Venezia, quando scelse di raggiungere suo fratello a Milano. Vivevano insieme, sempre in questo complesso, in un piccolo appartamento. Poi ne chiesero uno più grande. Quando il fratello si è trasferito a Como, Fico è venuto a vivere in questi 58 metri quadri dove oggi paga 650 euro di affitto, spese di riscaldamento e condominio comprese. “Sono solo da sempre”, dice mentre mostra i gioielli della casa: la riproduzione del Tiepolo dietro il divano, il quadro dipinto dal fratello, l’oboe del padre su un mobile fai da te ricavato da una vecchio pensile della cucina a cui ha aggiunto colonnine in granito e uova in porfido: “Un po’ Chippendale, un po’ liberty”.
“Lo so, con i soldi che ho speso di affitto in quarant’anni questa casa me la compravo più volte. Ma quando ero giovane avere una casa di proprietà era meno comune e il capitale di partenza non l’ho mai avuto”, spiega. E adesso, a 68 anni e con una pensione di 1.500 euro, dopo aver lavorato per oltre trent’anni all’università Statale come responsabile servizi generali e relazioni con il pubblico, a comprare non riesce. “Quando hanno cominciato i lavori per la metropolitana tutti erano contenti, io no. Avevo messo in conto che ci avrebbero alzato gli affitti. Quella lettera nella cassetta della posta in cui ci dicevano che ce ne dobbiamo andare, recapitata dopo i mesi della pandemia, quando tutti eravamo ancora spaventati… Posso dirlo? L’ho trovata una cosa cattiva”.
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