“È vero e altrettanto necessario che siano per tempo predisposti e periodicamente aggiornati, con il concorso di tutte le amministrazioni istituzionalmente competenti, adeguati piani di accoglienza, per evitare che il paese sia colto alla sprovvista da tali fenomeni di massa”.–Margherita Boniver, commissario straordinario del governo per gli interventi resi necessari dall’eccezionale afflusso di albanesi in Italia, giugno 1992.
Semhar aveva tutt’altra idea dell’Italia. Quando è arrivata con la figlia neonata, dopo una traversata in barca che racconta ancora tra le lacrime, credeva di essersi lasciata alle spalle tutti i guai. “L’Europa è la patria dei diritti. La mia vita ripartirà”, ricorda di aver pensato quel giorno di tre anni fa quando è stata salvata in mare e scortata verso “Lambedusa”, quel luogo dal suono sgangherato e magico che già aveva sentito correre di bocca in bocca sul camion nel deserto del Sahara.
Semhar è eritrea. Ha lasciato il suo paese clandestinamente per sfuggire a un servizio militare che per tutti – uomini e donne indistintamente – comincia un giorno e non si sa quando finisce. È fuggita in Sudan, ha attraversato il deserto ed è arrivata in Libia. Qui ha vissuto un anno, è rimasta incinta di un uomo che aveva conosciuto in viaggio e che ha poi sposato a Tripoli. Ha partorito in un ospedale tra le bombe della Nato – era l’aprile del 2011, nel pieno dell’offensiva contro Gheddafi – e poi col marito ha deciso di partire. La Libia non era più sicura; hanno preso un barcone verso “Lambedusa”. Duemila euro per tutti e tre, rifarsi una vita, offrirne una migliore alla loro bambina. Sono arrivati, stremati ma salvi. La piccola ha mostrato di essere forte, non ha mai pianto e anzi ha dormito parecchio durante i quattro giorni passati in mare.
Sull’isola hanno passato poche ore; li hanno portati rapidamente a Mineo, il grande centro per richiedenti asilo in provincia di Catania. Gli hanno preso le impronte digitali e gli hanno detto di aspettare. E loro hanno aspettato. “Le giornate lì erano sempre uguali; non c’era nulla da fare”, ricorda Semhar, che racconta come un giorno il marito sia uscito dal campo per andare a cercare dei medicinali e non è più tornato. “Forse si era scocciato, forse si è sentito male”, gli occhi le si inumidiscono, lasciando trasparire una ferita che solo il pudore non le fa mostrare in tutta la sua ampiezza.
Semhar ha trascorso un anno all’interno del centro d’accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo, ha contato i giorni che passavano uno uguale all’altro, ha tentato di scacciare il ricordo del marito scomparso. Poi ha avuto lo status di rifugiata ed è andata a Roma. Qui credeva di poter ricevere un aiuto da quello stato italiano che aveva riconosciuto il suo bisogno di protezione – qualche facilitazione per trovare un alloggio, un inserimento professionale, un sostegno per la bambina piccola. Ma ha capito presto che nulla di tutto ciò era previsto. O meglio: che qualcosa del genere era forse previsto per un numero molto esiguo di persone e che i tempi di attesa erano lunghi. Semhar si è stancata di aspettare e ha deciso di far da sé.
Oggi vive in via Curtatone, in uno dei palazzi occupati dai rifugiati eritrei nella capitale, un edificio di nove piani già sede dell’Istituto superiore di protezione ambientale. Vivendo della solidarietà dei compagni, o di qualche lavoretto che ogni tanto capita. Non è ovviamente l’Italia che si era immaginata, è quella in cui è costretta a vivere: le sue impronte digitali sono nel database Eurodac e, se volesse andare all’estero per cercare condizioni migliori, sarebbe rimandata indietro per effetto della convenzione di Dublino, secondo cui un rifugiato deve chiedere asilo e stabilirsi nel primo paese sicuro e non può andare altrove nell’Unione europea.
Prigioniera della non-accoglienza, ragazza madre in fuga dalla dittatura, Semhar ha solo la tenacia a salvarla dalla disperazione. E sua figlia con gli occhi vispi che sta crescendo da sola. Nella stanza al primo piano di questo palazzo al centro di Roma, a due passi dalla stazione Termini, ha poche cose: un televisore, un letto e una Bibbia in lingua tigrina. Il libro dalla copertina blu ha le pagine consumate, ha attraversato con lei il deserto e il mare. Semhar se l’è trascinato dietro per tutto il viaggio. Come un salvagente, a cui si è aggrappata e si aggrappa nei momenti di maggiore sconforto.
La sua storia è il paradigma del sistema di accoglienza Italia, fatto di attese interminabili, costi sproporzionati e un approccio sempre e comunque basato sull’emergenza. Nel 2011, l’anno in cui è arrivata, il numero dei cosiddetti sbarchi è stato definito “eccezionale”: la rivoluzione in Tunisia prima, la guerra in Libia poi, avevano fatto lievitare gli arrivi fino alla cifra mai toccata prima di 63mila persone.
Questo aveva spinto il governo di allora – alla presidenza del consiglio Silvio Berlusconi, al ministero dell’interno Roberto Maroni – a decretare la cosiddetta emergenza Nordafrica e approntare un sistema d’accoglienza straordinario, in cui accanto a quello “ordinario” si dava mandato alle prefetture di identificare palestre, alberghi, palasport e luoghi di vario genere da adibire a strutture per i migranti arrivati via mare.
In tutta la penisola si è sviluppato un sistema diffuso di centri, con cooperative, associazioni, soggetti vari già operanti nel terzo settore oppure del tutto improvvisati che hanno risposto all’appello, accogliendo migranti a fronte di una retta media di 45 euro al giorno. L’emergenza è stata chiusa per decreto il 28 febbraio 2013 dal ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, durante il governo presieduto da Mario Monti. I migranti che ancora erano dentro le strutture sono stati invitati ad andar via, con una buonuscita di 500 euro. Arrivederci e grazie.
Sono passati tre anni dall’inizio dell’“emergenza Nordafrica” e oggi siamo al punto di partenza. Nell’ultimo anno – complici la guerra in Siria e la situazione drammatica sul terreno in Libia – i flussi via mare sono ricominciati. Dall’inizio del 2014 a oggi, in Italia sono arrivati 160mila immigrati, la maggior parte soccorsa dai mezzi navali dell’operazione Mare nostrum, inaugurata il 18 ottobre 2013 dal governo italiano dopo la morte di circa 600 migranti in due naufragi al largo di Lampedusa e chiusa ufficialmente il 1 novembre scorso.
Di quelli che sono arrivati, molti si sono dispersi in giro per l’Europa, anche grazie a un’applicazione permissiva da parte del governo italiano dell’obbligo di identificarli mediante le impronte digitali. Ma per gli altri si è approntato un sistema del tutto analogo a quello del 2011.
Oltre alla cosiddetta accoglienza ordinaria, è stato chiesto alle prefetture di identificare luoghi temporanei dove piazzarli: di nuovo alberghi, palestre, palazzetti dello sport e altre strutture palesemente inadeguate – come il Tropicana, un night club a Ragusa dove le brandine per gli ospiti sono state collocate sulle piste da ballo in disuso. Centri di accoglienza straordinaria (Cas), come sono stati chiamati, sono stati aperti sia per i migranti adulti sia per i minori stranieri non accompagnati, che in quest’ultimo periodo sono arrivati in numero molto più alto del solito – 11.507 dal gennaio all’ottobre 2014, secondo i dati di Save the Children.
E. è uno dei minori arrivati da soli. Alto e slanciato, una voce impostata e una padronanza di linguaggio che lo fanno sembrare molto più grande dei suoi 17 anni, questo ragazzo del Gambia si è sobbarcato un viaggio estenuante dal suo paese attraverso tutta l’Africa occidentale e la Libia. Si è imbarcato a Tripoli, è stato soccorso dalla marina militare italiana ed è arrivato nel porto di Augusta. Da qui l’hanno trasferito al centro Papa Francesco di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, una palazzina a due piani con un bel giardino, in cui convive con un’altra novantina di minori stranieri.
Sarebbe dovuto rimanere al massimo 72 ore in questa struttura; invece langue qui da quattro mesi, trascorrendo i giorni tra partite di calcetto, i corsi di italiano forniti da alcuni volontari e altre attività messe in piedi dagli operatori, che fanno del loro meglio per dare una parvenza di senso alla quotidianità altrimenti monotona degli ospiti. Il suo destino è simile a quello di gran parte delle migliaia di minori non accompagnati arrivati nel 2014: parcheggiati nei centri, in attesa dell’assegnazione di un tutore e del trasferimento in una comunità di assistenza. E. non capisce perché ci voglia tanto e non si sente a suo agio in questa situazione sospesa. “Qui mi danno da mangiare e da vestire, ma io sono giovane e forte. Vorrei lavorare. Vorrei guadagnarmi il pane che mangio con il sudore della mia fronte”, dice nel suo inglese forbito.
L’inazione, l’incertezza del futuro, la mancanza di spiegazioni sono elementi strutturali di buona parte del sistema d’accoglienza, tanto per i minori che per gli adulti. “Questa sospensione temporale crea problemi inattesi ai migranti. Riattiva in loro i traumi delle violenze subite durante il viaggio. Arrivati in Italia, vivono infatti un nuovo disagio, che non avevano previsto: li portano in centri di primo soccorso dove dovrebbero stare massimo tre giorni e dove finiscono per passare anche sei mesi. In questo modo, si trasmette loro l’impressione di un paese che non li vuole e che non è pronto ad accoglierli”, spiega Lilian Pizzi, psicologa di Terres des hommes che lavora in questo e in altri centri per minori in Sicilia.
I centri di assistenza straordinaria sono l’esempio di come è gestito il fenomeno immigrazione nel nostro paese: lo straordinario che diventa ordinario; l’emergenza che diventa strutturale e la continua deroga alle normative, che finisce per penalizzare il migrante e trasformarlo in soggetto passivo di decisioni che non riesce a capire.
Una cipolla a più strati
Accanto e parallelamente a questi centri straordinari, rimangono e si sviluppano i livelli dell’accoglienza ordinaria per quanti decidono di chiedere asilo: i Cara – come quello di Mineo, dove Semhar ha passato un anno senza fare granché – o i centri del cosiddetto sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), un servizio più articolato che almeno in linea teorica accompagna il migrante in un percorso di inclusione nella società fatto di apprendimento della lingua e di formazione professionale.
Ed è così che si presenta oggi l’accoglienza made in Italy. Una cipolla a più strati: i Cas, parcheggi in cui il migrante vive in una dimensione d’indeterminatezza e di servizi scarsi o inesistenti. I Cara, luoghi in cui i richiedenti asilo dovrebbero stare fino a 35 giorni in attesa che la loro pratica sia esaminata dalla commissione territoriale competente e dove invece rimangono in media tra i 9 e i 12 mesi. E i centri dello Sprar, che sono considerati il fiore all’occhiello di un sistema altrimenti del tutto deficitario.
Per quale ragione una persona finisce in una struttura piuttosto che in un’altra? “Pura questione di fortuna”, dice Ivan Mei, operatore sociale e membro di Laboratorio 53, un’associazione attiva a Roma nel sostegno e nell’inclusione dei migranti. L’analisi delle cifre mostra come la fortuna bacia meno di un terzo dei pretendenti: delle 61.238 persone attualmente in accoglienza, più della metà (32.335) sono in centri temporanei, 10.206 nei Cara e 18.697 in strutture afferenti allo Sprar. “Il destino dei richiedenti asilo è affidato al caso: per ragioni puramente congiunturali, la disponibilità di posti o persino l’umore del funzionario di turno, la prefettura può inviare una persona in un centro straordinario, in un Cara, oppure in un centro Sprar”, osserva Mei. “È una specie di lotteria”.
Le falle del sistema d’accoglienza italiano sono state oggetto di varie denunce e condanne internazionali. Ultima in ordine di tempo, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha dichiarato, in una sentenza del 4 novembre, che la decisione della Svizzera di rimandare in Italia una famiglia afgana di otto persone in base alla convenzione di Dublino doveva essere bloccata finché l’Italia non avesse dato sufficienti garanzie sul loro alloggio. Secondo i giudici, “non è infondato ritenere che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza”.
Le strutture insalubri cui fanno riferimento i giudici di Strasburgo sono i palazzi occupati come quello dove vive Semhar o i Cara, gli enormi centri dove sono dislocati i richiedenti asilo, senza grandi prospettive, in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che deve decidere se assegnare loro la protezione internazionale. Ce ne sono 13 in giro per la penisola, per lo più al sud, con capienze variabili che vanno dai cento ai mille posti. E poi c’è Mineo.
Ex comprensorio utilizzato dai marines statunitensi di stanza nella base di Sigonella, il “villaggio degli aranci” sorge nel bel mezzo della statale che da Catania va a Gela, una distesa di pianure baciate dal sole e di campi coltivati. È una teoria di villette a schiera color pastello con giardinetti dotati di giochi per bambini, larghi viali e campi di calcetto e di basket.
Quando i soldati statunitensi l’hanno abbandonato, alla fine del 2010, è rimasto sfitto. Ma non per molto: nel pieno dell’emergenza Nordafrica, il governo di Silvio Berlusconi ha avuto l’idea di riutilizzarlo per ospitare i richiedenti asilo. Con i suoi circa quattromila abitanti, è il centro d’accoglienza più grande d’Europa. Un vero e proprio villaggio a parte, con le sue dinamiche sociali, i suoi rapporti di potere e tensioni permanenti tra le diverse comunità che sono costrette a conviverci. Gli “ospiti” rimangono all’interno per tempi infiniti: l’anno che ci ha passato Semhar non è un caso eccezionale. Lì dentro, si consumano in un limbo d’indeterminatezza e incomprensione, in un non luogo in cui l’unico contatto con il paese d’accoglienza è rappresentato dagli operatori e dai soldati in tuta mimetica che ne pattugliano l’ingresso.
Mineo è l’emblema del sistema Cara: lontano dai centri abitati, è un mondo a sé, in cui il richiedente asilo vive una situazione di spaesamento e di distanza dalla realtà. Perché, se è vero che questo centro le condensa all’eccesso, è anche vero che quasi tutte queste strutture presentano le stesse caratteristiche. Da Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, a Castelnuovo di Porto, vicino a Roma, dal centro di Crotone a quello di Bari Palese, i Cara sembrano rispondere nel loro insieme a una precisa strategia – tenere i richiedenti asilo lontani dalla “popolazione autoctona”, ridurre al massimo ogni commistione con la società d’accoglienza, impedire di fatto la tanto acclamata “integrazione”. I migranti hanno la possibilità di uscire, ma la posizione di gran parte di questi centri li confina di fatto al loro interno, senza possibilità di spostamento. Il “villaggio degli aranci” dista da Catania circa 50 chilometri, su una strada servita da scarsissimi mezzi pubblici.
“La convenzione di Dublino è una camicia di Nesso”
“Mineo è un tumore, va chiuso”. Il prefetto Mario Morcone non usa mezzi termini quando parla del Cara catanese. Capo del dipartimento libertà civili e immigrazione al ministero dell’interno, l’uomo è un veterano: ricoprendo lo stesso incarico tra il 2006 e il 2010, ha dovuto gestire i flussi in arrivo a Lampedusa e il delicato periodo dei respingimenti in mare, al termine del quale l’Italia è stata condannata senza appello dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Morcone è esperto e pragmatico. Va dritto al punto. Senza usare la lingua felpata dei funzionari ministeriali, riconosce i problemi e le disfunzioni del sistema, chiama le cause con il loro nome. “Spesso la gestione dell’immigrazione è stata strumentalizzata dalla politica”. Mentre parliamo nel suo ufficio al primo piano del Viminale, il suo telefono tintinna di messaggi che lo aggiornano in tempo reale sulle operazioni di salvataggio in mare. “Questi mi disturbano perché ne hanno salvati cento. Ma cento me li porto a casa mia!”.
Morcone è tornato al suo vecchio incarico nel giugno scorso, e oggi è uno degli ideatori di un nuovo sistema di accoglienza che sulla carta ha l’obiettivo di superare la “logica puramente emergenziale”. Il progetto si propone di fare un primo esame rapido dei migranti arrivati via mare in una serie di centri dislocati in ogni regione, dove dovrebbero rimanere solo alcuni giorni e poi essere instradati verso centri più strutturati. “Stiamo cercando di rafforzare lo Sprar e ridurre al minimo l’utilizzo dei Cara e dei centri straordinari”.
Il progetto è lodevole, ma i conti non sembrano tornare: i posti negli Sprar, che pure sono aumentati notevolmente nell’ultimo anno, sono comunque insufficienti e rappresentano appena un terzo della capacità di accoglienza necessaria per gestire questo flusso. E allora? Morcone allarga le braccia. “Faremo quello che riusciremo a fare. È un work in progress. Intanto, per la prima volta, abbiamo istituito un tavolo al ministero a cui partecipano tutti gli attori coinvolti nel sistema d’accoglienza: il Viminale, le regioni, i comuni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr)”.
Lo stesso cauto ottimismo si respira dalle parti della sede dell’ufficio centrale di coordinamento Sprar. “Si stanno facendo passi avanti”, sostiene Daniela Di Capua, direttrice del programma. “Il tavolo riunito al Viminale e l’aumento dei posti nelle strutture che fanno capo al nostro servizio sono segnali più che incoraggianti”. Già fanalino di coda dell’accoglienza a strati, i posti nello Sprar nell’ultimo anno sono aumentati dai circa tremila del 2013 all’attuale picco di 20.952 per il triennio 2014-2016. Il che vuol dire che forse oggi Semhar otterrebbe il posto che non ha trovato nel 2011.
Cosa ha spinto il governo a questa inversione di rotta? Di Capua non ha dubbi: “L’emergenza Nordafrica del 2011-2013 è stata gestita così male e con un tale dispendio inutile di risorse che è servita da monito”. Ma quante sono le risorse sperperate in quel periodo? Non poche: 1,3 miliardi di euro, un importo pro capite per migrante accolto tra i quindicimila e i ventimila , come si può leggere nel Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2014. Quanti di questi soldi sono serviti per attivare percorsi positivi d’integrazione? “Quasi zero”, risponde sconsolata Di Capua. “L’emergenza Nordafrica è stata un vero e proprio disastro”.
Una gallina dalle uova d’oro
Un disastro sì, ma forse non per tutti, perché “il punto tuttavia non è quanti soldi si spendono, ma come sono investiti”. La direttrice dello Sprar insiste su questo: il tema dei fondi destinati all’accoglienza di migranti e richiedenti asilo “è mal posto”. “Non si tratta di un lusso che possiamo permetterci o meno. È un obbligo sancito dalla Costituzione e dalle normative internazionali”.
Anche Morcone è perentorio su questo punto: “A meno che non vogliamo uscire dalla comunità internazionale, non possiamo derogare ai nostri obblighi in merito all’accoglienza”. Poi, certo, secondo lui come secondo il ministro dell’interno Angelino Alfano e buona parte delle organizzazioni che si occupano di asilo, bisognerebbe riformare quella convenzione di Dublino che intrappola i rifugiati in Italia anche quando hanno parenti in altri paesi europei. “Si tratta di una contraddizione in termini: in un’Europa dove persone e merci circolano liberamente, blocchiamo solo i rifugiati. È una camicia di Nesso”.
Ma quanto costa oggi e chi ci guadagna dall’accoglienza a cipolla all’italiana? Attualmente per ogni richiedente asilo lo stato versa in media 35 euro al giorno agli enti gestori dei centri, con cui questi assicurano vitto, alloggio, vestiti, qualche corso e una somma di 2,5 euro fornita agli ospiti per le piccole spese. “Durante gli scontri di Tor Sapienza, abbiamo sentito di tutto: residenti inferociti convinti che lo stato versa 35-40 euro direttamente ai migranti. Una bufala mostruosa e pericolosa, perché alimenta il razzismo”, precisa Di Capua.
Questi 35 euro sono corrisposti agli enti gestori di tutti i centri. Per le strutture con grande capienza e pochi servizi, come i Cara e buona parte dei Cas, si tratta di un’opportunità di business non indifferente: il centro di Mineo, che ha ufficialmente duemila posti ma che arriva a ospitare anche quattromila persone, frutta a chi lo gestisce tra i 70mila e i 140mila euro al giorno. Il contratto di assegnazione, recentemente confermato, prevede una spesa di 97,9 milioni di euro per tre anni, da corrispondere all’ente gestore, un consorzio di aziende e cooperative che vanta forti legami con la politica siciliana, tanto a destra che a sinistra.
Avere un’emergenza, parlare di emergenza, alimentare l’emergenza è utile a molti e la recente inchiesta aperta a Roma mostra in modo lampante come il business dell’accoglienza sia diventato strumento di spartizione di potere
Grandi ditte, consorzi di vario genere, piccoli e medi imprenditori si sono gettati nel settore dell’accoglienza, traendone profitti considerevoli. La gestione straordinaria dell’emergenza si è rivelata in questi anni una gallina dalle uova d’oro. Come ha sintetizzato Salvatore Buzzi, presidente del consorzio di cooperative Eriches che gestisce molti luoghi per l’accoglienza a Roma, nelle intercettazioni emerse dall’inchiesta Mafia Capitale, “si fanno più soldi con gli immigrati che con il traffico di droga”.
Grandi colossi, come la Domus Caritatis (legata all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e Trifone e vicina a Comunione e Liberazione) o la Cascina, azienda già specializzata in servizi di catering in ospedali e mense in mezza Italia, hanno ottenuto appalti importanti nella gestione di diversi centri. Insieme ad altri, sono presenti nel consorzio che gestisce il Cara di Mineo. Due anni fa, nel pieno dell’emergenza Nordafrica, la Domus Caritatis è finita in mezzo a uno scandalo di adulti spacciati per minori non accompagnati per ottenere rette più alte, denunciato da Save the Children.
Quali sono le cifre che ruotano intorno all’accoglienza? “Tra i 700 e gli 800 milioni all’anno”, afferma Morcone. Di questi, una porzione minima arriva dall’Unione europea, attraverso il Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami), che destina all’Italia per il periodo 2014-2020 poco più di 320 milioni di euro, ossia circa 45 milioni l’anno. Il resto lo mette il governo centrale.
Visti i numeri è facile capire perché, come sostiene Buzzi, gli immigrati fruttano più del traffico droga. E forse anche perché il sistema dell’emergenza sia stato tenuto in piedi per tutto questo tempo nonostante la sua palese inadeguatezza e la consapevolezza che l’immigrazione non è una casualità imprevista ma un fenomeno che investe strutturalmente il nostro paese da almeno vent’anni. Avere un’emergenza, parlare di emergenza, alimentare l’emergenza è utile a molti e la recente inchiesta aperta a Roma mostra in modo lampante come il business dell’accoglienza sia diventato strumento di spartizione di potere, creazione di clientele e gestione di influenze politiche. Non sarà anche per questo che lo Sprar è rimasto fino a oggi la Cenerentola del sistema?
Sono infatti soprattutto i centri con più capienza, come i Cara e i Cas, che garantiscono i profitti più alti, per la legge dei grandi numeri e per gli scarsi controlli a cui sono sottoposti, che diventano del tutto inesistenti in un periodo d’emergenza. Gli Sprar sono invece in generale strutture più piccole, dove richiedenti asilo e rifugiati sono seguiti secondo percorsi individuali.
Si potrebbe pensare che i posti di questo sistema, con tutti i servizi che vi sono garantiti, costino molto di più. E che, in un momento di austerità e di tagli alla spesa, sia per questo che il modello non è generalizzato. Ma non è così. Lo Sprar costa esattamente la stessa cifra dei Cas e dei Cara: 35 euro per ospite. Perché allora non si smantellano questi ultimi a vantaggio di quello che tutti – anche in Europa – ritengono un sistema molto più efficiente? Perché si perpetua il circolo dell’emergenza e dei Cara, che non solo non produce risultati positivi, ma è anche occasione di malaffare e di profitti illeciti? Morcone dà una risposta tecnica: “Per i posti Sprar ci vuole l’accordo degli enti locali. Alcune regioni e comuni recalcitrano a ospitare rifugiati e richiedenti asilo”.
Mentre i Cara e i Cas sono aperti dalle prefetture per lo più in aree demaniali dismesse o in edifici privati per lo più lontani dai centri abitati, gli Sprar rispondono alla logica opposta: devono essere integrati nel territorio, avere con il quartiere circostante una relazione, garantire un percorso di scambio e d’inclusione. “Gli enti locali devono fare uno sforzo e capire che per loro gli Sprar sono un’opportunità, sia perché sul medio periodo gli immigrati si rivelano una risorsa sia perché nell’immediato questi garantiscono occupazione nel territorio. La gran parte dei posti di lavoro in Calabria e in Sicilia in questi ultimi anni è stata creata grazie all’accoglienza dei migranti”, esclama Morcone.
Ma non sempre la prassi segue il buon senso e, in un momento come questo di recessione e crisi, lo straniero “indolente e parassita” diventa il facile capro espiatorio di tutte le frustrazioni, come dimostrano le recenti rivolte nelle periferie romane contro i centri di accoglienza. E la politica finisce per seguire e cavalcare le retoriche di pancia, invece di proporre una visione a più lungo termine. Così capita che il ministro dell’interno Angelino Alfano giustifichi gli attacchi razzisti di Tor Sapienza con “l’eccesso d’accoglienza”.
Così i sindaci e i governatori di molte regioni si oppongono alla creazione dei posti Sprar. E così i grandi – e più che ragionevoli – piani del Viminale rischiano di rimanere lettera morta e la gestione dell’immigrazione finisce per essere occasione di business per imprenditori e faccendieri con pochi scrupoli. Con buona pace degli immigrati che potrebbero essere una “risorsa per un paese che invecchia”, alza le spalle Morcone.
Domani, passata l’ennesima emergenza, quelli che arrivano e che arriveranno spereranno solo una cosa: sfuggire all’identificazione e proseguire verso mete più accoglienti. O, in subordine e se identificati, vincere un posto in prima fila nella lotteria dell’accoglienza made in Italy. A Semhar e agli altri, invece di garantire dei diritti, non ci resta che augurare buona fortuna.
È un giornalista italiano. Ha scritto Land grabbing (Minimum fax 2011). Con Andrea Segre ha girato Mare chiuso (2012). È su Twitter: @abutiago
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