Nella “giungla” di Calais è stato battuto un nuovo record. È la stessa prefettura ad ammetterlo: il 17 agosto nell’accampamento di fortuna allestito alla periferia della città francese sono stati censiti 6.901 migranti, 2.415 in più rispetto all’ultimo controllo, svolto il 13 giugno.

Da un anno lo stato cerca in tutti i modi di limitare l’affollamento nel campo. L’obiettivo è mantenere a Calais solo i 1.900 posti letto affidati alla gestione dell’associazione Vie active: 400 letti per le donne e i bambini nei prefabbricati e 1.500 nei container per gli uomini. Per rispettare quest’obiettivo, lo scorso marzo la vegetazione in gran parte della giungla era stata distrutta ed era stato approvato il divieto di montare tende o organizzare accampamenti.

Era stata sgomberata anche la striscia di terra larga cento metri lungo la strada che costeggia il porto, ormai presidiata in modo permanente dalle forze dell’ordine per impedire il passaggio dei migranti che cercano di salire sui camion diretti nel Regno Unito. Lo spazio occupato dall’accampamento si era ridotto ed era aumentato il numero dei migranti che si spostavano nei centri di accoglienza e di orientamento (Cao) sparsi in tutta la Francia, dove è possibile presentare domanda di asilo. Questi provvedimenti e le partenze verso il Regno Unito, continuate nonostante i rigorosi controlli, avevano ridotto la pressione migratoria a Calais, dove erano rimaste circa 3.500 persone.

La città fantasma
Ma la realtà è testarda e con l’estate i profughi sono tornati. In Siria e in Iraq la guerra continua, e la situazione non è migliorata né in Eritrea né in Sud Sudan. Con il bel tempo, inoltre, la traversata del Mediterraneo è più facile, e molti migranti espulsi da Parigi si sono spostati a Calais. “Ormai è il posto dove va chi vuole fare domanda di asilo politico”, osserva Maya Konforti dell’associazione Auberge des migrants. “Grazie al passaparola tutti sanno che qui ci sono ong che possono aiutarli”. Da Calais è anche più facile trovare posto in un centro d’accoglienza. “Ci sono tre partenze verso i centri ogni settimana: il martedì, il mercoledì e il giovedì”, spiega la volontaria. “Ma le strutture sono piene. Il 17 agosto c’erano venti posti, e venti persone non sono potute partire. La gente dorme sul marciapiedi per avere una possibilità di essere ammessa nei centri. Il sistema è saturo, ma meno che a Parigi”. Lo stato ha promesso altri cinquemila posti a breve.

Oggi ci sono più persone che un anno fa, ma su un terzo della superficie

A Calais, quindi, i profughi sono più numerosi oggi che nell’estate del 2015, nella fase più acuta della crisi migratoria, quando la prefettura ne aveva contati seimila. Il risultato delle ultime scelte in materia è surreale: il campo ha assunto le sembianze di un fortino circondato da collinette di sabbia affollate dai profughi nelle tende. Intorno c’è il vuoto. Nel frattempo la vegetazione ha riconquistato il suo spazio. Dove sei mesi fa c’era una città, rimangono solo la chiesa cristiana ortodossa degli eritrei, costruita con teli di plastica e pedane di legno, e la scuola laica sulle dune, con le sue baracche di legno. “Oggi ci sono più persone che un anno fa, ma su un terzo della superficie”, spiega Konforti. E non è possibile costruire nulla: nella zona i poliziotti non fanno passare neanche un pezzo di legno. L’obiettivo è sempre lo stesso: evitare che il campo diventi permanente. Solo le tende sono autorizzate.

In questa giornata di vento e pioggia le tende sono alla mercé del vento, con la sabbia che s’intrufola in ogni interstizio. Due ragazzi raccolgono in tutta fretta dei sassi che useranno per riempire dei sacchi e fissare meglio la tenda. Nel terreno sabbioso i picchetti non tengono bene se non sono piantati in profondità. Visto il tempo siamo contenti di poterci rifugiare in uno dei ristoranti che la prefettura non ha ancora raso al suolo. Il 12 agosto il tribunale amministrativo ha respinto la richiesta di abbatterlo, ma la prefettura ha presentato ricorso al consiglio di stato.

A metà mattina, con gli abitanti dell’accampamento svegli da poco, Salah e Josef tornano alle loro tende: “No chance this night”, dicono sorridendo. La polizia li ha fermati mentre cercavano di raggiungere l’Inghilterra attaccati al retro di un camion. Dicono di essere siriani e raccontano di essere arrivati a Calais cinque mesi fa. Almeno non sono stati investiti sull’autostrada, come capita spesso. Un po’ più lontano i nuovi arrivati aspettano pazientemente davanti alla roulotte dell’Auberge des migrants per la prima accoglienza. “Tra le 11 e le 13 distribuiamo tende e sacchi a pelo”, spiega Konforti. Una quarantina ogni giorno.

È così che le associazioni riescono a valutare i flussi. Ogni mese fanno un censimento dei presenti nel campo. Secondo i loro calcoli oggi i migranti sono almeno novemila, molti di più di quelli stimati dalla prefettura. E il numero cresce di giorno in giorno. “La settimana scorsa distribuivamo duemila pasti al giorno, oggi siamo a 2.500”, precisa la volontaria dell’Auberge des migrants. “E questo vale per tutte le associazioni. La Vie active è arrivata a 3.900 pasti, Kitchen in Calais a 1.500, Belgian kitchen a 1.300”.

Tutti i giorni ci sono almeno una decina di tende in più

Gaël Monzy, coordinatore dell’associazione Utopia 56, è d’accordo. La sua associazione si occupa principalmente della pulizia del campo. “Tutti i giorni ci sono almeno una decina di tende in più”, afferma. I profughi dormono tutti insieme, pigiati come sardine, in iglù di tela. Le tende sono addossate una all’altra e a malapena si passa in mezzo. Le strutture all’africana ben organizzate e recintate, dove si svolgeva la vita collettiva, con capanne adibite a sale comuni e altre a stanze, sono state sommerse dalle tende. Una densità abitativa pericolosa in caso di incendio.

Diritto d’asilo
Alla scuola laica i corsi di francese e d’inglese attirano tra 180 e 250 studenti al giorno. Nel cortile una decina di professori volontari fa lezione davanti a piccoli gruppi. La scuola è stata creata da uno dei profughi, Zimako Mel Jones, che oggi non c’è. A gestirla, in sua assenza, è Patrick, un congolese. È uno dei cosiddetti dublinesi della giungla: le sue impronte digitali sono state prese per la prima volta in Italia, ed è lì che dovrebbe presentare domanda d’asilo secondo il regolamento di Dublino.

L’obbligo di accoglienza del primo paese d’arrivo, tuttavia, scade dopo dodici mesi, e Patrick, che vuole restare in Francia, sta aspettando che questo periodo passi per avviare la procedura di asilo a Calais. Ma non vuole andare in un centro d’accoglienza: “Ti spediscono in un villaggio dove non c’è niente da fare e spendi un sacco di soldi per mangiare”. Non sa che ha diritto a un sussidio di 10 euro al giorno per i pasti. In ogni modo preferisce rimanere a Calais perché “qui ci aiutano”.

In effetti senza i volontari la situazione sarebbe esplosiva. “Le associazioni sono organizzate meglio di un anno fa e riescono a compensare le carenze dello stato”, dice Monzy. “Ma servono più volontari”. Maya Konforti è preoccupata anche per il calo delle donazioni: “Con quei soldi dobbiamo affrontare le necessità di una piccola città”. Ma per ora quello che le associazioni cercano di negoziare con lo stato è un pezzo di terreno in più. “Non è possibile ammucchiare la persone in questo modo”, sospira Monzy.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato il 2 settembre 2016 a pagina 22 di Internazionale, con il titolo “La giungla eterna dei migranti di Calais”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita su Libération.

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