Questo articolo è stato pubblicato il 6 luglio 2007 nel numero 700 di Internazionale.

La bomba che in un lampo distrusse Hiroshima in una calda mattina di agosto del 1945 fu sganciata da un quadrimotore B-29 dell’aviazione degli Stati Uniti. A differenza di tutte quelle esplose fino a quel momento, non era di tipo convenzionale: era un ordigno atomico, progettato per sprigionare l’energia descritta da Albert Einstein. Era una bomba elementare, con detonazione a proiettile, che oggi molti sarebbero in grado di costruirsi in cantina. L’energia rilasciata su Hiroshima fu pari a quella di quindicimila tonnellate di tritolo, la temperatura sprigionata superò quella del sole e furono emesse radiazioni mortali che si muovevano alla velocità della luce. Le vittime furono più di 150mila.

Tre giorni dopo, sulla città di Nagasaki venne sganciato un ordigno ancora più potente: una sofisticata bomba a implosione costruita intorno a una sfera di plutonio delle dimensioni di una palla da baseball. I morti furono 70mila. In molti hanno sostenuto che la resa del Giappone si sarebbe potuta raggiungere con un dispendio di vite umane molto inferiore, facendo esplodere un ordigno in alto mare o nel porto di Tokyo. Ma lo scopo era terrorizzare quanto più possibile un intero paese, e il modo più sicuro per raggiungerlo era sganciare un’atomica sulla popolazione civile.

Fin dal principio dell’era atomica, gli scienziati sapevano che in un futuro abbastanza vicino gli ordigni atomici sarebbero diventati più piccoli e con una potenza distruttiva molto superiore ai ventidue chilotoni di Nagasaki. Erano anche consapevoli del fatto che le nozioni scientifiche necessarie per costruire una bomba si erano già ridotte a un semplice problema di ingegneria: era impossibile frenare la loro diffusione. Entro pochi anni l’umanità si sarebbe trovata di fronte al rischio dell’autodistruzione.

Per questo, dopo la resa del Giappone, alcuni scienziati coinvolti in vario modo nella costruzione della bomba – tra cui Albert Einstein, Robert Oppenheimer, Niels Bohr e Leó Szilárd – fondarono la Federation of american scientists (Fas), con lo scopo di spiegare ai leader politici e all’opinione pubblica americana cosa fossero veramente le armi nucleari. All’epoca Washington si cullava nell’illusione che l’America possedesse un grande segreto, e che avrebbe potuto tenersi la bomba solo per sé. I fondatori del Fas non erano d’accordo.

Un equilibrio precario
L’avvertimento degli scienziati era molto semplice e diretto. L’intero pianeta, sostenevano, avrebbe avuto molto presto le armi nucleari. Niente più segreti, quindi, e nessuna difesa impenetrabile: era cominciata l’era nucleare. Impossibile tornare indietro.

Alcune delle soluzioni proposte allora, oggi fanno sorridere. Einstein, per esempio, invocava la creazione di un governo globale illuminato, con uno stato maggiore formato dai militari dei paesi che fino al giorno prima erano stati nemici, e lo smantellamento volontario degli stati sovrani. Ma i fondatori della Fas non erano solo degli idealisti. Erano spinti da una miscela di coraggio e disperazione e i loro appelli dimostravano l’esistenza di un’angoscia collettiva per il rischio atomico.

I segreti delle tecnologie nucleari sono stati svelati molto presto. Grazie anche al contributo – utile, ma non determinante – di un gran numero di spie, sono stati creati degli arsenali nucleari in Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia, Cina e altrove. Come gli scienziati americani avevano previsto, ognuna di queste nazioni ha acquisito la tecnologia per costruire la bomba. Ma per fortuna, sessant’anni dopo, sappiamo come sono andate le cose: l’apocalisse non c’è stata e abbiamo avuto, seppure per le ragioni sbagliate, una sorta di pace nucleare.

Proprio quella che era la principale preoccupazione degli scienziati nel 1945, cioè l’assenza di un sistema di difesa, si è rivelata l’unica àncora di salvezza possibile, anche se precaria perché si basa su un continuo gioco al rialzo. Ma il messaggio degli scienziati della Fas resta attuale. L’equilibrio nucleare è solo una risposta provvisoria a una minaccia che esiste ancora, visto che la situazione di fondo non è cambiata: la conoscenza dettagliata del procedimento che porta alla costruzione della bomba è di dominio pubblico, e qualsiasi nazione può procurarsi l’atomica.

L’inverno scorso, a Mosca, ho avuto modo di parlare con un veterano della guerra fredda, che oggi occupa un posto di rilievo nella burocrazia nucleare della nuova Russia capitalista. Con il suo completo di velluto, le sopracciglia a cespuglio e il volto impassibile, aveva quasi l’aspetto di un relitto del passato. La sua mente, però, era quella di un uomo del nostro tempo. Dopo aver accusato gli Stati Uniti di non affrontare nel modo giusto il dossier del nucleare iraniano, è passato a parlare di problemi più generali. Il sistema di alleanze sopravvissuto alla guerra fredda, ha spiegato, ha perso gran parte della sua efficacia e non offre particolari garanzie in termini di sicurezza nucleare.

Uranio o plutonio?
Oggi gran parte dei paesi del mondo è di nuovo sensibile al richiamo della bomba e del potere che solo un arsenale atomico può garantire. La tecnologia delle armi nucleari è diventata conveniente, soprattutto per i paesi meno ricchi. Con la bomba atomica ogni nazione riesce a soddisfare le più grandiose ambizioni politiche senza spendere cifre impossibili e andare in rovina. Se lo scopo è intimidire i vicini o farsi rispettare non esiste un sistema più rapido ed economico. Negli ultimi anni tutto è cambiato: le grandi potenze si sono ritrovate con arsenali che non potevano usare e la bomba è diventata l’arma dei poveri. In teoria, l’idea di un mondo in cui il debole diventa più forte e chi è sempre stato forte è costretto a venire a più miti consigli ha in sé un qualche senso di giustizia. Ma dal punto di vista politico si corre il rischio che i nuovi soci del club nucleare si comportino in modo diverso dalle grandi potenze del secondo dopoguerra. E che quindi finiscano per usare davvero la bomba.

Ancora più preoccupante, ma altrettanto realistica, è la possibilità che l’atomica cada nelle mani dei jihadisti. Loro, infatti, non hanno nulla da temere perché nessuno può convincerli a venire a patti usando i metodi tradizionali e normalmente efficaci con i paesi sovrani: cioè minacciando di colpire gli obiettivi strategici. Il risultato è che niente può garantire la cosiddetta pace nucleare. Il pericolo si è manifestato per la prima volta negli anni novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e si è mostrato in tutta la sua gravità dopo l’11 settembre. Con le spalle coperte, e alla ricerca di azioni sempre più clamorose, oggi i jihadisti non esiterebbero a far esplodere un ordigno atomico.

Se un gruppo terrorista vuole un’atomica, non può certo comprarne una già pronta. Le bombe sono considerate beni di interesse nazionale e strategico, e perciò sono custodite in siti protetti e sorvegliati da corpi militari d’élite. Ma c’è un’alternativa: costruirsi un ordigno da sé. La parte più complessa è la produzione di un combustibile di elevata qualità. Il resto è relativamente facile.

Allestire un impianto per la produzione di combustibile nucleare è impensabile, ed è assurdo anche aspettarsi un aiuto dal Pakistan, dall’Iran o da qualsiasi altro stato. Ma non è necessariamente un problema. Il mondo è pieno di materiale fissile pronto per l’uso, e a un gruppo terrorista ne basta una modica quantità. Da qualche parte è sicuramente possibile comprarlo. O rubarlo.

A questo punto è utile sapere esattamente che tipo di combustibile serve. Per le normali bombe a fissione, le opzioni possibili sono solo due: plutonio o uranio arricchito. Il plutonio è un elemento artificiale prodotto dall’uranio nei reattori: per separarlo dalle altre scorie basta un procedimento chimico.

L’alternativa è l’uranio ad alto arricchimento, o Heu, che contiene più del novanta per cento di isotopo fissile, l’U-235. Dal punto di vista operativo è il combustibile perfetto per una bomba fatta in casa. Durante la lavorazione si presenta come gas liquido, polvere o metallo. È tossico quanto il piombo e, a meno che non se ne ingerisca qualche particella o se ne respiri la polvere, non è pericoloso. Anzi, la sua radioattività è talmente bassa che si può toccare a mani nude e trasportare tranquillamente in uno zainetto: con una schermatura anche leggera può superare qualsiasi rilevatore senza far suonare l’allarme.

I lingotti di materiale fissile, però, vanno conservati a distanza l’uno dall’altro. Se infatti si trovano molto vicini a una massa di uranio possono innescare una reazione a catena e quindi delle esplosioni. La massa critica di uranio in grado di scatenare la reazione è inversamente proporzionale al livello di arricchimento: se il materiale è arricchito al venti per cento, ne serve circa una tonnellata, mentre con un arricchimento del novanta per cento ne bastano meno di cinquanta chili.

Tutti questi particolari me li ha rivelati un fisico di New York. Quando gli ho chiesto se non temeva che informazioni simili potessero arrivare a dei terroristi, mi ha risposto che le sue presunte rivelazioni erano l’abc del nucleare, cose che si trovano nei libri di scuola.

Ma come mettere le mani sul materiale fissile? Forse non è necessario organizzare furti o rapine. Basta sistemarsi in un posto tranquillo, magari a Istanbul, e aspettare che il materiale venga consegnato.

Caos russo
La Turchia è il bazar del pianeta, e data la sua vicinanza al Medio Oriente è la meta preferita di chi ha da vendere materiale nucleare. Secondo quanto risulta dalla banca dati dell’università di Salisburgo, nelle vicinanze della capitale turca ci sono stati almeno venti episodi accertati di contrabbando nucleare.

Per fare acquisti, tuttavia, la prima cosa da fare è trovare un venditore. Anche se tutto l’Heu esistente è sotto stretta sorveglianza, in molti paesi, a cominciare dalla Russia, lo si può comprare. Con il crollo dell’Unione Sovietica i magazzini in cui si trovavano enormi quantità di uranio arricchito sono rimasti praticamente incustoditi. Ma perché, allora, i terroristi non ne hanno approfittato? Forse non conoscevano la situazione. O forse il controllo sull’ex arsenale nucleare sovietico non era poi così blando come molti credevano. In ogni caso il governo americano è intervenuto rapidamente, cercando di porre rimedio al caos dei primi anni novanta.

Nel 1993 hanno preso il via dei programmi di cooperazione con tutti gli stati ex sovietici per impedire che le armi nucleari cadessero nelle mani sbagliate. In realtà, quei progetti si sono ridotti alla concessione di milioni di dollari in aiuti a Mosca.

Ma ci sono stati anche interventi importanti. Due in particolare. Il primo, curato dal dipartimento della difesa, ha consentito alla Russia di consolidare, mettere in sicurezza e distruggere un numero consistente di testate nucleari, mentre il secondo ha riguardato la messa in sicurezza delle scorte di uranio arricchito. Gran parte del lavoro è toccato al dipartimento statunitense dell’energia, e in particolare a quei funzionari che avevano esperienza nella gestione delle infrastrutture degli armamenti nucleari. Questo gruppo di persone si è poi organizzato in un’agenzia semi indipendente, la National nuclear safety administration (Nnsa).

Fizeau. Nevada, Stati Uniti, 1957. (Michael Light, Contrasto)

Il più grave difetto di Washington nell’affrontare problemi simili, però, è l’incapacità di muoversi al di fuori dei contesti formali. Questo ha lasciato ai terroristi un ampio spazio di manovra. Chi vuole costruirsi una bomba deve avere per prima cosa grande familiarità con la strada: cioè con ambienti non istituzionali, economia informale e rapporti ai limiti della legalità.

Per capire meglio il grado di sicurezza degli impianti russi e il funzionamento di questi meccanismi, sono stato a Ekaterinburg, una città siberiana da dove è possibile raggiungere in un paio d’ore di auto cinque delle dieci città nucleari dell’ex Unione Sovietica. Si tratta essenzialmente di centri di produzione, dove è custodito un po’ di tutto, comprese testate nucleari in varie fasi di assemblaggio e diverse centinaia di tonnellate di materiale fissile di ottima qualità. Queste scorte di uranio, in gran parte adatto a produrre armi, non sono abbandonate a se stesse: nelle città nucleari uranio e plutonio sono ancora strettamente sorvegliati.

Anche se hanno ricevuto una quota considerevole dei dollari spesi per migliorare la sicurezza russa, le città chiuse e gli impianti nucleari intorno a Ekaterinburg continuano a preoccupare sia la Nnsa sia, in misura maggiore, gli osservatori indipendenti. Secondo questi ultimi il rischio di furti nei siti russi da parte di terroristi resta alto.

Strategie di fuga
Ozersk è una città di 85mila abitanti che nell’Unione Sovietica era talmente segreta da non avere neppure un nome: per indicarla si usavano delle cifre. Ancora oggi è possibile fare confusione: quando ci si riferisce alla sua produzione nucleare, Ozersk viene spesso chiamata Majak, che è il nome di un distretto industriale all’interno del perimetro urbano, ma distante qualche chilometro dal centro della città.

Il complesso di Majak, che dà lavoro a 14.500 persone, continua a trattare uranio arricchito, plutonio e tritio (il terzo isotopo dell’idrogeno) per le testate nucleari. Negli ultimi tempi si è tentato di invertire la rotta, e oggi Majak è uno dei due o tre siti russi dove si estrae materiale dalle testate esistenti e lo si spedisce altrove per farlo trattare. Questo significa che lì si trovano parecchie tonnellate di Heu e di plutonio di altissima qualità, materiali perfetti per costruire bombe. In città è appena stato portato a termine il Plutonium palace, un deposito fortificato costato trecentocinquanta milioni di dollari.

L’impianto è stato pensato per ospitare il quaranta per cento del materiale fissile in eccesso rimasto nelle mani dell’esercito russo. Per via delle solite beghe tecniche e burocratiche, il magazzino è ancora vuoto ma prima o poi entrerà sicuramente in funzione. E, quando succederà, il mondo sarà un posto più sicuro. Secondo chi combatte tutti i giorni la minaccia nucleare, tuttavia, il Plutonium palace non risolverà tutti i problemi, perché non proteggerà né ridurrà i grandi quantitativi di materiale fissile disponibili in altri posti in Russia, anche nella stessa Ozersk.

I tecnici della Nnsa hanno tentato di correre ai ripari, installando telecamere e rivelatori di radiazioni e rafforzando le strutture e le recinzioni del magazzino. Ma i lavori sono stati fatti solo su alcuni edifici e sempre sotto stretta sorveglianza dei russi, che hanno sempre fatto capire di temere le spie americane molto più dei ladri e dei terroristi.

Prendendo in considerazione tutte le variabili, costruire una bomba atomica è più difficile di quanto sembri. Ma non è impossibile

A Ozersk si vive di solo nucleare. L’uranio utilizzabile a scopi militari viene stoccato a Majak in varie forme: in polvere, in barre, in lingotti e in semisfere perfettamente rifinite, come quelle usate per le testate. Questi nuclei sono custoditi in leggeri contenitori d’acciaio di forme diverse, con un involucro protettivo molto sottile. I contenitori non sono chiusi con lucchetti o altre serrature, ma sigillati. Vengono impilati sugli scaffali dei caveau o in stanze normalissime, in una ventina di edifici diversi. Poi ci sono veri e propri container, più grandi e molto colorati. Servono per trasportare il materiale, sui camion o in treno, da una città o da un impianto all’altro. A volte li lasciano all’aperto. Tuttavia, la situazione è meno confusa di quanto si potrebbe credere. La differenza con i sistemi di sicurezza usati negli Stati Uniti è che in Russia si fa affidamento soprattutto sul lavoro delle persone e non sugli strumenti della tecnologia.

In questo campo, tuttavia, ci si muove su un terreno scivoloso. L’immagine che all’estero si ha di Ozersk – corruzione, mancanza di regole, caos diffuso – sembra ideale per attirare l’attenzione dei terroristi. Inoltre, i militari che dovrebbero garantire la sorveglianza sono per la maggior parte soldati di leva scartati dall’esercito: non proprio le truppe di élite di cui il ministero favoleggia.

Ma nell’eventualità di un attacco, ubriachi o no, anche i soldati non se ne starebbero con le mani in mano. Questo non toglie che, almeno secondo gli specialisti americani, un attacco coordinato su vasta scala potrebbe superare le difese russe. Per farsene un’idea basta pensare al sequestro nel teatro sulla via Dubrovka a Mosca nel 2002 o a quello nella scuola di Beslan due anni più tardi.

Traffici e frontiere
Una volta messe le mani sull’uranio, i terroristi potrebbero nasconderlo o cercare di trasportarlo fuori dal paese. Una cosa più difficile di quanto si creda, soprattutto oggi che la Russia ha riacquistato la sua vecchia identità autocratica e ha ripreso in mano il controllo del territorio.

Il confine più vicino a Ozersk è quello con il Kazakistan, a sud: sono appena quattro ore di macchina. Ma la strada non è delle migliori e i valichi di frontiera possono essere agevolmente bloccati sia dalla parte russa sia da quella kazaka. Il Kazakistan, inoltre, ha un controllo del territorio capillare e si è appena disfatto delle sue armi nucleari: non è certo il nascondiglio più sicuro per un carico di uranio.

La cosa migliore sarebbe rimanere in Russia e puntare verso il mar Caspio o il Caucaso, tentando di far passare l’uranio in Turchia attraverso l’Armenia, l’Azerbaigian, la Georgia o l’Iran settentrionale. Questo significa che ai fuggitivi servirebbero almeno tre giorni. Ma per scoprire il furto, a Majak, ci metterebbero al massimo tre ore.

Un’alternativa sarebbe farsi aiutare da qualcuno che lavora a Ozersk per entrare nei magazzini. Un tecnico o un operaio potrebbero neutralizzare le difese, far passare dai cancelli l’Heu senza che suoni nessun allarme e dare ai fuggitivi un vantaggio di settimane o di mesi. Secondo gli osservatori americani, è questo il pericolo maggiore che la Nnsa deve fronteggiare oggi.

Con cinquanta chili di uranio rubato divisi in due zaini e un buon margine di vantaggio sulle forze di sicurezza russe, il più è fatto. Degli americani non c’è da preoccuparsi troppo. A questo punto bisogna decidere dove andare.

King, Atollo di Enewetak, Isole Marshall, 1952. (Michael Light, Contrasto)

Un funzionario di Washington mi ha parlato della seconda linea di difesa, un progetto che prevede l’installazione di rivelatori di radiazioni in tutti i posti di confine dell’ex Unione Sovietica, soprattutto lungo le vie del contrabbando in Asia centrale e nel Caucaso. A sud della Russia l’attenzione va soprattutto alla Georgia, una delle nazioni più corrotte al mondo. Molti suoi politici sono veri e propri banditi, tutti i suoi funzionari rubano, e l’economia si basa sul mercato nero. Sono andato a vedere di persona il progetto pilota di questo sistema di sicurezza: una stazione costruita sul principale valico di confine tra Georgia e Azerbaigian che gli americani hanno chiamato Red bridge.

La sera in cui l’ho visitata, gli edifici erano vuoti e i nuovi rivelatori non erano ancora in funzione. Se anche strumenti del genere fossero attivi non impedirebbero comunque ai contrabbandieri di trovare altri mezzi per passare i confini: magari a cavallo, su un mulo, su una Lada temeraria o una bicicletta scassata.

In questo contesto, il Red bridge più che un posto di frontiera è un segnale di resa. E anche emblematico. Di fronte alla necessità di realizzare sistemi capaci di identificare i contrabbandieri più insospettabili, gli americani si rivolgono agli agenti in divisa di un governo corrotto, gli forniscono edifici provvisti di aria condizionata, un po’ di paccottiglia elettronica, e gli chiedono di mettersi seduti in una stanza ad analizzare le informazioni in arrivo dalle telecamere e dai sensori.

Il guaio è che a questo errore strategico è difficile porre rimedio, dal momento che si tratta di un fallimento collettivo. A quanto sembra, infatti, coinvolge anche i servizi d’intelligence, tutti presi dalla caccia ad Al Qaeda, ma con pochissima voglia di piazzare trappole su terreni poco battuti, nell’eventualità – peraltro assai remota, a qualsiasi latitudine – di intercettare un paio di pacchetti di un certo metallo grigio. Ma non si può mai dire: è possibile che in realtà i servizi si stiano muovendo, e che per una volta siano così discreti da non farsene accorgere. Tuttavia, se mi trovassi a passare un confine con un carico di uranio arricchito, in questo momento scommetterei di farla franca.

L’impressione è che il governo americano, guardando il mappamondo per capire dove bloccare i traffici clandestini di uranio, abbia deciso di considerare intere regioni fuori controllo. Come è facile immaginare, tuttavia, le aree in questione sono proprio quelle da cui passa gran parte del commercio di oppio.

Molti pensano che, per un compenso adeguato i trafficanti di oppio sarebbero disposti a fornire mezzi di trasporto, alloggio e consulenza ai terroristi nucleari. Non a caso il narcotraffico viene spesso usato come esempio per spiegare quanto sia difficile opporsi al contrabbando di materiale nucleare.

L’impressione è che il governo americano abbia deciso di considerare intere regioni fuori controllo

Per gli Stati Uniti la contiguità fra questi due traffici è solo una coincidenza sfortunata. Per cambiare le cose, pensano a Washington, basterebbe parlare con le persone giuste e convincerle. Le persone giuste, però, non sono i funzionari locali e per trovarle bisognerebbe perlustrare le valli sperdute che conducono ai passi di alta montagna, oppure i porti o i confini che intersecano le vie del contrabbando, in Asia centrale, nel Caucaso e sul mar Caspio.

Soprattutto, chi lotta contro il traffico di uranio dovrebbe capire che spesso le regioni considerate al di fuori del controllo dei governi sono molto meno caotiche di quanto si immagina nelle ambasciate americane o a Washington.

Per cominciare a combattere sul serio il contrabbando bisognerebbe andare in giro senza dare troppo nell’occhio, possibilmente in taxi, insieme a una guida che dia una mano anche con la lingua. E non con l’obiettivo di reclutare militanti o spie tra i contadini, ma solo per farsi un’idea di come funziona il sistema di potere parallelo. Nella maggior parte di queste zone, le persone che contano qualcosa sono al massimo due o tre, e in genere si tratta di uomini al tempo stesso aggressivi e disponibili, i cui interessi vanno molto al di là del semplice traffico di stupefacenti. Ai loro nomi si arriva abbastanza in fretta. Alcuni sono pericolosi, ma la maggior parte accoglie gli stranieri a braccia aperte.

Dopo due o tre viaggi, si dovrebbe mettere bene in chiaro con questi uomini che per ogni carico di uranio consegnato è previsto il pagamento di una taglia sostanziosa. Certo, i moralisti americani dovrebbero tenere a freno l’indignazione per l’orrendo mercimonio con i signori della droga, ma vista la posta in gioco potrebbe valerne la pena.

Costruire l’ordigno
Qualche mese fa ho fatto il primo di due brevi viaggi nelle montagne della Turchia orientale, nella zona curda al confine con l’Iran. La frontiera è attraversata da una delle strade più rapide per raggiungere Istanbul dalle città segrete degli Urali: si fa tutta la Russia, poi il Caspio, e alla fine l’Iran nordoccidentale. È un paesaggio aperto, circondato da cime coperte di neve e solcato da valli lunghissime, ma i confini corrono su valichi non troppo alti, che si possono superare a piedi in qualche ora. È il regno del contrabbando: qui ogni notte passano convogli che trasportano gasolio dall’Iran e oppio dall’Afghanistan.

I villaggi dei dintorni sembrano sonnolenti, ma non lo sono affatto. Si capisce subito che l’intera regione è ben controllata, che nessuno si muove in modo autonomo e che ogni attività di una minima importanza va approvata dalle autorità. E non si tratta certo dei rappresentanti del governo turco. Il centro del potere si trova a Baskale, una cittadina nota per le sue raffinerie di eroina. Quando il Pakistan ha deciso di comprare clandestinamente delle centrifughe per scopi militari, alcuni pezzi chiave li ha fatti passare da qui.

Nel centro di Baskale c’è la grande casa gialla del capo degli Ertosi, il clan allargato che domina tutta la zona circostante e conta fra i 150 e i 200mila membri.

Un pomeriggio sono stato invitato per il tè. Il mio ospite era un robusto signore sui cinquant’anni, con una grande barba nera, arrivato per qualche giorno da Ankara. L’interprete mi ha presentato come un insegnante inglese in vacanza, e questo ha spiazzato il mio ospite. Per terra, davanti a lui, c’era una sfilza di cellulari, alcuni dei quali suonavano in continuazione. Tra una telefonata e l’altra, gli ho fatto qualche domanda sul traffico di gasolio. Ho avuto delle risposte, ma mi sono subito accorto che appena tentavo di approfondire l’argomento, diventava evasivo. Insospettito, ha chiesto al mio interprete perché mai un insegnante inglese facesse tutte quelle domande. Abbiamo tolto il disturbo.

Qualche settimana più tardi sono tornato nella zona per incontrare il capo di un clan minore. In realtà è potentissimo anche lui e comanda, per diritto ereditario, i circa ventimila Ertosi che controllano una delle aree di confine più importanti per i traffici. Mi aspettava nel suo fortino arroccato su una montagna, fra chiazze di neve. Ci siamo seduti tra una decina dei suoi uomini, in una stanza di pietra davanti a una stufa accesa. Non mi ha parlato né di droga né di uranio, ma del traffico di combustibile diesel. Nessuno straniero, mi ha detto, può passare il confine senza che lui lo sappia. Per trasportare l’uranio oltre il confine bisognerebbe affidarsi a uomini come lui e poi sparire nella confusione di Istanbul.

A questo punto si pone il problema di come e dove costruire la bomba. Bisogna tenere ben presente che nessuno stato sovrano – né la Libia né il Sudan né l’Iran – vorrà mai essere collegato alla costruzione di un’atomica sporca. Nel caso la bomba esploda, ogni tornaconto economico non potrebbe compensare le conseguenze di una rappresaglia. Inoltre, affidandosi a un governo sovrano ci sarebbe il rischio di vedersi confiscato tutto senza alcun preavviso.

Per questo, è necessario lavorare in segreto, magari in un’officina non più grande di un garage. Il luogo scelto dovrà contenere macchinari e torni a controllo numerico, oltre a tutta una serie di strumenti molto costosi. Le autorità dovranno credere che si tratti di un’azienda manifatturiera, magari una piccola fabbrica di pompe industriali o di componenti per la trasmissione delle automobili. Tutto questo è possibile in una delle tante città del mondo che i governi controllano solo in parte, dove la corruzione regna sovrana e il rumore di un’officina può confondersi con quello delle altre attività industriali nelle vicinanze. Si può scegliere fra Mombasa, Karachi, Bombay, Giakarta, Città del Messico, São Paulo o qualche altra metropoli.

La reazione a catena
Ognuna di queste soluzioni ha dei pro e dei contro. Vista la vicinanza alle rotte del contrabbando, si potrebbe anche decidere di rimanere a Istanbul.
Per costruire la bomba ci vogliono circa quattro mesi. Le dimensioni della squadra dipendono dal tipo di uranio arricchito disponibile. La formazione base deve comprendere un fisico o un ingegnere nucleare, un paio di operai specializzati, che possibilmente abbiano già lavorato l’uranio, un esperto di esplosivi in grado di progettare e maneggiare il propellente, e uno specialista di elettronica per il detonatore.

Cosa ci sia da fare, a grandi linee, è abbastanza chiaro. La catena di reazioni nucleari si innesca quando un singolo neutrone accelerato spacca un atomo di uranio, cioè provoca una fissione. Questa genera altri due neutroni, che spaccano altri due atomi, e così via. È una progressione velocissima, esponenziale. Perché ci sia l’esplosione serve però una quantità di atomi sufficiente a mantenere la reazione attiva per diverse generazioni, prima che i neutroni arrivino alla superficie dell’uranio e si disperdano nell’aria. Dunque, a ogni livello di arricchimento e a ogni forma dell’uranio, corrisponde una determinata massa critica, cioè un quantitativo di uranio necessario a innescare l’esplosione. Una bomba a proiettile richiede due masse di uranio, ognuna delle quali sottocritica, che si fondono in una sola, che diventa così sovracritica.

In una bomba del genere, i due emisferi di uranio si uniscono formando una sfera. Per limitare ulteriormente la fuoriuscita dei neutroni, uno degli emisferi, quello ricevente, viene alloggiato in un metallo denso, in genere il piombo. Questo materiale aiuta anche a ritardare, pur se di poco, l’espansione esplosiva, in modo che in un intervallo di tempo più ampio ci sia un numero maggiore di neutroni che si scindono prima dell’autodistruzione. Uno dei due emisferi, quello che riceve, è concavo. L’altro, che in alcuni casi viene chiamato “proiettile” o “tappo”, ha invece una superficie convessa, che si adatta perfettamente a quella del primo. Quest’elemento viene collocato sulla sommità di una canna perfettamente liscia. Poi, al momento di far esplodere la bomba, il proiettile viene spinto lungo la canna da una carica di propellente chimico, che brucia gradualmente in modo da non lacerare le pareti. La velocità ideale del proiettile è circa mille metri al secondo, tre volte quella del suono, più o meno quella di una pallottola. La collisione tra le masse deve avvenire prima che la reazione nucleare si scateni in modo autonomo. A quel punto l’Heu farà quasi sicuramente il suo dovere, anche se nel caso di un ordigno molto primitivo si possono registrare variazioni significative di resa, che dipendono sia dal tempo sia dalla propagazione della reazione a catena.

Nei progetti militari convenzionali, in cui si usano generatori di neutroni, l’efficacia viene prevista con estrema accuratezza, consentendo di costruire bombe molto piccole e sicure. Non è strano, quindi, che anche le testate costruite da paesi relativamente arretrati come il Pakistan siano ordigni molto complessi.

Gli ultimi rischi
Uno degli errori più frequenti è pensare che i terroristi cerchino di costruire ordigni molto sofisticati e che, di conseguenza, abbiano bisogno di una serie di conoscenze in possesso solo dei laboratori governativi. Per un terrorista, colpire New York con una bomba da dieci o da venti chilotoni è indifferente, mentre è della massima importanza mantenere segreta la propria attività, riducendo la progettazione al minimo.

Anche con un ordigno rudimentale, però, nulla può essere lasciato al caso. Le macchine, il rumore insolito e l’andirivieni di persone in una piccola officina costituiscono l’ultima linea di difesa dell’occidente.

Una città come Istanbul, che da lontano può sembrare anarchica, e che ha da sempre un rapporto complicato con l’autorità centrale, è in realtà un mosaico di comunità strettamente legate fra loro, con una struttura di potere molto simile a quella dei territori di confine. Anche nei quartieri più caotici, dove si alternano piccole fabbriche, condomini abusivi e colonie di immigrati o di persone senza fissa dimora, sarebbe molto difficile impedire ai vicini di ficcare il naso dove non devono. Lo stesso vale per Mombasa, Karachi e per qualsiasi altra città in cui si potrebbe pensare di costruire una bomba: sono tutti collettivi urbani ingovernabili nel senso più letterale del termine, ma non necessariamente fuori controllo.

Qualche trappola sistemata nelle zone più marginali di queste grandi città per i terroristi sarebbe molto più pericolosa di complesse ispezioni doganali, accertamenti burocratici o iniziative militari. Ma mi sembra molto difficile che i governi, a cominciare da quello americano, abbandonino certi schemi tradizionali per adattarsi alle tattiche del nemico.

In conclusione, se si calcolano tutte le variabili, costruire un’atomica è più difficile di quanto sembri: altrimenti qualcuno ci sarebbe già riuscito. Difficile, però, non significa impossibile. Naturalmente bisogna muoversi con estrema cautela, specialmente al momento di trasportare l’arma già assemblata e di scegliere la città da colpire. Come raggiungere il bersaglio? Con un aereo a noleggio? O sarebbe più sicuro caricare la bomba su un container? In questo caso si potrebbe usare direttamente una nave, oppure caricare l’ordigno su un camion e recapitarlo a destinazione.

Sono scelte importanti, e vanno valutate con attenzione, perché ognuna comporta grandi rischi. Forse, di tutti gli ostacoli che un terrorista può incontrare, i più innocui sono proprio quelli eretti negli ultimi anni dai governi europei e da quello americano nella lotta al terrorismo. mc

Questo articolo è stato pubblicato il 6 luglio 2007 nel numero 700 di Internazionale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it