Sessantuno milioni di elettori iraniani sono chiamati alle urne il 28 giugno per un’elezione presidenziale dall’esito incerto, in cui un candidato riformista sfida tre conservatori.

Come da tradizione, è stato l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran, a dare il via alle elezioni alle 8 del mattino esprimendo il suo voto in un seggio di Teheran.

Le elezioni sono state indette dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi in un incidente d’elicottero il 19 maggio.

L’evento è seguito con attenzione all’estero in un momento in cui l’Iran, un peso massimo del Medio Oriente, è al centro di una serie di crisi geopolitiche, dalla guerra nella Striscia di Gaza alla questione nucleare, ed è in contrasto con i paesi occidentali.

Se nessuno dei quattro candidati otterrà il 50 per cento dei voti, il 5 luglio si terrà un secondo turno.

I risultati ufficiali saranno annunciati entro il 30 giugno, ma quelli parziali potrebbero arrivare già il 29.

La sorpresa potrebbe arrivare dall’unico candidato riformista, Massud Pezeshkian, un deputato semisconosciuto di 69 anni che è stato autorizzato a candidarsi dal consiglio dei guardiani della costituzione.

Pezeshkian, un medico di origine azera, una minoranza del nordovest del paese, ha ridato speranza al campo riformista, schiacciato negli ultimi anni dai conservatori e dagli ultraconservatori.

I candidati più accreditati sono il conservatore Mohammad Bagher Ghalibaf, presidente del parlamento, e l’ultraconservatore Said Jalili, ex negoziatore del programma nucleare iraniano.

Nelle elezioni presidenziali del 2021, in cui nessun candidato riformista era stato autorizzato a partecipare, il tasso di affluenza era stato di appena il 49 per cento.

In Iran il presidente ha comunque poteri limitati: ha il compito di attuare, in quanto capo del governo, la linea politica dettata dalla guida suprema, che è il capo dello stato.